Non è una novità che l’emergenza coronavirus abbia impattato in maniera devastante su un mercato del lavoro già abbondantemente stratificato. Ad essere colpiti, seppur in maniera diversificata, sono stati sia chi è da sempre considerato lavoratore “garantito”, sia le fasce più precarie, dai lavoratori in nero alla miriade di altre figure del lavoro autonomo, parasubordinato, appaltato, temporaneo. La crisi, anche se ha rivelato ancor di più la fragilità del lavoro in tutte le sue forme, ha accentuato le differenze già esistenti, ha diversificato ancor di più i livelli e ha spinto le situazioni di precarietà e le figure sociali più deboli sempre più verso il basso.
Se osserviamo la situazione dal punto di vista della garanzia di accesso alle misure speciali messe in atto in questo periodo, possiamo osservare che la dimensione collettiva e comune di questa crisi, che avrebbe dovuto abilitare l’ipotesi di un reddito di quarantena, ha lasciato invece spazio ad un accesso differenziato, che parte proprio dall’esclusione di moltissime figure di lavoratrici e lavoratori.
Solo per fare alcuni esempi, è rimasto escluso dalle tutele non solo chi lavorava in tutto o in parte in nero, ma anche chi si occupa del lavoro di cura, ossia di un pezzo del welfare del nostro Paese, che si è trovato nella maggior parte dei casi sospeso dal lavoro e senza possibilità di accesso ad alcun ammortizzatore sociale e nemmeno all’assegno una tantum di 600 euro. Ma non solo: anche altre situazioni, come per esempio chi si trova in maternità, non hanno visto una revisione delle condizioni di tutela che potessero permettere la richiesta di maternità anticipata. Nonostante i rischi di contagio i criteri per accedere alle misure sono rimasti i precedenti, facendo venir meno, in questo caso, non solamente un diritto economico, ma anche il diritto di tutela della salute.
Un altro aspetto di forte differenziazione emerge dal fatto che la possibilità di usufruire delle briciole messe a disposizione sia stata scaricata interamente tanto su chi vi deve accedere, quanto su chi è chiamato a supportare i cittadini nell’accesso alle prestazioni.
Qualsiasi tipo di prestazione è stata scaricata non solo sull’utenza, ma anche su chi quel diritto può e deve garantirlo: tutti gli operatori dei servizi sono stati coinvolti nel supporto alla cittadinanza e, se prima il loro lavoro si svolgeva in uno sportello accessibile di persona, oggi la necessità di stare a casa per la tutela della salute propria e degli altri, ha obbligato a svolgere il lavoro a distanza attraverso il telefono e l’invio delle deleghe tramite mail. E qui, forse più che mai, la burocrazia ha evidenziato tutta la sua forza come ostacolo amministrativo all’accesso al diritto del singolo: basti pensare a quanto macchinoso, in questa situazione, possa essere la semplice necessità per un operatore di patronato o di caf di essere in possesso di un mandato firmato dal richiedente per poter inoltrare la richiesta di una prestazione. O le misure vengono riconosciute come necessarie e di diritto, con una possibilità di accesso immediato, oppure sono misure subordinate alla grande macchina distributrice e dello stato.
Proprio gli ostacoli burocratici emersi, hanno messo in evidenza l’inutilità di alcune richieste che vengono continuamente perpetrate. Un esempio per tutti è il modello SR163: se prima veniva richiesto che, con questo modello, la banca o la posta apponendo un timbro certificasse l’intestazione del conto corrente, ora il modello non esiste più (è proprio sparito dal sito dell’Inps) e si scopre che è possibile l’accesso ai dati del conto corrente direttamente dall’Inps, cosa che era già risaputa, ma la digitalizzazione come accesso ai dati è sempre stata utilizzata quasi esclusivamente come forma di controllo alla veridicità dei dati dichiarati.
Ma la questione della burocrazia come elemento di enorme ostacolo all’accesso dei diritti è forse esplosa di fronte agli occhi di tutti con la struttura dell’Inps che è ceduta vertiginosamente e vergognosamente quando è stato dato il via alla possibilità di richiedere il bonus 600 euro, dimostrando sia tutta la pochezza organizzativa di chi dovrebbe garantire gli strumenti di accesso, sia le peripezie richieste per accedere ad una misura che è stato il cavallo di battaglia del decreto Cura Italia.
Se la stratificazione del lavoro è già di per sé un elemento di differenziazione e se le misure economiche sono state previste non per tutti, in modo differenziato e differenti per categorie, un’ulteriore aggravante della situazione è stata la differente possibilità di accesso a prestazioni da svolgere esclusivamente per via telematica, sia per chi le ha svolte autonomamente che per chi ha dovuto affidarsi al supporto di un patronato. Ogni comunicazione è stata resa più difficile dalla situazione e questo ha penalizzato fortemente chi non ha la possibilità di accedere facilmente a internet, così come di accedere agli strumenti digitali e, banalmente, ciò ha reso gerarchica la possibilità di accedere alle misure economiche. Chi lavora nei servizi di caf e patronato ha osservato immediatamente una fortissima stratificazione, anzi esclusione delle categorie di persone senza strumenti informatici adeguati, ossia delle persone più anziane o quelle più povere, oppure di chi non conosce a sufficienza la lingua italiana e non trova un interlocutore in grado di comprenderlo.
L’ultimo elemento da mettere in evidenza è quello proprio di chi lavora per dare supporto a chi richiede le misure. In questa situazione di emergenza le figure degli operatori di patronato e caf si sono ritrovate ad essere figure centrali per la facilitazione e l’accesso alle procedure digitali che consentono le richieste delle misure di sostegno al reddito. Gli operatori lavorano da casa, in condizioni di lavoro precarie, dove i tempi di vita e di lavoro si sommano e si dilatano dentro le mura di casa. Come descrive bene Sandra Burchi nel suo articolo Lavorare a casa non è smart, pubblicato su Ingenere.it, “non c’è niente di smart o di agile” nel portarsi il lavoro a casa, “il tempo di lavoro dilaga nella preparazione, nell’allestimento dello spazio adeguato, nella gestione delle relazioni, nel tempo extra orario che serve per recuperare il tempo perso in queste operazioni”. La casa non è uno spazio vuoto, senza i propri tempi, che può essere riempito a piacere dal tempo di lavoro. La casa non è nemmeno un luogo dotato di tutti gli strumenti utili e necessari per garantire lo svolgimento al meglio dei servizi. Eppure l’esigenza di “stare a casa” per tutelare gli altri e se stessi, ha costretto centinaia di operatori ad arrangiarsi, a mettere in atto mille strategie in più per garantire a tutti l’acceso a prestazioni irrinunciabili.
Dietro al grande slogan “Io-resto-a-casa” emerge la forte contraddizione in cui gli operatori dei servizi si sono trovati ad essere supporto fondamentale a chi è precario, ma al tempo stesso precari in questa situazione. Anche noi, parte di questa stratificazione, ci uniamo alla rivendicazione di #redditodiquarantenapertutt@.