Difficile descrivere in sintesi la manifestazione Diritti senza confini, che sabato scorso ha attraversato il centro di Roma. Forse “inedito” è l’aggettivo più utile, calzante tanto per la genesi quanto per l’andamento della giornata. Sabato è successo “qualcosa”, qualcosa di più della forse rituale manifestazione d’autunno, qualcosa di importante che si può scorgere solo leggendo la piazza dal suo interno; così da saper ritrovare i filoni a partire dai quali si è originata e assegnare una giusta misura agli elementi simbolici di rappresentazione.
Proviamo ad appuntare alcuni elementi di riflessione.
Prima di tutto va spesa qualche parola per la composizione sociale che sabato si è palesata. Una manifestazione nazionale composta per larga parte da persone migranti è senza dubbio una novità, un fatto politico di cui non si può non tenere conto da oggi in poi. Va da sé che il modo di stare in piazza non sia gestibile nell’immediato né leggibile a posteriori attraverso le consuete lenti che ci parlerebbero di spezzoni, slogan, sigle. Roma ha accolto un fiume in piena, un’esuberanza di vitalità che fortunatamente ci ha travolto, facendoci mescolare in un corteo veramente meticcio che è stato anche e soprattutto luogo di nuova socialità, ambito di relazione tra i molti e diversi per biografia o provenienza geografica, condizione o esperienza di lotta o ancora forma di organizzazione.
Una manifestazione animata da una composizione sociale “vera”, animata dal desiderio di protagonismo, dalla voglia di dare evidenza sì alla propria condizione giuridica o lavorativa, ma soprattutto capace di consolidare quei legami relazionali che sono alla base della capacità di auto-organizzazione e intreccio delle lotte sociali.
Diritti senza confini nasce proprio dall’intreccio di lotte e capacità di resistenza che si è dato nell’assemblea di piazza dell’Esquilino l’8 ottobre, e questo è il secondo elemento da annotare. Va ricordato e sottolineato il percorso che sta a monte di questa giornata, soprattutto ne va segnalata l’apertura ed il conseguente allargamento, misurabile non solo dalla quantità di adesioni all’appello. Ma ancora di più deve balzare all’occhio la penetrazione capillare nei territori più disparati: la manifestazione di sabato ha davvero messo insieme dai braccianti schiavizzati delle campagne del sud ai protagonisti della rivolta di Cona, dai lavoratori della logistica agli operatori sociali dell’accoglienza.
Dai tanti e lunghi interventi in corteo ed in Piazza del Popolo è uscito un ragionamento complesso; è stato costruito un discorso attorno ai sei nodi – casa, reddito, lavoro, diritti di migranti e rifugiati, libertà, saperi e conoscenza – certamente non semplice da articolare e, all’indomani, impossibile da riassumere o sintetizzare, di sicuro non in una sigla ma nemmeno in qualche claim. Questo terzo aspetto, il ritorno di un lessico con una vocazione complessiva, acquisisce maggiore importanza se considerato assieme a quanto già detto sulla composizione dei soggetti che lo hanno espresso. Osiamo dire che forse le due cose sono interconnesse, e lo sono grazie al processo di costruzione che ha attraversato tutto l’autunno, ma è radicato nei fatti dell’estate: la sequenza degli sgomberi a Roma, la criminalizzazione della solidarietà culminata nel sequestro della nave Iuventa, gli accordi Italia-Libia. Fatti certamente distanti tra loro, ma frutto dello stesso disegno di esclusione differenziale implementato attraverso la retorica del degrado/decoro, divenuta strumento effettivo di gestione delle città.
Il ritorno nelle strade della capitale di una manifestazione nazionale convocata dai movimenti è un altro punto degno di nota. Così come va a questo proposito rimarcata l’assurda prescrizione di non entrare in Piazza Indipendenza, imposta forse più dal ministero che dalla volontà della Questura. Piazza Indipendenza è – e resta – il luogo dove si è materializzata l’ideologia securitaria di cui Minniti è indiscusso alfiere. Piazza Indipendenza è – e resta – al centro della rivendicazione di libertà e dignità che è il nucleo centrale delle lotte in questa fase. Il percorso di un corteo non è mai una questione di mera logistica, ma è un punto intrinsecamente politico: muoversi dentro la città va riportato sul piano dell’agibilità politica di soggetti ed istanze che si vogliono auto-rappresentare, così come la presenza e l’operato della polizia deve essere analizzato sotto questa luce.
L’apparato poliziesco ha ancora una volta esibito tutto l’armamentario disponibile: filtri ai caselli dell’autostrada, dispiegamento imponente di forze lungo il percorso ed in piazza del Popolo, l’immancabile idrante parcheggiato a lato di piazza Barberini, per tacer delle veline rilanciate dall’ANSA a proposito di “infiltrati” e provocatori vari che hanno tenuto banco nella settimana precedente il corteo. Anche gli aspetti narrativi non vanno affatto dimenticati: il montare della mobilitazione e la sua particolare cifra è stato senz’altro colto, le boutade sugli infiltrati e l’assenza della notizia del corteo nel mainstream – anche locale – nei giorni precedenti vanno letti assieme.
Come sempre, anche alla luce della gestione mediatica che ne è seguita, per comprendere veramente un evento con le caratteristiche e la portata della manifestazione che sabato ha attraversato le strade di Roma, è necessario averla vissuta, esserci stati dentro con convinzione e senza il timore di contaminazioni. L’appello che ha lanciato il corteo parla di un futuro che non è dissociato dal presente e contiene in sé una serie di punti – l’abolizione dell’Art.5 del piano casa, l’abolizione dei decreti Minniti-Orlando, l’abolizione dei trattati con la Libia, la rivendicazione di una regolarizzazione generalizzata per i migranti a cui è stato negato il permesso di soggiorno, per citarne alcuni – che legano prospettive di ampio respiro a necessità immediate. Quelle stesse necessità che devono essere riconosciute ed agite, se si vuole realmente aprire processi allargati di trasformazione delle condizioni materiali. Dalla potenza di una piazza di movimento, quando il contesto è trasparente, il percorso politico chiaro e i soggetti evidenti, parlare di un domani radicalmente diverso dal presente che stiamo vivendo e, nel contempo, porre da subito un piano di rivendicazioni immediate – che si intende esprimere senza mediatori, con la forza delle mobilitazioni, del quotidiano intervento nei territori e dell’interlocuzione diretta – è storicamente parte delle pratiche di un movimento reale, che è cosa ben diversa della rappresentazione ideologica di esso.
L’intuizione che ha aperto il campo di possibilità della giornata ha in sé il seme del rilancio oltre la manifestazione stessa. Certo il percorso è ancora all’inizio e le modalità per proseguirlo dovranno essere cercate e trovate attraverso ulteriori sperimentazioni e tentativi, che saranno utili solo se si misureranno sul terreno della concretezza e non su quello, evidentemente più facile ma inevitabilmente sterile, delle ipotesi astratte e dei giochi di ruolo.