L’8 marzo anche quest’anno sarà giornata di sciopero contro la violenza sulle donne ed ogni discriminazione di genere in tutto il mondo. In Italia il movimento “Non una di Meno” è tornato a rilanciare per il quinto anno consecutivo questo importante appuntamento, chiedendo anche l’adesione e il coinvolgimento delle sigle sindacali.
Ci riconosciamo pienamente nelle motivazioni e nelle parole d’ordine di questa giornata e nella lotta rivendicata dai movimenti delle donne in ogni angolo del pianeta dove ci sono ancora molte espressioni di violenza e discriminazione maschiliste, razziste e classiste.
In questo particolare periodo di crisi sanitaria, ma anche economica, sociale e climatica, il mondo del lavoro è stato fortemente colpito e le ineguaglianze latenti che lo permeano sono esplose con violenza: il precariato, il lavoro nero, lo sfruttamento e le disuguaglianze hanno creato, insieme alla pandemia, un effetto domino che ha visto cadere, come le pedine del famoso gioco, migliaia di lavoratori e lavoratrici.
I dati Istat e Inail pubblicati in queste ultime settimane impongono alcune importanti riflessioni: su ogni 10 persone contagiate in ambito professionale, circa 7 sono donne Questo è un dato che non dipende dalla capacità di contagio del virus, ma è rimandabile al fatto che l’essenziale lavoro di cura, pulizia e accudimento (persone anziane, bambine/i, persone non autosufficienti…) è fortemente femminilizzato e scarsamente tutelato.
Sono migliaia le donne costrette a sottostare al ricatto lavoro/salute, accettando di recarsi a lavoro in contesti privi di sicurezza, mettendo a rischio la propria vita e quella di chi, a casa, dipende da loro. Il lavoro delle donne per lo più non si conclude, infatti, nel momento in cui timbrano il cartellino, ma ha a che fare, come sottolineano spesso le attiviste del Movimento Internazionale delle Donne, con la riproduzione dei rapporti sociali e familiari. Conosciamo da vicino molte storie di lavoratrici delle pulizie impiegate nelle strutture sanitarie, dipendenti di cooperative sociali, lavoratrici in RSA, impiegate nella grande distribuzione, che si organizzano e lottano per cambiare questa realtà di pericolo e incertezza chiedendo che anche a loro vengano fatti tamponi periodici, minore precarietà e aumento delle retribuzioni. Ci teniamo a ricordare che le lavoratrici delle pulizie infatti hanno retribuzioni orarie inferiori a 7 euro lordi e un contratto collettivo nazionale che non viene rinnovato da più di 7 anni.
Anche i numeri legati alla disoccupazione mettono fortemente in luce il gap di genere: nel 2020 delle 444mila persone che hanno perso il lavoro, più di 300mila sono donne (circa il 70%), spesso precarie con contratti a tempo determinato e senza garanzie. Basti pensare alle lavoratrici del turismo o dello spettacolo che sono state lasciate a casa, nella migliore delle ipotesi con le insufficienti misure di ammortizzazione e nei casi peggiori solo con bonus una tantum e senza il riconoscimento della loro professione.
Questi dati non possono essere letti in maniera estemporanea, ma sono la diretta conseguenza di un sistema-lavoro che impone da sempre alle donne stipendi più bassi, ambiti di lavoro obbligati.
Come Adl Cobas partecipiamo allo sciopero dell’8 marzo perché vogliamo dare il nostro contributo per combattere la violenza maschile contro le donne che avviene prevalente nella sfera domestica (61,3% delle donne uccise nel 2019 è stata uccisa dal partner o ex partner) ma che nei luoghi di lavoro dove sono ancora troppi i casi di molestie, violenze e ricatti sessuali.
Dall’Indagine ISTAT sulla sicurezza dei cittadini 2016 sono un milione 404 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Rappresentano l’8,9% per cento delle lavoratrici, incluse le donne in cerca di occupazione. E sempre secondo questa indagine sarebbero un milione 173 mila (il 7,5%) le donne che nel corso della loro vita lavorativa sono state sottoposte a qualche tipo di ricatto sessuale per ottenere un lavoro o per mantenerlo o per ottenere progressioni nella loro carriera. Tra coloro che hanno subito i ricatti nel corso della vita e hanno risposto al quesito, il 33,8% delle donne ha cambiato volontariamente lavoro o ha rinunciato alla carriera, il 10,9% è stata licenziata o messa in cassa integrazione o non è stata assunta.
