Il 2015 verrà sicuramente ricordato per un’epidemia che ha colpito migliaia di lavoratori in tutti i comparti produttivi. Un’epidemia che ha trovato un particolare terreno fertile nelle catene della grande distribuzione, nei centri commerciali, negli alberghi e più in generale nel settore del turismo e dell’intrattenimento.
Come accade spesso nei film hollywoodiani, anche questo virus è il sottoprodotto di una medicina che nel caso specifico si diceva avrebbe dovuto curare una malattia considerata endemica nella penisola italiana. Già da prima dell’introduzione nel 2003 erano noti gli aspetti problematici e le gravi controindicazioni di questa medicina, per questo in molti hanno denunciato i rischi connessi ad una possibile “perdita di controllo”. Ciononostante, i nostri governanti e i loro “esperti” hanno sempre garantito che la terapia sarebbe stato usato in maniera contingentata e super controllata. Il virus però è “scappato di mano” e oggi ci troviamo di fronte ad una gravissimo contagio.
Il virus si chiama voucher e i dati pubblicati dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS hanno certificano che nel 2015 vi è stato un vero e proprio “contagio di massa”, con una crescita del 66% rispetto al 2014 e un ammontare di 115milioni di ore pagate con questi buoni. Un numero spaventoso, che giusto per farsi un’idea, corrisponderebbe a circa 170.000 unità di lavoro part-time. Non solo, dai dati dell’INPS emerge chiaramente che le motivazioni alla base dell’introduzione dei voucher sono state ampiamente disattese. I buoni lavoro sono stati introdotti infatti per pagare le prestazioni di c.d. lavoro accessorio, ossia quelle attività lavorative storicamente caratterizzate dall’assenza di assunzione in regola e pagamento in nero: i piccoli lavori marginali e saltuari (le riparazioni, il giardinaggio, la vendemmia…) o i servizi domestici comprati ad ore dalle famiglie (servizi di cura, assistenza, di sostegno scolastico per i figli ecc.). Inizialmente infatti erano presenti limiti soggettivi e oggettivi e si parlava di prestazioni “di natura meramente occasionale”. Obiettivo dichiarato dei suoi sostenitori: l’emersione dal nero di queste attività, la copertura contributiva e assicurativa dei lavoratori e, udite udite, l’introduzione per via indiretta di un salario minimo orario. Oggi però i voucher si possono utilizzare in tutti i settori, anche nella pubblica amministrazione e i percettori possono essere disoccupati, lavoratori e persino i titolari di prestazioni a sostegno del reddito. Il Jobs Act ha infine alzato il tetto massimo di voucher percepibili a 7 mila euro netti (2mila per ogni singolo datore di lavoro).
Le modifiche intercorse a partire dal 2012, in particolare l’abbandono del requisito dell’occasionalità e l’utilizzo dei limiti economici come unico elemento caratterizzante il tipo di prestazione, hanno quindi creato un mostro giuridico che va a regolamentare delle prestazioni lavorative a prescindere dal fatto che il rapporto sia di fatto subordinato, parasubordinato o autonomo.
I più “maliziosi” all’epoca della loro introduzione avevano tentato di controbattere che il recupero del gettito fiscale e contributivo passa per altri canali e altri contribuenti, che il ritorno previdenziale ed assistenziale per questi lavoratori sarebbe stato nullo, e che invece questo nuovo strumento avrebbe portato ad un’erosione dei diritti e delle retribuzioni, manomettendo il lavoro subordinato. I dati recentemente pubblicati dell’Inps danno ovviamente ragione a questa previsione.
I settori dove vengono maggiormente utilizzati i buoni lavoro non sono quelli ipotizzati, bensì il commercio, il turismo e i servizi. In quest’ultimo, nel comporto della promozione commerciale e dell’organizzazione di eventi troviamo addirittura società che non hanno formalmente dipendenti, ma che utilizzano quotidianamente all’interno del ciclo produttivo ordinario personale con voucher. I territori più coinvolti non sono quelli dove c’è il maggiore incidenza della disoccupazione, dell’economia informale, del lavoro nero, ma le ragioni economicamente più avanzate, dinamiche e ricche. Emblematico è il dato della provincia di Bolzano che si aggiudica il podio per numero di voucher (900) ogni 100 abitanti in età lavorativa (15-64 anni).
In Veneto quello del lavoro accessorio è un vero e proprio boom: in forte crescita dal 2013, l’utilizzo dei voucher nel 2015 ha toccato quota 15 milioni, un decimo del totale nazionale. E anche qui la parte del leone l’hanno fatta il commercio e il turismo con circa 2/3 dei buoni lavoro staccati.
