“[…] Nel pieno rispetto del cronoprogramma il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto per far marciare veloci i progetti del Recovery Plan. Innoviamo, abbandonando le logiche di sempre e intervenendo sui principali colli di bottiglia che frenano le transizioni digitale e ecologica: dimezziamo i tempi delle valutazioni ambientali […] acceleriamo gli appalti e la realizzazione di importanti opere strategiche. Non solo. Rafforziamo il silenzio assenso e i poteri sostituitivi per garantire a tutti i cittadini meno burocrazia e certezza dei diritti. Con una drastica semplificazione dei vincoli e dei lacci, la Pubblica amministrazione da freno alla crescita diventa motore di sviluppo”.
Così si esprime entusiasticamente il Ministro Brunetta sul Decreto semplificazione e governance; sembra di sentire in questa dichiarazione così come nella soddisfazione generale di larga parte del mondo politico e imprenditoriale la stessa enfasi che accompagnò nel 2001 il varo da parte del Governo Berlusconi II della Legge Obiettivo e relative facilitazioni normative a favore del “grandi opere” di quel periodo.
Qualcuno ricorderà ancora la diretta tv di Berlusconi a Porta a Porta nella quale scriveva di proprio pugno su una lavagnetta le grandi opere per le quali era stato disegnato dai Ministri Tremonti e Lunardi il mostro normativo che ne doveva garantire iter autorizzativi e realizzativi facilitati, liberalizzazione da ogni vincolo, controllo e tutela insieme all’accesso per l’imprenditoria privata a una larga messe di denaro pubblico. Con la Legge Obiettivo si toglieva la potestà ai territori, esautorando di fatto gli enti locali dal processo decisionale e autorizzativo mentre si costruivano una serie di strutture accentrate in capo ai Ministeri competenti; veniva creata la figura del contraente generale che, vinta la gara aggiudicante, aveva di fatto mano libera e così via. Con modifiche dello stesso tenore negli anni successivi lo stesso impianto normativo veniva ulteriormente peggiorato e la Legge Obiettivo inserita nel Codice degli appalti. Molte delle opere che hanno goduto di queste facilitazioni sono diventate famose, non tanto per la loro funzionalità o realizzazione ma per gli scandali e lo sperpero enorme di denaro pubblico: dal Mose alla TAV Torino Lione, dal Ponte sullo stretto di Messina al GRA di Padova e alla Pedemontana veneta.
Oggi siamo in una fase politica e economica diversa dal primo decennio degli anni 2000 ma il Decreto semplificazioni e governance rimanda allo spirito e agli intenti di quel mostro normativo; oggi l’obiettivo è rilanciare la competitivà del sistema in un contesto globalizzato messo in crisi dalla pandemia ma gli strumenti messi in campo non sono molto diversi. Di diverso c’è l’ampio e trasversale consenso delle forze politiche che formano la grosse koalition all’italiana rispetto alla stagione berlusconiana. Lo dimostra il compiacimento generale verso gli articoli del Decreto relativi all’accentramento decisionale in capo al Presidente Draghi: non era forse sull’accusa di “cesarismo” di Conte che Renzi fece leva per aprire le danze della congiura di Palazzo che portò alla caduta di quel Governo? Ora tutti concordano a cominciare dal segretario del PD che la ritiene l’unica formula possibile “in un governo di larghissima coalizione”. Che dire, poi, di costituzionalisti come Sabino Cassese, bacchettatore implacabile delle tendenze accentatrici del precedente Governo, che ora loda la concentrazione dei poteri in una unica insindacabile regia governativa come decisione saggia e opportuna?1 Un processo di trasformazione della Costituzione materiale che arriva da lontano, dai referendum Segni alla stagione berlusconiana, passando per la tentata Commissione bicamerale e il dirigismo renziano, che ha portato alla concentrazione del potere nelle mani degli esecutivi – nazionali, regionali, provinciali (finchè sono rimasti consigli e giunte elette dai cittadini) e comunali – e che ora fa un salto in avanti con Draghi e la possibilità che lo stesso possa, a breve, continuare ad esercitare tali poteri dalla poltrona presidenziale dopo quella della presidenza del consiglio, nell’accettazione tacita di tutto il sistema politico e economico, nonchè della società civile, resa quasi completamente inerte dall’emergenzialismo anti pandemico.