Oggi scioperiamo però anche per portare all’attenzione di tutte e tutti le discriminazioni di genere che ancora oggi avvengono nel mondo del lavoro. Solo la metà delle donne rispetto agli uomini è impiegata in profili dirigenziali, nonostante via sia una maggiore qualificazione ed il possesso di titoli di studio mediamente più elevati. La differenza retributiva media di genere nel privato è di 100 euro (1.400 euro per gli uomini, 1.300 per le donne), ma nei livelli di inquadramento più alti le differenze sono anche più forti.
Le più basse retribuzioni e la posizione più bassa all’interno dei profili professionali, portano inevitabilmente ad una maggiore povertà anche nelle pensioni che verranno percepite. Rispetto alle pensioni, se prendiamo in considerazione un campione di 10 donne e 10 uomini, troviamo che 5 donne su 10, cioè la metà, prendono meno di 1000 euro di pensione mentre gli uomini che prendono meno di 1000 euro sono solo 2 su 10.
Per quanto riguarda i tipi di contratto, più di un terzo delle donne è assunta a tempo parziale, rispetto a meno di 1/10 degli uomini. Pensiamo alle lavoratrici del comparto delle pulizie che quasi sempre devono subire il part time. Ma anche quando il lavoro part time non è l’unica scelta disponibile, per molte donne lo diventa per la mancanza di servizi e il peso del lavoro domestico e di cura che continua a gravare sulle spalle delle donne. Non è una novità per nessuno che le donne continuino a farsi carico di gran parte delle incombenze familiari. L’Istat rileva che la percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalle donne tra i 25-44 anni sul totale del carico di lavoro familiare è del 67%, con sovraccarico tra impegni lavorativi e familiari tale per cui più della metà delle donne occupate svolge oltre 60 ore settimanali di lavoro retribuito e/o familiare.
Tale situazione si è aggravata con l’emergenza sanitaria e l’adozione di strategie di distanziamento fisico che hanno imposto vecchie e nuove modalità di organizzazione del lavoro a domicilio (telelavoro e smart working) e la didattica a distanza. In tale scenario, le lavoratrici madri si sono trovate improvvisamente costrette a districarsi, nell’ambiente domestico, tra il repentino aumento dell’attività di cura, istruzione ed educazione dei figli e una nuova modalità di organizzazione del lavoro. Una condizione fortemente stressante che rischia di incentivare ulteriormente la fuoriuscita delle lavoratrici madri dal mondo del lavoro. Nel corso di questa pandemia nei nostri uffici abbiamo visto un crescendo di donne lavoratrici che hanno dato le dimissioni entro i primi 12 mesi del bambino per stare a casa con i figli. D’altronde nonostante le misure adottate dal Governo per fornire sostegno alle famiglie, a fronte della sospensione dei servizi scolastici, sono state riconosciute in favore di entrambi «i genitori lavoratori», non sembra che le stesse siano state idonee a garantire una reale parificazione di genere nella gestione delle nuove esigenze familiari, determinate dalla pandemia in atto.
Non è stata, in effetti, prevista alcuna misura che incentivasse i padri, rispetto alle madri, a usufruire del cd. “congedo Covid”, in controtendenza rispetto all’orientamento dell’Unione Europea a favore dell’introduzione di misure volte a stabilire che almeno una parte del congedo parentale debba essere goduta in via esclusiva da ciascun genitore.
Né l’indennizzo dei congedi garantisce al genitore che se ne avvale la retribuzione piena: per tale motivo a usufruire del congedo sono sempre in percentuale maggiore le lavoratrici.
I dati ci indicano che una gran parte di donne dichiara di non essere alla ricerca di un lavoro perché deve prendersi cura dei bambini o di altre persone non autosufficienti della famiglia. Tra queste le donne migranti con figli si trovano ad essere ancora più in difficoltà perché in molti casi non hanno una rete familiare di supporto.
Troppo poche sono ancora le risorse investite per migliorare la qualità e aumentare i servizi accessibili a tutte e tutti per la cura, così da permettere a tutte coloro che lo vogliono di entrare nel mondo del lavoro. Troppo basse le retribuzioni e troppo precari i contratti nei settori femminilizzati. Troppo poveri, selettivi e discriminatori gli ammortizzatori sociali. Per questo chiediamo:
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l’introduzione di un salario minimo orario non inferiore a 9 euro lordi;
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l’introduzione di un ammortizzatore sociale universale che eroghi importi non inferiori a mille euro;
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l’ampliamento dei soggetti che possono accedere al reddito di cittadinanza oltre che un aumento degli importi erogabili;
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il riconoscimento e la valorizzazione economica del lavoro domestico e di cura gratuito e retribuito svolto all’interno delle case;
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politiche di welfare e servizi pubblici che facilitino il bilanciamento dei carichi di cura tra uomini e donne, come l’implementazione degli asili nido, l’introduzione di incentivi per una più equa distribuzione tra i genitori dei congedi parentali e l’incremento degli indennizzi.
