Dal balcone del Ministero e dalla piazza antistante dilaga la retorica nazionalpopulista
Il consenso sociale si lega alla natura razzista di questa coalizione: è questo il vero problema da affrontare
Con lo sforamento al 2,4% dei vincoli di stabilità imposti dall’UE non ci troviamo all’inizio di una sorta di “new deal” che punta a migliorare la condizione economica e sociale di milioni di persone e ad “abolire” la povertà come retoricamente dichiarato da Di Maio. La costruzione del consenso sociale alla coalizione gialloverde non ricorda tanto le politiche socioeconomiche del New Deal roosveltiano degli anni 30 del secolo scorso, bensì quelle messe in campo dal Fascismo e dal Nazismo negli anni 20-30: provvedimenti sociali e economici a favore degli autentici “italiani” e “tedeschi” a discapito di categorie e gruppi sociali discriminati, perseguitati, espropriati dei propri beni e delle proprie libertà e, infine, della loro stessa vita. Sciovinismo e welfare insomma tenuti insieme da un consenso egoista e identitario. I provvedimenti promessi dal governo gialloverde improntati al dogma populista e xenofobo “Prima gli italiani” mirano a costruire proprio questo tipo di consenso, basato su decreti e manovre in materia sociale e fiscale che nulla hanno di “universalistico” bensì invitano chi ne potrebbe beneficiare a sostenere e alimentare interessi esclusivamente identitari. Per questo motivo la costruzione del consenso da parte di Lega e M5s rimanda a quei regimi senza necessariamente richiamarsi alle loro esperienze, anzi spesso negandone ogni paragone mentre procedono verso la costruzione di una società chiusa nella propria identità etnica e nazionalista.
Ma insistere con i ricorsi storici non aiuta a svolgere una critica profonda nè a svelare la natura reazionaria e razzista di questa compagine di governo, la sua originalità e, allo stesso tempo, contiguità con molte altre esperienze nazionali sbocciate un pò dovunque dopo l’arrivo alla Casa Bianca di Trump, nè la continuità neoliberista dei recenti provvedimenti governativi in materia di finanza, reddito, sicurezza. Come non serve gridare allo scandalo per lo sforamento del tetto di stabilità e definire questo governo come irresponsabile. Irresponsabile, caso mai, è stata per prima quella sinistra che ha accettato e fatto proprie in tutti questi anni le politiche di rigore neoliberiste dell’UE, rendendosi complice e co-promotrice persino dell’inserimento del vincolo di pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale e promuovendo politiche che hanno contribuito a generare poveri, precari e accresciuto diseguaglianze e divaricazioni territoriali. Proprio quella sinistra ha contribuito a far maturare nel ceto medio impoverito, tra i lavoratori precari e a rischio licenziamento, tra i giovani disoccupati, le famiglie povere o appena sopra la soglia di povertà quel disagio sociale su cui ha preso corpo il consenso di Lega e M5s.
Continuare a gridare al lupo per lo sforamento di bilancio, quindi, fa il gioco di chi oggi guida il Paese ma è, soprattutto, sbagliato da tutti i punti di vista. Perchè mai uno Stato non può agire fuori dai confini del pareggio di bilancio utilizzando il debito per promuovere politiche sociali e investimenti in settori strategici come sanità, istruzione, trasporti, ambiente, edilizia pubblica promuovendo una distribuzione più equa delle ricchezze? Per dire sì a un’Europa il cui impianto neoliberista imposto dalla globalizzazione capitalistica ha subordinato queste politiche a vincoli stringenti per una parte della popolazione, liberando di contro enormi profitti a favore di gruppi sociali ristretti e potenti? Lega e M5s non vanno attaccati sul terreno della critica allo sforamento del 2,4%: siamo forse per i conti in ordine secondo i dettami rigoristi di BCE e FMI? Siamo con l’Europa che ha affamato la Grecia? Così rafforzeremmo l’immagine populista che tentano di accreditarsi Salvini e Di Maio, “capitani coraggiosi” che disobbediscono e si oppongono ai potenti burocrati europei per il bene del popolo. E’ altrettanto illusorio contrapporle come sentiamo da più parti scrivere e teorizzare una “sinistra sovranista”, populista e nazionalista, di segno contrario perchè il mix tra nazionalismo e conquiste sociali non ha mai portato ad altro che a disastri. Ogni nazionalismo ha dietro uno Stato forte che nulla concede, se non retorica populista, a rivendicazioni, istanze e lotte sociali.
