Uno sviluppo senza espansione economica, una ripresa spinta dalla manifattura e dall’export senza ampliamento della base produttiva. Un paese dove i «poveri assoluti» sono aumentati del 165% rispetto al 2007 (sono 4,7 milioni), senza contare i «nuovi poveri», 8 milioni 465mila persone, pari a 2 milioni 734 mila famiglie, che lavorano precariamente, appartengono anche al ceto medio, e non vedono la fine del mese con un solo stipendio. Questo è il paese dove la borsa è tornata a crescere, trainata dalla finanza globale: in un anno è passata da 455,1 miliardi di euro di capitalizzazione a 638,2 miliardi.
POVERTÀ E RENDITA finanziaria in aumento sono i risultati, diversi e convergenti, della «crescita» che il 51esimo Rapporto sulla situazione sociale del paese (Franco Angeli), presentato ieri al Cnel di Villa Lubin a Roma, che il Censis ha visto tornare, ma che non sa se sia il colpo di coda di un’agonia lunga un decennio o l’inizio di un nuovo ciclo economico. Qualora lo fosse, un nuovo inizio, la «crescita» in atto non porta a una redistribuzione, né a una giustizia fiscale e sociale, ma alla moltiplicazione delle diseguaglianze tra rendite da rendita e redditi da lavoro, quelle che il Censis chiama le «lacerazioni del tessuto sociale». L’estenuante celebrazione dei decimali della ripresa, fatta per motivi pre-elettorali e non per una reale comprensione dell’economia della «stagnazione secolare» in cui ci troviamo, non scuote di un millimetro l’«indifferenza» e il pessimismo in un paese ostaggio della paura del «declassamento», a stretto contatto con la durezza della crisi dei redditi e di un immobilismo atroce. Un paese che si mostra impotente di fronte ai cambiamenti climatici e agli acquazzoni che annegano intere città come Roma, eventi catastrofici che evidenziano la cronica mancanza della manutenzione e degli investimenti, incerto su tutto, soprattutto sul domani. Il paese è «impreparato al futuro» e ne è consapevole: in dieci anni sono crollate le nascite (100 mila), mentre è desueta l’idea romanzesca che la vita sia l’«ascesa sociale» dell’imprenditore di se stesso: l’87% dei nati dagli anni Ottanta in poi (i «Millenials») ritiene che sia «molto difficile», mentre lo scivolamento è ritenuto più probabile dal 69,3%.
LA STATISTICA, già nota, non restituisce la percezione di questa condizione psicologica e sociale dal punto di vista occupazionale, ma è utile per spiegare la situazione: la disoccupazione giovanile (34,7%) oggi è più che tripla rispetto a quella generale (11,1%), mentre il Jobs Act, la riforma Poletti dei contratti a termine e la legge Fornero hanno portato a un aumento dell’occupazione precaria tra gli ultracinquantenni. La fascia di mezzo, quella che nel Novecento era giudicata la più «produttiva» nella vita del cittadino-lavoratore tra i 35 e i 49 anni, è devastata dalla precarietà. In queste condizioni non basta che la produzione industriale ricalchi, e in qualche caso superi, le performance di quella tedesca (+4,1% nel terzo trimestre del 2017). Questo è poco più di un contentino per pochi. I molti giocano in un altro campionato.
IL CENSIS si sofferma sui destini del ceto medio. La crisi, iniziata nel 2007, lo ha fatto «esplodere» economicamente. Nella sua fascia più bassa, ormai si parla di «nuovi poveri». Esploso è anche quell’immaginario collettivo proprietario che dagli anni del «boom» in poi ha affermato l’idea di «farsi impresa», comprare una o più case e metterle a rendita, consumare, competere, arricchirsi. La crisi ha prodotto uno choc: tutto questo è finito, forse, per sempre. Le nuove disparità prodotte in una crisi che non produce occupazione fissa e distribuisce la ricchezza solo verso l’alto, ha trasformato anche l’immaginario. Come in «Rancore», un libro di dieci anni fa scritto da Aldo Bonomi sulla condizione del Nord, anche il Censis ricorre allo stesso concetto per descrivere la psicologia del ceto medio tradito dalla «crescita» che non è più quella di una volta.
IL «RANCORE» è il sentimento del proprietario senza reddito, quello che cerca di difendere la «micro-felicità» quotidiana data da consumi a poco prezzo e tende a rimarcare le differenze con gli altri, in particolare con le classi sociali più penalizzate e gli immigrati. Anche se le immigrazioni si sono ridotte del 43% in dieci anni, passando da 527mila nel 2007 a 301mila nel 2016 (dati Istat del 29 novembre), l’odio per il migrante rimbalza dagli schermi Tv e dai Pc. La politica (dal Pd alle destre, fino ai Cinque Stelle) alimenta fake news che arrivano a influire sull’operato del governo (la vicenda Minniti-Ong ne è un esempio), mentre la politica «rassicura» le masse impaurite e impoverite con il populismo e il sovranismo. Risentimento e nostalgia del «tempo che fu»: questa è la cifra della politica in campagna elettorale permanente.
IL PICCOLO BENESSERE, costruito sui «bonus» che il populista Renzi ha distribuito al ceto medio dipendente, è stato usato per un «coccolamento di massa» dopo i duri anni del «taglia e sopravvivi». Nella parte più interessante del rapporto di quest’anno, il Censis descrive la reazione alla «strisciante crisi immateriale». Quei soldi – pochi e maledetti – in più in tasca servono a coltivare la «felicità delle piccole cose», il benessere low cost dei viaggi scontati (Ryan Air+pacchetto vacanze su Airbnb), lo smartphone di ordinanza, qualche cinema e teatro, ma non un libro in più: il 57% non ne ha letto uno nel 2016, 33 milioni di persone, sostiene l’Istat. La ripresa dei consumi è una «consolazione di massa senza ambizione né futuro» creata da «lavoretti» e contratti a termine, i motori dell’«aumento» dell’occupazione. Anche questa crisi è servita a ristrutturare il capitale e la società. Oltre alla manifattura, il rapporto sottolinea la crescita della logistica – il trasporto merci – e la vendita dei servizi personalizzati a bassa specializzazione, mediati dall’algoritmo. Tutto questo mentre aumenta la domanda di professioni intellettuali ad alta competenza, ma pagate sempre peggio.
ASPETTATIVE a prezzi di saldo per una vita low cost in Italia. Per cambiare, e liberarsi da questo clima soffocante e fittizio da età dell’oro perduta, un invito che potrebbe valere la lettura di un rapporto di 539 pagine: «Senza un rinnovato impegno politico e un immaginario potente resteremo in trappola e senza obiettivi». Un’immaginario, s’intende, che vive oltre il «rancore», il «populismo», il «sovranismo».