Secondo questo disegno la liberalizzazione da vincoli e lacci dei progetti e degli obiettivi del Pnrr hanno bisogno di una cabina unica di regia nel segno di una normalizzazione che non ammette impedimenti o ostacoli sulla strada della ripresa della competitività dei mercati. In altri termini ciò significa libertà d’azione per l’imprenditoria impegnata a rilanciare l’accumulazione dei profitti sulla pelle delle risorse umana, animali e ambientali.
Per quale altro motivo il Governo si sarebbe preso la briga di istituire con il Decreto sulla governance un ufficio dirigenziale presso la Ragioneria dello Stato con “funzioni di audit del Pnrr e di monitoraggio anticorruzione” quando già esiste una Autorità anticorruzione come l’Anac? Per estrometterla da qualsiasi controllo nei confronti del Piano e per ribadire che tutto deve essere accentrato in capo a Palazzo Chigi e al Mef, sotto controllo diretto di Mario Draghi al quale viene per decreto assegnato “poteri di indirizzo, impulso e coordinamento generale” e dove ravvisi ritardi o scorga impedimenti di qualsiasi natura, il potere di nominare commissari con poteri sostitutivi. Nella cabina di regia verranno di volta in volta coinvolti, bontà del grande manovratore, Ministeri competenti o interessati, Regioni ma meglio Presidenti della Conferenza delle regioni (che non ci si allarghi troppo) e, infine, utilizzando un verbo sibillino, “possono” essere “invitati” anche esponenti delle parti sociali. Così si accontentano sindacato confederale e associazionismo nazionale proni anch’essi al diktat accentratore del Decreto. Sotto il controllo della Presidenza del Consiglio viene creata l’Unità per la razionalizzazione, il miglioramento dell’efficacia della regolazione per “superare gli ostacoli normativi, regolamentari e burocratici”.
Superpoteri, quindi, per realizzare gli obiettivi del Pnrr mentre all’opinione pubblica pensano i media mainstream a indorare la pillola giustificando questo processo di accentramento decisionale come la medicina giusta contro la burocrazia odiosa della Pubblica Amministrazione, causa del mancato sviluppo del Paese e della mancata realizzazione delle grandi opere necessarie. Opere che si guardano bene di dire, salvo alcune voci fuori dal coro, non rigurdano affatto urgenze come la messa in sicurezza idrogeologica del nostro territorio, la bonifica delle ampie aree inquinate dell’Italia, la riconversione delle industrie inquinanti e nocive, le infrastrutture ferroviarie regionali carenti, la riqualificazione in funzione sociale del patrimonio abitativo, gli investimenti sulla sanità pubblica e, più in generale, sul welfare. Su questi obiettivi nel Pnrr ci sono pochi fondi investiti e pochi progetti e, soprattutto, l’assenza di una visione complessiva.
Mostruosità progettuali come il Ponte sullo stretto di Messina o obiettivi come l’Alta Velocità al Sud dove sono carenti le linee locali, provinciali e regionali o inesistenti in larghi tratti di territorio, rappresentano il “marchio di fabbrica” di questo Piano che, in tutte le sue “missioni” roboanti e fascinose, ha il sapore del rilancio della ricetta neoliberista, mai realmente interrottasi durante la pandemia ma che proprio grazie alla crisi ha la possibilità di segnare un salto in avanti ulteriore sulla carne viva degli sfruttati.
1 Per la posizione di Sabino Cassese si veda l’intervista di Carlo Bertini “Cassese <L’accentramento non è esagerato>” in Il Mattino di Padova del 30 maggio 2021; per un commento critico delle posizioni del costituzionalista si veda l’editoriale di Marco Travaglio “Il professor Cerchiobot” in Il Fatto Quotidiano del 1 giugno 2021.
l’articolo è collegato all’ampia disamina del PNRR presente qui