E’ sulla destinazione delle risorse che intendono liberare con lo sforamento del tetto di stabilità che vanno attaccati e smascherati i gialloverdi dimostrando che non siamo di fronte a una “Finanziaria del popolo”. La prossima legge di stabilità non sarà certo improntata all’aumento delle progressività delle imposte e all’introduzione della tassazione per i grandi patrimoni e movimenti finanziari; non terrà conto delle rivendicazioni sindacali, sociali e ambientali e non vedremo certo aumentare le risorse per una sanità e l’istruzione pubblica, per politiche ecologiche nel settore dei trasporti e dell’energia, per il risanamento idrogeologico del nostro Paese, per politiche sociali a favore delle famiglie e per un più ampio e migliore accesso ai servizi e per una politica abitativa pubblica, per un vero reddito di cittadinanza o per politiche del lavoro volte a tutelare e migliorare la condizione economica dei lavoratori, i loro livelli di sicurezza e i loro diritti. Non vedremo nulla di tutto questo ma è proprio su questo terreno che bisogna confliggere e smascherare il nazionalpopulismo che innerva i provvedimenti del governo, smettendola di richiamarsi al rispetto dei bilanci e dei vincoli europei ma anche senza scimmiottare i gialloverdi con versioni di “sinistra” del loro richiamo al popolo.
La manovra del Governo e i suoi provvedimenti segnano una cesura con qualsiasi forma di accesso universale a diritti e servizi, anche se sinora questo principio è rimasto più sulla carta che nei fatti, per imporne altre basate sul censo o l’indentità etnica e l’appartenenza anagrafica. Prendiamo, ad esempio, la devoluzione alle regioni di deleghe così come auspicato con referendum autorganizzato dal Veneto. Secondo l’accordo che si sta concretizzando tra la Ministra legista Stefani e il Presidente della Regione Veneto Zaia, la devoluzione dovrebbe riguardare ben 23 materie oggi in capo allo Stato sulla base di un’idea federalista improntata al “paroni in casa nostra”. Fra le materie da trasferire in capo alle regioni c’è anche la sanità che sancirebbe la fine del servizio sanitario nazionale al di là di come oggi funzioni (male), e con esso della “universalità” del diritto alla cura e della “solidarietà” o sussidiarietà economica tra regioni ricche e regioni povere. Con la devoluzione di questa delega le regioni si autofinanzieranno facendo sistema a sè, tutelando quindi prioritariamente e, statene certi, esclusivamente i propri residenti, spezzando in questo modo il diritto per tutti alla salute. Il passaggio successivo, possiamo immaginarlo, sarà quello di limitarne l’accesso a chi non è residente o cittadino di quella regione, imponendo più rigide regole di accesso alla cittadinanza e ai servizi, discriminando in primis gli stranieri o impedendo l’accesso a servizi di cura per chi non può permetterseli, favorendo il privato convenzionato e le grandi assicurazioni. Perchè a farla da padroni ancor più di oggi saranno i vincoli di bilancio venendo meno i traferimenti finanziari statali; inoltre le differenze di prestazione e di servizi diventeranno ancora più profonde di quelle già esistenti tra nord e sud del Paese. E’ curioso che a rincorrere su questa strada i leghisti Stefani e Zaia siano proprio le ex Regioni “rosse”, Emilia Romagna, Toscana, Umbria ma non desta meraviglia visto come da tempo ormai i dirigenti politico-amministrativi di queste regioni, il partito che dalla nascita della Repubblica è stato maggioranza politica e poi le ha governate, hanno sposato l’ideologia neoliberista e una distorta visione federalista dello Stato. La devoluzione regionale della delega alla sanità rischia di passare sotto traccia in queste settimane mentre il lavoro della ministra Stefani procede senza alcun ostacolo da parte dei “soci” governativi pentastellati che, alla fine dell’operazione, rischiano persino di vedersi sfilare il Ministero della salute a favore di quello degli affari regionali. L’operazione rappresenta un chiaro esempio dell’impianto legislativo e amministrativo che questa coalizione intende dare al Paese.
