Tutti conoscono la nota frase dell’economista John Maynard Keynes, che sostenne, negli anni 30 del secolo scorso che “nel lungo periodo siamo tutti morti”, affermata per rendere universalmente comprensibile il ruolo dell’intervento dello Stato attraverso l’uso della spesa pubblica, della finanza, delle politiche monetarie. Ciò è tanto più vero ora, nell’epoca del just in time produttivo, della velocizzazione dei mutamenti sociali, comportamentali e politici, dei cambiamenti climatici che sconvolgono l’assetto idrogeologico di intere regioni. Nel solo volgere di un mese ne abbiamo avuto una drammatica dimostrazione: ogni qualvolta che sulla penisola si scarica una perturbazione ci ritroviamo con uno strascico doloroso di devastazioni, crolli, frane, esondazioni, sfollati, feriti e morti, molti morti. Nord e Sud uniti nella tragedia. Lo riscontriamo non solo in Italia, Spagna, Francia ma, sempre più spesso in tutta l’Europa, e in tutte le regioni fortemente antropizzate del globo.
È con tutta evidenza il cambiamento climatico, ci dicono gli esperti ufficiali di turno scodellando tabelle, gradi, istogrammi che certificano il mutamento avvenuto negli ultimi 30, 20, 10 anni: tutti, o quasi, tralasciano di sottolineare che ciò non è prodotto dai capricci di Giove Pluvio ma dall’inquinamento prodotto dagli umani, dall’ordinamento economico e sociale che si sono dati. È il Regno del Capitale, in particolare della sua attuale declinazione estrattiva e predatoria, e non, certo, il Regno di Mordor della famosa saga per grandi e piccini.
Di questi disastri ecologico ambientali, così come delle distruzioni belliche, dei terremoti, delle epidemie socio sanitarie, e quant’altro, si nutre, si alimenta, si riproduce il capitalismo di rapina e di morte: già nel 2008 Naomi Klein l’ha definita “shock economy”, raccontando come disastri naturali, crisi economiche e guerre rappresentino, ormai da decenni, una ghiotta occasione su cui si avventano gli avvoltoi della finanza predatoria. La ricostruzione è il business cinico e baro a cui abbiamo assistito, contro cui abbiamo lottato sempre; ricordiamoci i terremoti del Molise, d’Abruzzo, le esondazioni delle fiumare di Calabria e Sicilia, di Livorno, della Valpolcevera ma non scordiamoci, pure, che il grande “boom economico” europeo si è dato a partire dalla ricostruzione postbellica.
È questo dissennato sviluppo economico, è questo modello sociale che ha prodotto e sta producendo lo sconquassamento degli equilibri del nostro ecosistema, non vi è nulla di naturale in tutto questo, ma è artefatto dalla mano degli uomini: dei Trump, degli Xi, Putin, Merkel, Bolsonaro, Macrì. Di Salvini che sfotte gli ambientalisti da salotto mentre lui, da deputato europeo e ambientalista serio quale si ritiene, ha potuto votare contro gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici e s’adopera a Nord come a Sud per far ripartire i cantieri delle Grandi Opere.
È, veramente, ora di dire BASTA: è urgente una sola decisione politica che metta in moto tutto quanto è possibile fare per mettere in sicurezza il dissesto idrogeologico che abbiamo ingenerato con la cementificazione del territorio, con la trasformazione della pianura padana in una camera a gas, con la plastificazione di ogni prodotto immesso nel mercato, con l’esaltazione del consumismo quale espressione del benessere e benestare. Opere di prima necessità a basso contenuto di capitale e alta incidenza di lavoro, pronte da subito, ben altro che usare le tragedie per rilanciare il MOSE che potrà contenere la marea fino a 1,20 metri quando quella dei giorni scorsi ha raggiunto 1,50 metri sul medio mare o l’alta velocità TAV invece che un piano per il trasporto pubblico accessibile per tutti, che crei le condizione per una drastica riduzione della mobilità privata. Miopi e criminali.
Come lo sono i Sindacatoni di Stato che preferiscono tenere l’ILVA [ex] e far morire gli abitanti del quartiere Tamburi e il Mar Piccolo a Taranto, difendere i cementifici di Monselice che fanno ricadere diossina fino al Parco naturale dei Colli Euganei, che si battono per mantenere in produzione il petrolchimico di Priolo che ha percolato a mare una quantità inimmaginabile di mercurio o, fino a ieri, la Miteni di Trissino ha che infarcito di PFAS le falde acquifere da Vicenza a Rovigo. Il lavoro è sacro e la vita no.
Come lo sono le lobby confindustriali che stanno dietro alla mobilitazione torinese del Si Tav che si propone di aggrumare interessi corporativi, politici e di opinione per dare una spallata alle titubanze del Governo, dei 5 Stelle e della Giunta di Torino, cercando così di doppiare la marcia anti operaia dei quadri Fiat dell’ottobre 1980 che aprì le porte alla ridefinizione dei rapporti di forza dentro e fuori il mondo del lavoro, con l’uso padronale di cassaintegrazione, decentramento, licenziamenti politici.
Questi – e non solo – sono una banda di negazionisti dell’olocausto climatico che è in corso, bypassando gli allarmi e ogni conclamata evidenza della china autodistruttiva che abbiamo imboccato, già ampiamente descritta da scienziati ed esperti, e che subirà un’accelerazione impressionante e inarrestabile se non vengono sostanziosamente modificati gli attuali paradigmi produttivi e riproduttivi. Di questo vanno socialmente imputati, non ci interessano le future Norimberga sui disastri ambientali. Quei riti – e le manette – li lasciamo volentieri ai vari Grillo del pianeta e ricordiamoci di lord Keynes.
È necessaria, dunque, un’inversione di rotta che metta al centro l’ecosistema, qui ed ovunque, e sviluppi una critica costante al modello di vita che hanno costruito dentro la società in cui viviamo. Non è semplice, non è facile modificare e sradicare quello che è parte costituente dell’essere umano contemporaneo ma deve diventare, per tutti, un’opzione politica, sociale e di costume.