Nei giorni scorsi giorni una serie spaventosa di “incidenti mortali” [ricominciamo a chiamarli omicidi?!] ha riportato al centro dell’attenzione mediatica il tema della tutela dell’integrità fisica e psichica di chi lavora.
Gli ultimi dati sono davvero allarmanti perché riportano una netta crescita degli infortuni mortali da due anni a questa parte (secondo INAIL +1,1% nel 2017, un trend del + 33% nell’anno in corso!), ma è necessario ricordare che il numero sia degli infortuni sia degli incidenti mortali, anche quando ha visto un calo come negli anni precedenti, era drammaticamente alto e comunque inaccettabile, non scendendo mai sotto le mille vittime all’anno.
Non è tempo di scadere nell’effimera retorica del “mai più” o di proporre iniziative estemporanee prive di ogni effetto concreto; più che la rabbia, intendiamo condividere alcune considerazioni di carattere generale che secondo noi dovrebbero essere alla base di una strategia per rendere gli ambienti di lavoro veramente sicuri.
Innanzitutto, a dieci anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo 81/2008, l’attuale “Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro”, quello della sicurezza non è più un problema di scarsa regolazione, nonostante manchino all’appello molti decreti attuativi. Anche il sistema di formazione e informazione è abbondantemente normato.
Allora perché accadono così tanto infortuni e ci si ammala, o peggio si muore, al lavoro?
Certamente è indubbio che gli organi di vigilanza siano sottodimensionati, aspetto riscontrabile non solo sul versante della sicurezza ma anche su quello ispettivo e di controllo più in generale.
Crediamo però che ci siano cause più profonde che hanno a che fare con le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro, il mutamento del quadro istituzionale che riflette nuovi rapporti di forza nella società e nei luoghi di lavoro tutti a svantaggio del lavoro, nonché il ruolo svolto dalle organizzazioni sindacali tradizionali.
La frammentazione dei sistemi produttivi che rende più difficile il coordinamento tra dipendenti di aziende diverse che lavorano negli stessi siti, gli incrementi di produttività ossessivamente richiesti ai/alle lavoratori/trici e il maggiore tempo passato al lavoro rendono oggettivamente più rischiosa l’attività lavorativa.
La precarizzazione dell’impiego insieme con l’assenza di ammortizzatori sociali dignitosi e di un reddito minimo hanno prodotto individualismo e deferenza verso le aziende, al punto che si è sempre più disposti a lavorare in condizioni che non sarebbero ammesse, a tollerare orari massacranti, a chiudere gli occhi su attrezzature difettose o prive dei dispositivi di sicurezza, ad adempiere obblighi formativi semplicemente mettendo una firma, ad accettare richieste che in nome della produttività o della riduzione dei costi espongono a pericoli.
Un’enorme responsabilità risiede nei sindacati tradizionali per la loro ormai conclamata subalternità e passività di fronte alle richieste del sistema economico capitalistico.
A ben vedere, quindi, la tutela dell’incolumità di chi lavora – la cosiddetta Prevenzione e Protezione – dovrebbe passare innanzitutto per una vera riduzione del tempo di esposizione al lavoro, a partire da quelli più duri e rischiosi.
Inoltre, proprio l’abbassamento generale del potenziale di tutela della forza lavoro, inesorabilmente e drammaticamente eroso nell’ultimo ventennio dalle politiche neoliberiste, impedisce attualmente la possibilità stessa da parte dei lavoratori e della lavoratrici di poter agire, senza il rischio di essere duramente penalizzati, tutti i diritti che sulla carta la normativa in materia di salute e sicurezza ancora riconosce. E tanto meno la serenità di poter rifiutare o abbandonare un lavoro pericoloso o substandard, senza il rischio di cadere in povertà assoluta.
Sappiamo bene che ancora per qualche giorno i media mainstream, dopo averci propinato pagine di indignazione e retorica, torneranno ad occuparsi d’altro, relegando il tema della sicurezza e della salute di chi lavora a qualche trafiletto.
Sappiamo anche che i grandi sindacati confederali, dopo aver riproposto il mantra di rito sulla scarsa cultura della sicurezza, della legalità e della necessità di formazione, torneranno a cogestire un mondo del lavoro fatto di aumenti di produttività sulle spalle della forza lavoro, bassi salari, precarietà e lavoro gratuito, esternalizzazioni a più non posso, aumento dell’età pensionabile, assenza di forme di tutela del redditto.
Non ci stupiamo perché il tema dell’incolumità psicofisica dei lavoratori, se assunto seriamente, obbliga tutti a guardare le cause profonde che determinano incidenti e malattie professionali. Ci costringe ad interrogarci sullo stesso modello economico e sui regimi della messa al lavoro e per questo potrebbe creare quanto meno qualche serio imbarazzo a chi non vuole minimamente mettere in discussione lo status quo del capitalismo presente.