Altrettanto chiaro in questo senso è la realizzazione del Diritto di cittadinanza proposto dal Ministro Di Maio. Interpellato a tale proposito ha negato si tratti di uno strumento assistenzialistico e ha aggiunto:
“Non darò un solo euro a una persona che vorrà stare sul divano senza fare nulla. Con il reddito di cittadinanza facciamo un patto: vai nel centro per l’impiego,dove ti impegni per 8 ore settimanali nei lavori utili e intanto ti devi formare per un lavoro. Passi la giornata così, poi io ti faccio tre proposte di lavoro. Se le rifiuti, perdi il reddito, se le accetti, perdi il reddito” 1
Ha ragione Di Maio: non c’è nulla di assistenziale nel suo Reddito di cittadinanza in quanto ricalca quella forma di workfare neoliberale che da tempo imperversa in Europa e non solo, visto che a fargli da consulente per riformare i centri per l’impiego e erogare l’assegno “di cittadinanza” ha chiamato il prof. Mimmo Parisi, professore di Statistica applicata e Sociologia alla Mississipi State University che ha contribuito a “riformare” i medesimi uffici in Mississipi, uno degli Stati più poveri degli USA in un’ottica di incontro tra domanda e offerta di lavoro che, possiamo immaginare, non si discosta dall’impronta neoliberista dominante. Parisi, infatti, ha ricordato in una recente intervista a Il Fatto Quotidiano.it che negli USA l’assegno viene erogato in “cash o in carta di debito per fare la spesa”, subordinato sempre alla disponibilità di trovare un lavoro e, comunque, rigorosamente in forma temporanea. 2
Il Reddito di cittadinanza voluto da Di Maio non è altro che un sussidio a cui il “povero” può accedere solo se dimostrerà di voler lavorare, di accettare di “formarsi” e di essere disponibile ad “attivarsi” prestando lavoro gratuito e accettando le eventuali offerte di lavoro che gli verranno proposte come succedeva al Daniel Blake del film di Ken Loach.3
Non si tratta, abbiamo detto, di un istituto nuovo perchè da tempo in altre parti dell’Europa sono erogati “redditi” con formule simili che hanno trasformato il concetto di reddito di cittadinanza levandogli ogni forma di universalità per limitarne l’accesso e vincolarlo a subordinazioni lavorative precarie, sottopagate e a volte anche gratuite. Non a caso Grillo e Di Maio hanno più volte dichiarato di ispirarsi all’esperienza tedesca e all’istituto dell’Hartz4 introdotto dal governo a guida SPD-Verdi agli inizi degli anno 2000 insieme ad un complesso di norme passate alla storia come Agenda 2010, volute fortemente dall’allora cancelliere Gerhard Schroder, che hanno liberalizzato in senso neoliberista il mercato del lavoro, ridotto e limitato il sistema di welfare sociale sino a quel momento in vigore. Il risultato più evidente dell’introduzione di questi strumenti è stata la forte precarizzazione del mercato del lavoro in Germania e l’allargamento delle disuguaglianze sociali. L’Hartz4 non è più il sussidio di disoccupazione che nel sistema del welfare tedesco garantiva un “paracadute sociale” a quanti rimanevano senza lavoro o erano in condizione di disoccupazione, frutto delle conquiste determinate dal ciclo di lotte europee dell’operaio multinazionale degli anni 60-70, 4 bensì un sussidio economico elargito solo a determinate condizioni che sono sostanzialmente le stesse previste dalla proposta di Di Maio. Istituti analoghi o simili sono presenti in Danimarca, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Irlanda ma anche in Brasile e in Alaska, alcuni con sussidi più consistenti come in Danimarca, altri decisamente più improntati a un vero reddito di cittadinanza come in Alaska ma tutti rispondenti alle caratteristiche assunte dal mercato del lavoro in questi ultimi decenni. Insicurezza economica e precarietà dell’impiego sono le caratteristiche principali dei diversi mercati del lavoro in Europa come nel resto del mondo globalizzato e queste particolari forme di workfare rispondono perfettamente alla creazione di una massa disponibile di working poors.
