ULTIMA ORA: Prima di lasciare spazio al commento sul Decreto Legge economico del 17 marzo è inevitabile inquadrare le riflessioni che seguono all’interno di una situazione nuova creatasi nel Paese dopo il varo il 21 marzo, con un nuovo DPCM, delle misure restrittive delle attività produttive non essenziali. Un provvedimento, resosi necessario dalla virulenza epidemica da covid-19, arrivato tardivamente, dopo settimane di titubanze governative, determinate dalla pressione confindustriale, che spazza via il pessimo e il colpevole protocollo firmato con le parti sociali [sindacati confederali e quelli industriali] che garantiva, invece, sostanzialmente la piena operatività di tutto il sistrema produttivo.
A costringere il Governo in tal senso non sono stati, però, solo i dati del contagio e della mortalità o le pressioni di Presidenti regionali e sindaci delle regioni più colpite ma anche, crediamo, la mobilitazione organizzata e spontanea in più posti di lavoro prevalentemente del nord Italia e delle organizzazioni sindacali di base che l’ha promossa e sostenuta – fra queste protagonista è stata certamente la costituenda rete inter regionale dell’ADL-Cobas, che ha battagliato da subito per ridurre drasticamente l’attività produttiva per garantire la sicurezza sanitaria dei lavoratori e delle lavoratrici, in permanenza di una garanzia del reddito.
L’organizzazione promossa dai sindacati di base ADL e SIcobas nei magazzini della logistica, nei reparti e nei diversi luoghi di lavoro affiancati da analoghe iniziative spontanee, soprattutto nel nord del Paese, crediamo abbiano giocato un ruolo importante anche se misconosciuto per giungere a questa soluzione e per rendere carta straccia il protocollo Governo-Confindustria-Sindacati Confederali. Ora, oltre a garantire la sicurezza sanitaria ai lavoratori e lavoratrici che rimangono al lavoro nelle filiere produttive essenziali, il Governo deve garantire a tutti, soprattutto a quanti e quante rimarranno a casa in sospensione lavorativa, sostegno e copertura economica adeguata. E’ questo l’ulteriore passaggio che il Governo è chiamato a precisare andando oltre nelle coperture finanziarie a quanto disposto con il decreto del 17 marzo.
Epidemia coronavirus: un sistema economico globalizzato andato in crisi
Con l’improvviso rallentamento della crescita economica cinese alle prese con l’epidemia da covid-19 tutto il sistema-mondo è andato in crisi. Una crisi che era già evidente in tutta l’eurozona, vista la caduta libera della produzione industriale della locomotiva tedesca e la sostanziale situazione di stagnazione economica in tutti gli stati membri e in quelli collegati all’eurozona.
Al termine del 2019 l’Italia prima del coronavirus presentava già il peggior calo nazionale della produzione industriale dal 2013 certificando, di fatto, di non essere mai uscita dalla situazione determinata dalla crisi mondiale del 2008. La condizione di recessione in cui si trova il Paese era già da qualche tempo in corso. L’emergenza determinata dallo scatenamento dell’epidemia da covid-19 non ha fatto che mettere a nudo agli occhi di tutti la presenza da tempo di profonde criticità nei meccanismi di funzionamento della nostra economia e del nostro sistema di welfare che ora presentano un conto salato e drammatico, qui, nell’eurozona e nel resto del pianeta.
Una improvvisa montagna di euro
Per rispondere all’emergenza determinatasi nell’Italia ai tempi del coronavirus il Governo ha predisposto un decreto del valore di 25 miliardi a cui, quasi sicuramente, seguirà una seconda decretazione di pari se non superiore entità; il Governo promette di mobilitare complessivamente in risposta a questa situazione ben 350 milardi e la Germania ne annuncia 550 per fronteggiare la crisi economica e produttiva dovuta all’inceppamento dell’economia mondiale. La Banca Centrale Europea, a sua volta, intende mobilitare almeno 750 miliardi da aggiungere ai 20 miliardi al mese del programma in corso e ai 120 miliardi di acquisto di titoli annunciati all’inizio di marzo, per un totale di 1000 miliardi a sostegno dell’azione di quantitative easing, ora rinominata PEPP (pandemic emergency purchase programme).
Da dove arriva, improvvisamente, questa montagna di soldi dopo che ci hanno bombardato per anni di dati, notizie, rassicurazioni, raccomandazioni sulla necessità di politiche di austerity, di riduzione della spesa pubblica e di vincoli ferrei di parità dei bilanci statali? E dove vanno a finire, soprattutto, questi euro? A sostenere cosa e per quali prospettive future?