Chi ci guadagna?
I voucher, è evidente, non hanno risolto la questione complessa e multiforme del lavoro nero e dell’economia informale. Semmai è vero il contrario. Dove questa è particolarmente radicata, si pensi al meridione o in termini settoriali all’agricoltura e al lavoro domestico, nulla o quasi è cambiato.
Il lavoro accessorio ha invece favorito un effetto di sostituzione del lavoro subordinato con una tipologia di lavoro totalmente flessibile, povera (non si applicano i minimi contrattuali) e priva di diritti e tutele (quelle del ccnl, del codice civile e delle leggi sul lavoro subordinato).
Come se non bastasse, per legittimare e tutelare ulteriormente questa nuova fattispecie di lavoro, il Ministero del Lavoro ha emanato delle note e delle circolari rivolte al personale ispettivo del Ministero e degli istituti previdenziali, nel quale si dice di non procedere alla verifica della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro qualora questo venga definito come accessorio dalle parti e rispetti la normativa sulla comunicazione e il pagamento delle ore. Tutto ciò in contrasto con “il principio di indisponibilità del tipo contrattuale” più volte sentenziato dalla Corte Costituzionale.
Paradossalmente poi, grazie ai meccanismi di attivazione e gestione del buono lavoro, è stato messo a disposizione dei datori di lavoro un efficacissimo strumento di tutela nei confronti dei controlli degli organi ispettivi, già di per sé rari. Basta comprare qualche voucher, da tirare fuori alla bisogna (ispezione o infortunio del lavoratore) per poter tenere serenamente a nero un lavoratore: con un buono lavoro al giorno, ad esempio, si possono coprire 269 giornate lavorative! Per cui è risaputo – e la nostra esperienza sul campo che ce lo conferma – che a fronte di 150 milioni di ore pagate con i voucher c’è una montagna di lavoro nero.
Grazie a questo effetto di sostituzione si produce un ulteriore effetto perverso: la riduzione del gettito di fiscale e contributivo. I compensi sono esenti dall’imposizione fiscale e l’aliquota contributiva – peraltro tutta a carico dei lavoratori – è del 13%, ben 20 punti percentuali in meno di quella per il lavoro subordinato. Un colpo terribile alle già sofferenti casse dell’INPS (in termini di gettito la differenza è di 300mila euro!) che vengono continuamente svuotate per sostenere le imprese, salvo poi fare cassa sui precari e gli autonomi in gestione separata, oltreché sui pensionati.
I voucher, per come oggi sono regolamentati, sono evidentemente una sciagura per i lavoratori. Con la scusa dell’emersione e dell’assicurazione in caso di infortunio – anche in questo caso tutta a carico del lavoratore – di pochi disoccupati, cassaintegrati e studenti, hanno introdotto l’ennesimo strumento di precarizzazione di massa. Con i voucher i lavoratori sono più ricattabili, sono sotto pagati (in tasca al lavoratore restano 7,5 euro per ogni voucher) e privati di diritti basilari come la malattia, le ferie, la maternità, gli assegni familiari e la disoccupazione.
In un Paese in cui i tassi di precarietà continuano a crescere, sentivamo veramente la mancanza dei voucher!
La deriva neoliberista verso una crescente manomissione del lavoro subordinato – del suo prezzo e delle sue tutele – è evidente e va combatta con forza. Per quanto riguarda i voucher oltre a sostenere la vertenzialità dei lavoratori, dobbiamo chiedere che la normativa vigente sul lavoro accessorio venga completamente abrogata.
Sappiamo tutti che esistono delle situazioni particolari, dei contesti soggettivi e oggettivi che richiedono realisticamente l’erogazione di prestazioni occasionali, ma questi sono veramente marginali, se guardiamo il mercato del lavoro nel suo insieme, e riguardano ambiti rispetto al quale andrebbe fatto un ragionamento ad hoc. Per questo motivo l’utilizzo di lavoro occasionale va fortemente contingentato, controllato e agganciato ai minimi salariali previsti dai contratti colletti per le stesse mansioni o mansioni simili. Contemporaneamente, chi per necessità o scelta si trova a svolgere un lavoro occasionale deve avere la possibilità di accedere a schemi pubblici di garanzia della continuità del reddito, che per chi come noi sostiene la Carta della coalizione 27F, non possono che essere universali, cioè sganciati dal lavoro e sostenuti dalla fiscalità generale.