Il Reddito di cittadinanza pentastellato non molto diverso dal Reddito di Inclusione (ReI) istituito nel 2016 dal PD, è impreganto delle medesima filosofia lavorista e in termini di implementazione economica semplicemente ne aumenta i fondi a disposizione e ne amplia la prospettiva con l’integrazione per le pensioni minime e con la ipotizzata riforma dei centri per l’impiego. E’ lo stesso Di Maio ad ammetterlo indirettamente quando spiega che non verranno erogati 780 euro a persona perchè si tratta di una integrazione al reddito personale. In pratica si tratta di una serie di fondi diversi che dovrebbero portare a una dotazione finanziaria di 10 miliardi circa che rinforzeranno i fondi sinora destinati al ReI per fornire un assegno di 780 euro a una platea di circa 3,5 milioni di italiani “poveri” ma attivi e in età lavorativa e a circa 1,6 milioni di pensionati con assegno inferiore a 500 euro. I 780 euro di cui si parla, però, non saranno totalmente versati perchè l’operazione prevede integrazioni al reddito o alla pensione e non sussidi interi. Per di più non dovrebbe trattarsi di denaro contante, bensì di cashless erogato attraverso bancomat o app dove verrebbe versato il corrispettivo risultante dalla differenza tra il tetto di 780 euro e i limiti patrimoniali e reddittuali stabiliti dall’Isee. In media si può ipotizzare che nell’app o nella card arrivi massimo la metà dei 780 euro strombazzati. Lo stesso dicasi per l’integrazione pensionistica che dovrebbe attestarsi su una media di 300 euro. Tutta questa platea di persone, come avviene ormai in molti settori produttivi, sarà controllata attraverso l’assunzione digitale dei loro dati che, invece di essere utilizzati commercialmente come avviene tutti i giorni con gli accessi alle piattaforme Facebook, Google o Amazon e altre simili, verranno immagazzinati per il controllo e la sorveglianza del rispetto dei requisiti per l’erogazione del sussidio. Una sorta di patente a punti che consente di ottenere per un tempo prefissato l’assegno “di cittadinanza” grazie alla dimostrata buona condotta. Un pò come il social credit system instaurato in Cina per valutare l’affidabilità sociale e lavorativa dei cinesi o il credit score messo in atto in Gran Bretagna e Stati Uniti per valutare l’affidabilità creditizia delle persone. La vecchia social card di berlusconiana memoria viene sostituita, quindi, da una più raffinata forma di controllo digitale del rispetto degli obblighi e della subordinazione ai dettati dei nuovi centri per l’impiego.
A essere esclusi da questo assegno saranno, manco a dirlo, gli stranieri. Di Maio ha subito accolto l’invito del socio Salvini escludendo dal questo sussidio un milione e 600 mila persone straniere e residenti in Italia considerate dall’Istat “povere assolute” e altrettanti 2 milioni e 700 mila persone, anch’essi stranieri e residenti in Italia, in condizione di “povertà relativa” nonostante lavorino e paghino le tasse in questo Paese e i loro versamenti contribuiscano a rimpolpare le casse dell’INPS senza sapere se un giorno ne potranno anch’essi beneficiare come gli altri lavoratori.
