Ci vorrà ancora circa un mese affinché escano i bandi relativi ai concorsi previsti nella legge Finanziaria 2019/20 per la scuola. Concorsi che sono stati sbandierati come panacea del precariato ma che in realtà ’sistemeranno’ circa 48.000 insegnanti sui circa 180.000 attualmente precari. Senza considerare circa 20.000 Ata, quasi non fossero lavoratori della scuola.
Una sistemazione che riguarderà 1 su 6 precari ma che sarà tale solo tra circa 2 anni, il tempo, ad essere ottimisti, di svolgimento e conclusione dei concorsi stessi; per gli altri rimarrà il risultato di ottenere l’abilitazione all’insegnamento, una beffa per i tant* che già lo sono e da lungo tempo.
Nel tempo che intercorre per dar seguito ai concorsi, il precariato sarà accresciuto del numero di coloro che in 2 anni escono dalla scuola per pensionamento. Una cifra che ragionevolmente può essere indicata in 70.000 persone, portando i numeri del precariato attivo nella scuola alla cifra record di 250.000 soggetti. Il 25% di tutti gli occupati nella scuola pubblica, a cui vanno aggiunti tutt*quell* che, a vario titolo, sono occupati nel settore istruzione ma non sono conteggiati, dunque, non compaiono nel novero dei precari della scuola.
Ci riferiamo a quella nebulosa di precar* che gravitano attorno alle scuole d’infanzia gestite dai Comuni, dagli Enti privati laici e confessionali, alle scuole Paritarie e private, agli Istituti di Formazione regionali e tanto d’altro, dove il personale insegnante precario, secondo stime parziali, supera il 50%, incrementando il numero totale dei precar*, almeno, di altri 100.000 soggetti. E che dire della condizione precaria nella ricerca e nell’università in generale: leggete il contributo di Andrea Toma (1) e seguite roars.it, troverete molti spunti e dati.
Ma tornando alla scuola, a fronte di una carenza di offerta per talune materie si andrà a creare una grave situazione di carenze di organico tale da mettere in seria difficoltà le ripartenze scolastiche per gli anni a venire, oltre ad un conseguente scadimento dei percorsi di apprendimento. Alla faccia della conclamata meritocrazia che dovrebbe sovraintendere e lubrificare l’intero comparto dell’istruzione, così come pontificano i soloni della cultura e dell’INVALSI.
E’ questo, che si profila, solo il boomerang di una gestione incompetente e insulsa oppure è una nuova spallata neoliberista volta alla demolizione della funzione della scuola pubblica e a favore della scuola privata e d’elite?!!
Stando a quanto ci ricorda l’ISTAT – vedi più sotto – la scuola è di fatto aziendalizzata ed ha, nella sua forza lavoro occupata una fascia di precariato non dissimile a quello presente in diversi segmenti produttivi e distributivi del lavoro privato – quelli maggiormente interessati dalla ricollocazione e ristrutturazioni propria della globalizzazione e della strutturazione del capitalismo delle piattaforme – e il doppio di quello presente negli altri segmenti del lavoro pubblico. Possiamo, dunque, dire che quella che era stata indicata come una tendenza del mercato del lavoro della società neoliberista si è stabilizzata e ne è diventata un elemento strutturale, di sistema. E’ la, reale e concreta, precarizzazione del lavoro, bellezza!! (2)
Quella veste romantica che alcuni ritrovavano nel essere precar*, definendola come una scelta soggettivante di una concezione e condizione di vita libertaria, fuori dalle imposizioni lavoristiche della società, ora, pensiamo, vada vista solo come coercizione, come disciplinamento sociale, come bieco super sfruttamento, come controllo sull’intera vita sociale. Una condizione sociale che sembra accettata come ineludibile, oggettiva, insuperabile o aggirata individualmente con i mille svilenti sotterfugi e, come tale, da avversare collettivamente con tutte le forze a nostra disposizione. Dall’agitazione, alla lotta, dalle vertenze ai contratti.(3)
Aldilà di esperienze e vertenze importanti come quella dei rider, dei precar* ANPAL, degli ATA internalizzati, della logistica, è tutto da ricostruire un discorso generale sul precariato, tanto nella scuola quanto nell’intera società, un percorso plurale che superi il disorientamento diffuso dagli interessi di bottega, dalle più svariate risposte individuali, dalle miopie corporative, dalle scorciatoie o stroncature autoreferenziali che durano lo spazio/tempo di un mattino, ma che avvii una movimentazione sociale vera e concreta.
Intanto diversi coordinamenti precari della scuola (MI-TO-PV-CA) hanno ottenuto la copertura sindacale di alcune O.S. di base, quali ADLcobas – CUB – SIALcobas – USI, e hanno indetto per il prossimo 14 febbraio uno sciopero nel settore, incentrato, appunto, sulle tematiche specifiche del precariato e non solo. Un tentativo che, aldilà di tutto, può divenire l’inizio di un percorso di mobilitazione e di lotta vero.
