Stanno circolando le bozze degli accordi Stato – Regione per definire il trasferimento di competenze e risorse dallo Stato centrale all’Ente locale Regione in ossequio ai contenuti degli articoli 116 e 117 della Costituzione, agli specifici Referendum tenutisi in Lombardia e Veneto, alla richiesta avanzata all’Emilia-Romagna e a tutto il pregresso dibattito sul potere e sulla legislazione concorrente proprio delle nostre Regioni, che ha accompagnato e sostenuto l’origine, lo sviluppo, l’evoluzione e la trasformazione della Lega Nord. Il defunto costituzionalista, ispiratore del pensiero leghista secessionista, Gianfranco Miglio, sta sicuramente scalpitando per uscire dalla tomba e brindare coi suoi degni compari Umberto Bossi, Mario Borghezio, Erminio Boso.
Non c’è dubbio che il groviglio di ipotesi, formule, proposte e nodi, stia venendo al pettine. Le bozze degli accordi sono uscite dalle segrete stanze, dai conciliaboli parlamentari e sono approdate nell’aula parlamentare con un falso e stridulo grido di stupore dei deputati di ogni colore: il senso politico del patto Stato – Regioni era noto a tutti, tanto che è presente nel contratto di governo, stipulato da Lega e M5S, con la delega specifica al ministro per gli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, tanto che è stato sollecitato, a gran voce e ad ogni piè sospinto, dai governatori del Veneto e Lombardia, oggi rincorsi da quelli di Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche, abbandonati a mezza strada dalla Puglia e Lazio, insultati dal governatore campano De Luca, che insiste ad interpretare Pulcinella anche quando c’è poco da scherzare, per poi accodarsi. Insomma la bagarre parlamentare, le lamentele dei deputati e dei rispettivi partiti sono una vergognosa recita teatrale su un soggetto datato.
Già negli anni 90 del secolo passato i movimenti autorganizzati del Veneto avevano segnalato – senza trovare interlocutori attenti – la pericolosità sociale insita nel programma secessionista-autonomista della Lega, abbozzando percorsi di interlocuzione con quegli amministratori locali che, allora, si facevano carico, su di un piano teorico ma anche pratico, di dare una risposta altra, alternativa, solidale e mutualistica ad una reale tensione sociale, a trovare una relazione propositiva con l’Ente Locale, dentro il crollo del riconoscimento politico della funzione dei partiti, delle Istituzioni, del ruolo stesso dello Stato centrale, per costituire un Ente locale proiettato dentro un Europa anch’essa da rifondare politicamente. Sono stati esperimenti politici e sociali rimasti ancorati e limitati a specifiche realtà territoriali, probabilmente poco valorizzati e del tutto incompresi, allora ed anche oggi, nella loro valenza politica generale. Ci abbiamo provato, non ci siamo capiti e tutti hanno perso l’occasione politica di fondare un discorso nazionale e sovranazionale fondato sulle autonomie locali e l’autogoverno. Non eravamo e non siamo per lo Stato Nazione centralizzato [ci mancherebbe !!], era ed è fuori dalla storia: sentire parlare oggi di popolo, per mantenere propri interessi e vantaggi, di Piccole Patrie, dove meglio resistere e riappropriarci del Sol dell’Avvenir, ci fa inorridire, tanto quanto chi mistifica le critiche all’Europa del neoliberismo di rapina definendole quali offese inconcludenti e da principianti della politica.
Da oggi nelle aule parlamentari ci troviamo, preconfezionato e magari edulcorato rispetto alle bozze leghiste dei governatori Luca Zaia e Attilio Fontana, un disegno di legge che andrà a modificare, in mancanza di una reale opposizione, con il Partito Democratico che, di fatto, ha assunto l’autonomia regionale differenziale come proprio percorso, l’impianto costituzionale, così come lo abbiamo conosciuto, della Repubblica italiana, prefigurando una destrutturazione istituzionale che si pone, simmetricamente, come la proiezione della modificazione del Titolo V del 2001 e del, così detto, Fiscal Compact ovvero l’assunzione costituzionale delle compatibilità europee in materia di Bilancio dei singoli Stati, definito nel 1997 e vincolante dal 2013. Una destrutturazione dello Stato italiano che da un lato amplifica a dismisura le competenze degli Enti Locali, in questo caso la Regione, che diviene dominus nel e del proprio territorio, e dall’altro sancisce una sudditanza economico-finanziaria alla struttura sovranazionale dell’Unione Europea. In ambedue le situazioni, ingenerate da una forza politica centrifuga transnazionale, innescata da pressioni e da interessi particolaristici locali ed internazionali, lo Stato centrale cede grandi fette di potere reale, andando a modificare la costituzione materiale dei cittadini, creando una differenziazione sostanziale nell’accesso e nella fruizione dei servizi, nelle prospettive sociali e di vita: si inaugura istituzionalmente il diritto civile differenziato [italiano di serie A e B, comunitario C, extracomunitario D, e via via declinando territorialmente]. Una tendenza ed una pratica di differenziazione e segmentazione della cittadinanza presente in tutta l’Europa, in Germania, Paesi scandinavi, Francia in forma sotterranea e ammantata di efficientismo, nel Regno Unito nella forma urlata della Brexit, in Italia nella forma praticona della dicotomia Nord – Sud.
Gli effetti nel nostro Paese sono già documentati da molte ricerche e anche istituzionali prodotte dall’INPS, ISTAT, SVIMEZ: sono presenti differenti condizioni e possibilità di accesso per i cittadini nel campo della sanità, dei servizi sociali e di cura della persona, della distribuzione del reddito, dei consumi e dei comportamenti sociali. Tanto è profonda la differenziazione sociale per aree territoriali che, anziché venire colmato il divario preesistente, così come era avvenuto fino agli anni 90, si è allargata, ancora di più la forbice dei servizi e del reddito tra le 2 Italie. Ora si andrà ad una differenziazione ancora più spinta, appunto regionale o, più verosimilmente, nella materialità, macro regionale. Si profila il venir meno di un sistema di istruzione e formazione unitario, con lo scorporo dell’istruzione professionale e tecnica, con il passaggio gestionale e del reclutamento per il personale della scuola, ma perché no, di gran parte del Pubblico Impiego. Un passaggio amministrativo e gestionale alle Regioni in cambio di un riconoscimento stipendiale che nasconderà – ci scommettiamo – un aumento dell’orario di servizio. Da questo, al vilipendio del fu senatore Giacomo Brodolini, promotore negli anni sessanta della legislazione lavorista contro le differenziazioni contrattuali, con la reintroduzione delle gabbie salariali per tutti i comparti, anche queste, già ora presenti, ma occultate dalla contrattazione di secondo livello, il passo è breve.
Riscoprire la passione civile, soggettiva e collettiva, per i sentimenti di egualitarismo e di giustizia sociale, per bloccare questa oscena deriva, è da porre all’ordine dl giorno del nostro agire quotidiano, della nostra vita: nella crisi nasce il nuovo.