Di Maio si giustifica in qualche modo per la marcia indietro pentastellata dichiarando che “è impossibile in questa situazione fare il reddito di cittadinanza senza sapere qual è la platea ed è ovvio che si deve restringere ai cittadini italiani”. Per il Governo si sono già spesi troppi soldi per l’accoglienza dei migranti giocando all’equivoco di confondere quanti, stranieri extracomunitari e comunitari, vivono e lavorano in Italia con i rifugiati e i richiedenti asilo a cui spetterebbero altri diritti e servizi. Forse la stesura finale della misura includerà gli stranieri residenti in Italia da più di 10 anni ma la sostanza della restrizione non cambia: un’esclusione di segno xenofobo e razzista che la colloca come una delle misure restrittive tra le più feroci in Europa tra quelle messe in atto per controllare e bloccare la mobilità intra-europea delle persone. Si sancisce in pratica l’esclusione etnica e nazionale di milioni di persone da un sistema che è già fortemente diseguale, improntato all’inclusione differenziale di poveri e precari.
L’esclusione dei cittadini stranieri dal Reddito di cittadinanza trova un corrispettivo nella marcata impronta del decreto sicurezza: ciò dimostra come su questo versante i pentastellati siano in piena sintonia con la Lega. A sancirne la coesione nello spirito razzista è l’immagine – terribile – del Presidente del Consiglio Conte a fianco di un sorridente Salvini mentre esibiscono entrambi un foglio A4 con la scritta “//decretosalvini – sicurezza e immigrazione”.5
Sicurezza e immigrazione appunto! Volutamente un connubio voluto da Salvini e accettato dai cinquestelle per sottolineare che la necessità di nuove misure restrittive per la sicurezza dei cittadini sono dovute al pericolo portato alla comunità etnica nazionale dall’immigrazione e dalla presenza sul nostro territorio di stranieri. Ecco allora giustificata l’abrogazione dell’accesso al diritto d’asilo salvo che nei pochi casi che rientrano nella casistica della protezione internazionale e la sostanziale marginalizzazione del sistema Sprar o la disparità di tutele giuridiche per gli immigrati a cui basta il giudizio di primo grado per essere privati della protezione umanitaria e il ritorno dei centri di permanenza temporanea come circuito di reclusione per rifugiati e richiedenti asilo. E poi il daspo come provvedimento restrittivo contro forma di protesta sociale e la sperimentazione dei taser a disposizione delle forze di polizia e persino della polizia urbana a coniugare l’impronta razzista con quella repressiva di ogni dissenso. Il tutto giocato sulla paura e l’insicurezza alimentate da campagne stampa e attraverso l’utilizzo dei social media di cui proprio Salvini si dimostra un provetto utilizzatore.
Ci avevano provato i pidiessini Minniti e Orlando ad anticipare su questo terreno il ciclone razzista di Salvini con sessioni speciali nei tribunali solo per i migranti o con la trasformazione degli operatori dei Centri d’accoglienza in pubblici ufficiali per evitare che i migranti, sono parole di Minniti, potessero diventare un pericolo “per la tenuta democratica del paese” ma come sempre l’originale, oltre a superare di gran lunga la copia, risulta anche vincente in termini di consenso. Tanto più se come sta avvenendo questo governo sa coniugare la terribile ferocia dei respingimenti e della chiusura dei porti alle navi che trasportano migranti tratti in salvo in mare con provvedimenti che giocano sulla paura dell’insicurezza sociale e economica determinata dalla crisi, additando nello straniero colui che sottrae risorse e lavoro che spetterebbero prima agli italiani e nell’Europa delle politiche di austerità e dei vincoli finanziari e monetari il nemico del possibile risorgimento del benessere del Paese, presentando decreti e manovre che se liberate da questi orpelli europei potrebbero sconfiggere la povertà e dare lavoro garantito a tutti.