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l’adozione di politiche volte al contrasto della povertà femminile nelle fasce più anziane della popolazione;
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maggiori investimenti nei servizi di welfare per le persone anziane e non-autosufficienti, per migliorare le condizioni di lavoro sia delle lavoratrici sia delle pazienti in prevalenza donne.
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riconoscimento dei vaccini contro sars cov-2 bene comune globale per vero diritto universale alla salute e come unico reale strumento per chiudere con le politiche di distanziamento fisico che ha rinchiuso ancora di più le donne nella sfera domestica
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l’utilizzo delle risorse del recovery fund per finanziare queste misure e più in generale politiche contro la violenza di genere e favorire l’audeterminazione delle donne.
CRONACA DELLA GIORNATA
PADOVA
Con un presidio davanti alla Prefettura, diverse lavoratrici della pulizia, riders, badanti, delegate sindacali e molte altre lavoratrici, hanno presso parola per denunciare le condizioni di lavoro che subiscono: precariato, lavoro di cura in nero, sfruttamento. Condizioni che sono addirittura peggiorate con la pandemia e in molto posti di lavoro si è anche verificato un taglio delle ore. Le lavoratrici della pulizia negli ospedali hanno evidenziato la mancanza di tamponi e misure di sicurezza subendo trattamenti molto differenti rispetto alle altre figure professionali negli stessi reparti Covid. Le lavoratrici hanno avuto anche il supporto del movimento Non Una Di Meno, che hanno aderito al presidio e inserito come seconda tappa della giornata di manifestazione in centro Padova.
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VENEZIA
ADL Cobas Venezia ha inoltre raccontato delle tante lotte con le lavoratrici e i lavoratori del comparto del turismo e dello spettacolo. La giornata di lotta ha visto due importanti momenti di visibilità. Il primo con un grande striscione sul Ponte degli Scalzi e il secondo in Campo Santa Margherita con le voci di tante donne che fanno parte di centri anti violenza, collettivi studenteschi, gruppi informali, Comitati, assemblee cittadine, sindacati di base.
Nella strada che è stata percorsa dal Ponte al Campo sono state attacchinati dei manifesti sulle porte dell’INPS e di ATER per denunciare la situazione economica e lavorativa in cui versano centinaia di migliaia di donne e la necessità di case sicure per tutt*!
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ALESSANDRIA
In piazza al presidio organizzato da Non una di Meno anche le lavoratrici delle pulizie dell’Ospedale, a cui nell’ultimo anno è stato chiesto uno sforzo enorme in termini di ore e carico lavorativo, senza che questo abbia coinciso con un miglioramento delle condizioni di lavoro e del trattamento retributivo. Mentre il CCNL è scaduto da quasi 8 anni, le lavoratrici sono costrette ad accettare contratti part time, paghe orarie di 5/6 euro e assenza di tutele. Tra le voci che si sono susseguite in piazza, le lavoratrici hanno posto l’accento su quanto le contraddizioni insite alla condizione femminile nel mondo del lavoro siano esplose a seguito della pandemia.
VICENZA / VERONA
La giornata è iniziata alle 10.30 davanti Palazzo Trissino: presidio insieme a Friday For Future di fronte al futuro cantiere dell’Hub di Amazon a Vicenza est.
Amazon è il paradigma dello sfruttamento, sia dei corpi che dei territori. E’ un modello che coniuga sorveglianza maniacale dei lavoratori, sia dentro al magazzino che delle attività sindacale, a precarizzazione con l’utilizzo massiccio di contratti interinali e contratti “MOG” (monte ore garantito), in cui hai 2 o 3 turni di 8 ore garantiti alla settimana e i restanti turni “libero” di accettare o meno. E’ un modello dove automazione fa rima con maggiore precarietà per i lavoratori e non con “progresso”, nel senso di rendere migliore la qualità della vita delle persone. E poi è la logica del “just in time”, che comporta sempre più ritmi alti e carico di lavoro per magazzinieri ed autisti. Un magazzino di Amazon non è un’opportunità per la creazione di posti di lavoro, è solo un’opportunità per Jeff Bezos di aumentare i propri profitti, che dall’inizio della pandemia sono lievitati.