[Beppi Zambon]
(1)
Non è facile districarsi nell’interpretazione dei dati che riguardano l’università italiana e i suoi risultati, perché non è chiaro l’obiettivo prioritario che l’università italiana sta perseguendo in questi anni. L’opacità dei fini – che, di fatto, ha spiazzato il contenuto dell’articolo 34 della Costituzione laddove attribuisce ai capaci e ai meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi – è figlia di un assoggettamento del ruolo dell’università a determinanti economiche (soprattutto in termini di contenimento dei costi) che ne hanno condizionato la natura e la sua organizzazione. Guardando anche solo ai momenti fondamentali dell’accesso e degli esiti degli studenti italiani, non si può non ravvisare il rafforzamento dei meccanismi selettivi che in questi anni si sono via via dispiegati, tradendo nella sostanza il contenuto dell’articolo 34. In questo senso, può essere utile ricorrere alle analisi dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Secondo quanto riportato nell’ultimo Rapporto pubblicato quest’anno (Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca, 2018), i numeri fondamentali – citati direttamente – su cui riflettere e, in seguito, fare alcune osservazioni, sono i seguenti:
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(2)
Il bollettino mensile che l’Istat ha pubblicato il 30 gennaio, infatti, conferma una percezione diffusa anche tra i non specialisti: l’andamento del mercato del lavoro italiano resta altalenante, tanto più di fronte a una crescita del Pil che nel 2019 ha oscillato tra +0,2 nel primo trimestre e -0,3 nel quarto trimestre. Di fronte a tale debolezza difficile fare meglio.
Negli ultimi anni l’occupazione è cresciuta e la disoccupazione è scesa, anche in maniera più significativa di quanto non ci si potesse aspettare con un Pil stagnante. Tuttavia, si tratta di progressi lenti, non comparabili a quelli di altri paesi (nella primavera scorsa l’Economist dedicava una copertina al “boom di posti di lavoro” in giro per il mondo).
Inoltre, come già scritto molte volte, a un miglioramento nelle statistiche sul numero di occupati non corrisponde necessariamente un miglioramento significativo delle loro condizioni di vita. Le ore di lavoro restano sotto il livello pre-crisi a causa dell’esplosione del part-time involontario. I salari stagnano, ancora più di quanto non facessero nel periodo prima della crisi. Seppure in frenata, il lavoro a termine resta intorno al 17 per cento, esattamente come nell’estate 2018 quando fu varato il “decreto dignità”.
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(3)
Nel 2011, i segni di scontento sociale sono ancora una miccia per collettivizzare e organizzare il dissenso, un modo di costruire una rete di modi di pensare e sentire affine, ed è con questo spirito che noi, che siamo ancora i giovanissimi del movimento, partecipiamo alle riunioni. Bauman è ancora vivo, e lo slogan di riferimento è “Pensare globale agire locale”. Ad esempio, a Bologna c’è appunto Santa Insolvenza, che prende le fila dal movimento nazionale San Precario. Il progetto non è solo la costruzione di un nuovo soggetto lavorativo consapevole e collettivo, ma far sì che la sua esistenza venga rappresentata e documentata. Rendere impossibile ignorare la fatica e il dramma quotidiano di chi non ha nemmeno le garanzie dell’operaio degli anni Sessanta. Le assemblee sono gremite di gente dedita a quelli che qualcuno definisce “lavoretti” ma che in realtà sono lavori di tutto rispetto pagati male: molti baristi, alcuni camerieri, babysitter, commessi part-time, assistenti di laboratorio. Molti di noi sono già alla fase della negoziazione della propria identità lavorativa: in attesa di un lavoro per cui si è qualificati svolgiamo altre mansioni, teoricamente più umili, per accorgerci che per vivere non bastano nemmeno quelle, e che comunque non ci soddisfano.
A distanza di meno di dieci anni, non si parla più di San Precario, e pochi si ricordano di Santa Insolvenza. Abbiamo smesso di essere precari insoddisfatti? Le nostre istanze sono state accolte? Niente di tutto ciò. Semplicemente, a un certo punto, i movimenti dei precari hanno smesso di far parte del dibattito pubblico. E questo non ci dovrebbe sorprendere: nella misura in cui con dibattito pubblico si intende la produzione di contenuti, di un vademecum pratico sui diritti che vada oltre le speculazioni momentanee dettate dal malessere collettivo, per esistere in questo senso è necessario disporre di tempo libero. Proprio la precarietà, che avrebbe dovuto innescare una resistenza politica e culturale, ha decretato la fine di tutto: nessuno può più permettersi di perdere tempo per qualcosa di collettivo. Nessuno è più pienamente padrone del suo tempo. Nessuno stacca più davvero dal lavoro, perché da un momento all’altro potrebbe essere rimpiazzato da qualcun altro, probabilmente più giovane e produttivo, o magari semplicemente più disperato. Il tempo davvero libero, per i precari, non esiste più: è stato smantellato dalle riforme del lavoro che attraversano gli ultimi dieci anni e che vedono la punta dell’iceberg nel Jobs Act del 2015.
Prima del Jobs Act c’era ancora un po’ di tempo che si potesse percepire come collettivo e da organizzare: la modalità organizzativa orizzontalista di Santa Insolvenza e di San Precario nel 2011, l’assemblea aperta a tutti, mostra il retaggio culturale e politico di chi lo compone. Lo spettro politico dei partecipanti va dall’area disobbediente a quella autonoma libertaria, da quella marxista ortodossa al riformismo moderato, e ancora non risente davvero dei contrasti e della lotta per l’egemonia interna ai movimenti. In un’ottica orizzontalista, la trasformazione della società va operata cambiando il mondo dal basso, senza prendere il potere e facendo leva sulle affinità dei gruppi che la compongono. San Precario è il risultato dell’unione delle forze di chi lavora per un sottosalario, di chi soffre le conseguenze di un reddito intermittente e di chi è preoccupato per il futuro, con un’ostilità di base nei confronti delle strutture gerarchiche tipiche della politica rappresentativa. Non a caso è malvisto dalla CGIL, che aveva cercato di fornire una risposta istituzionale al problema del lavoro precario fondando un’apposita sezione per i precari, la Niidil (Nuove Identità di Lavoro), vista dai diretti interessati come una contraddizione in termini, se non come una vera e propria beffa.
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