In questa ottica, come per il decreto dignità che secondo Di Maio ha rappresentato il primo passo dello smantellamento del Job Act mentre altro non è stato che un leggero restyling di alcune sue storture compensato dal ripristino degli odiosi voucer nei settori produttivi dove maggiore è il lavoro precario, intermittente, stagionale e nero, anche i provvedimenti annunciati in materia pensionistica vengono descritti come lo smantellamento dell’odiosa Legge Fornero. La famosa “quota 100” ovvero la somma di età anagrafica e di anni di contributi versati limitata a chi ha più di 64 anni o, secondo le ultime notizie, a chi ne ha 62, oltre a rimanere ancora poco chiara presenta ancora ombre e sospetti fondati su tagli delle pensioni dell’ordine del 20-30%. Quello che invece risulta più chiaro è che questa proposta apre la strada al conteggio pensionistico esclusivamente contributivo con la possibilità di rendere retroattivo questo meccanismo che impoverirà le future pensioni e non rappresenta affatto la “cancellazione della Fornero” perchè favorisce solo una piccola parte di persone che sono state colpite da quella riforma non risolvendo per nulla i problemi degli under 50 immersi in un mercato del lavoro ormai segnato dalla precarietà e dall’intermittenza lavorativa. Nel settore privato la limitazione del conteggio di soli 2 anni di contribuzione figurativa per accedere alla “quota 100” esclude molte categorie lavorative dalla possibilità di usufruire di questo meccanismo per ottenere la pensione. Nulla risolve invece per le fasce lavorative ancora relativamente giovani e tanto meno proprio per i giovani che stanno entrando o devono ancora entrare nel mercato del lavoro. Questi, a fronte di una strutturale precarizzazione del mercato del lavoro saranno costretti a lavorare sempre di più, sempre più a lungo, precariamente e con sempre meno tutele, garanzie e appunto contributi utili a ottenere una pensione.
Secondo Massimo Franchi autore di un buon libro sul tema 6 “bisogna ribaltare il paradigma dell’austerità e tornare a considerare il sistema previdenziale come retributivo” e non limitarsi ad abolire la Fornero ma considerare i risparmi ottenuti e quelli futuri una base finanziaria per rivedere il sistema e ristabilire una giustizia sociale intergenerazionale. Per Franchi si dovrebbe lavorare a proposte come la “pensione di garanzia” e “il reddito minimo dignitoso” quali soluzioni intermedie per giungere a un sistema pensionistico rispondente alle esigenze e alle casistiche attuali del mondo del lavoro. La “pensione di garanzia” pensata da questo autore garantirebbe a suo dire una integrazione statale per ogni anno di contributi quando questi sono sotto la soglia minima che, al momento della pensione, diverrebbero un assegno erogato in relazione all’età e agli anni di attività. Un meccanismo che aiuterebbe chi ha avuto una vita lavorativa da precario molto più del sistema attuale e dello stessa “quota 100”. Se ci fosse nella compagine governativa una effettiva volontà di andare incontro all’esigenza sociale di tempi di lavoro meno lunghi e di dignitose pensioni per il restante tempo di vita si sarebbero ricercati meccanismi meno faraginosi e parziali della “quota 100” reperendo risorse adeguate che non mancano: basti pensare ai 25 miliardi di euro che nel 2018 l’Italia ha stanziato per le spese militari e all’impegno appena assunto dal Governo con Trump per aumentare il contributo dell’Italia nella NATO a 100 milioni al giorno. Risorse che servirebbero a varare vere riforme pensionistiche e istituire un reale reddito di cittadinanza per tutti.
Innegabilmente queste misure – “quota 100”, Reddito di cittadinanza, Decreto dignità – vanno incontro alle aspettative sociali di un’ampia fetta di popolazione che vive con sofferenza gli effetti della crisi che si protrae ormai dal lontano 2008 e che non vede certezze sociali e economiche per sè e la propria famiglia nel prossimo futuro. Su questa sofferenza e incertezza si fonda il consenso di questo governo che solo apparentemente sembra non utilizzare come i governi che lo hanno preceduto ricette neoliberiste. Su questo consenso acquisito si inseriscono viralmente limitazioni delle libertà democratiche, provvedimenti smaccatamente razzisti, discriminazioni verso gruppi sociali come immigrati e rom, provvedimenti illiberali, restringimenti dei diritti civili in una cornice egoistica e identitaria. Tutto ciò sta per ora funzionando anche se molti dei provvedimenti annunciati sono ancora in “brutta copia” o rimangono propaganda e nulla di concreto anche se ci sono segnali di difficoltà e di contrasto tra le parti nel governo – i ritardi ad esempio nel varo del decreto Genova così come le differenze sottotraccia che si sentono ma non si vedono ancora tra pentastellati e Lega sulla questione della flat tax e del Reddito di cittadinanza vanno in questo senso.
Bisogna quindi fare uno sforzo per sviscerare la natura vera di questi provvedimenti come si è tentato modestamente qui ora, contrapponendo proposte realmente rispondenti alle aspettative sociali di chi chiede la messa in discussione della Legge Fornero e del Job Act e l’avvio di un vero reddito di cittadinanza universale. E’ solo su questo terreno che si può confliggere con la neolingua nazionalpopolista dei gialloverdi per mettere in crisi il loro attuale consenso, rivendicando la nostra opposizione alla Fornero, al Job Act, alla Buona Scuola, alla flat tax, contrapponendole una fiscalità che faccia pagare a tutti le tasse in ragione della loro condizione economica per destinare risorse a un vero welfare sociale, praticando la critica all’allungamento del tempo di lavoro che la precarizzazione del mercato del lavoro ha determinato, producendo lotte per questi obiettivi. E legando questi temi alla difesa del territorio, alla necessità di metterlo in sicurezza, alle rivendicazioni di comitati e associazioni che lottano contro progetti inquinanti e devastanti dei suoli e delle risorse, con quanti rivendicano per le risorse naturali lo status di bene comune e una gestione pubblica in tal senso. Non dimenticando le reti solidaristiche che operano per l’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, le associazioni umanitarie sotto attacco razzista in questi mesi. Insomma è il momento di ricercare dal basso forme di organizzazione, di lotta e di espressione ricompositive delle tante ricchezze sociali oggi parziali e isolate per costruire una opposizione vera e credibile a questo Governo che sia interna al corpo sociale del Paese e risponda veramente alle richieste sociali di quanti hanno subito in tutti questi decenni gli effetti delle politiche neoliberiste di cui la versione sovranista-nazionalista gialloverde non è altro che una delle versioni, diversa da quella precedente pidiessina ma, allo stesso tempo, sempre interna a questo sistema capitalistico.
Note:
1> Roberto Ciccarelli “Di Maio:
2> Negli Stati Uniti l’erogazione dell’assegno avviene da tempo soprattutto attraverso carte di debito. La logica di questo sistema discende da programmi di aiuto federale ai poveri per acquisti alimentari (Food Stamp Program) che dagli anni 90 è stato integrato in un sistema di carte di debito definito Eletronic Benefit Trasfer che viene fornito da appaltatori privati. Ne beneficia dal 2012 il 15% della popolazione ricevendo mediamente circa 130 dollari al mese in assistenza alimentare. Una sorta di capitalismo compassionevole che ha ben poco di questo sentimento ma che risponde a un sistema di controllo sociale della marginalità sociale.
3> “Io, Daniel Blake”, film, regia di Ken Loach, 2016
4> Sul ciclo di lotte degli anni 60-70 in Europa e sulle conquiste che le politiche neoliberiste a partire dagli anni 80 hanno smantellato o modificato si veda l’interessante e raro contributo del volume “L’operaio multinazionale in Europa” edito nella Collana Materiali Marxisti da Feltrinelli, 1974
5> Su questa esibizione di sudditanza molto efficace è la nota di Massimo Cacciari, “Apocalisse di un premier” nel L’Espresso n. 40 del 30 settembre 2018
6> Massimo Franchi “L’inganno delle pensioni”, Imprimatur edizioni, 2018.