La Bce intende adottare un programma molto più flessibile del quantitative easing approntato nel 2015 dall’ex presidente Draghi che non prevede una soglia massima di acquisti mensili di titoli e non rispetta la proporzionalità del capital key (proporzione tra acquisti e capitale determinato dalla quota azionaria della Bce da parte dei singoli stati). La Bce assicura che tutti i titoli, compresi quelli greci sinora tenuti in quarantena per la loro presunta tossicità e le obbligazioni a breve termine emessi dalle imprese, verranno acquistati in quantità e dove sarà necessario. Questo paracadute allargato risponde ancora una volta, però, alle logiche che sostanziano proprio le politiche neoliberiste di austerity che hanno prodotto le criticità oggi esplose sul piano sociale, sanitario e economico-produttivo. Questa montagna di denaro non andrà, insomma, a finanziare concretamente ospedali, scuole, ricerca, case popolari, redditi e non finanzierà quote di spesa pubblica aggiuntiva come sarebbe necessario fare in risposta all’attuale emergenza e non intende creare alcuna premessa per un radicale cambiamento di sistema. Nonostante che si segnalino anche solo sul piano del trasferimento diretto di denaro ai redditi dei cittadini pur del tutto dentro alla logica dell’attuale sistema neoliberista tentativi in tal senso ad Hong Kong e negli stessi Stati Uniti.
I limiti, quindi, della manovra economica di queste ore stanno tutti dentro a questo nodo irrisolto: siamo di fronte a una crisi di sistema a cui si intende rispondere con operazioni tampone che leniscano le ferite, le suturino in attesa che l’intero organismo si riprenda senza mettere in discussione le cause che le hanno provocate.
Decreto Legge Covid-19: sanità pubblica
Prendiamo ad esempio la sanità pubblica: il decreto governativo destina a questo settore, comprendendo anche nuovi fondi per la Protezione Civile, 3 miliardi di euro. Ma, al netto delle capacità e dell’impegno profuso da tutto il personale sanitario di fronte alla drammaticità dell’epidemia in corso, la fragilità dimostrata del sistema sanitario nazionale origina proprio dalla scelta di averlo progressivamente legato a logiche di mercato e a ragioni di profitto e non di efficenza e universalità di cure.
In questi anni la medicina di base e i servizi di prevenzione pubblica sono state sacrificate a favore di prestazioni diagnostiche e cure individuali selezionate secondo ottimizzazioni economiche di mercato (enfasi consumeristica); si sono ridotti drasticamente i posti letto (70 mila in meno negli ultimi 10 anni); tra il 2012 e il 2017 sono stati chiusi 756 reparti ospedalieri per favorire la costruzione in project financing di poli unici a efficenza specialistica; si è penalizzato il lavoro sanitario con la riduzione fra il 2008 e il 2017 di 42 mila unità (6,2%) mentre l’età media del personale è passata da 43 anni nel 2001 ai 51 anni attuali (tra i medici oltre il 50% ha più di 55 anni); la tendenza alla privatizzazione e finanziarizzazione della sanità è stata incentivata attraverso l’esternizzazione di prestazioni in convenzione e con la promozione fiscale di fondi sanitari integrativi, strumenti di intermendiazione assicurativa che hanno finito per intasare le prestazioni superflue ma profittevoli; si è prodotto con la regionalizzazione una frammentazione del sistema sanitario che ha aumentato le differenziazioni e le diseguaglianze di cura e servizi nei territori e inibito un pò dovunque la prevenzione. In 10 anni i tagli alla sanità sono stati nell’ordine di 37 miliardi di euro e l’ultima Finanziaria su 30,2 miliardi ne ha destinati alla sanità solo 7 (l’Italia al penultimo posto in Europa per spesa procapite a favore di questo settore fondamentale).
Eppure la sanità insieme a tutti quei settori che “non si possono fermare”, come la produzione e distribuzione alimentare, i servizi di cura, l’istruzione, i trasporti pubblici e le infrastrutture stradali, i servizi pubblici di acqua, luce, gas, l’amministrazione pubblica, i servizi di telecomunicazione, il trattamento dei rifiuti, rappresenta l’architrave della sostenibilità di una società civile.
E’ giusto, certo, che il Governo finanzi con il decreto il potenziamento del Sistema sanitario, prevedendo assunzioni di personale; l’aumento dei posti letto di terapia intensiva e nelle unità di pneumologia e malattie infettive; istituisca un fondo per le emergenze nazionali; fornisca comperture agli straordinari del personale sanitario ma se si accontanta, come lo spirito del decreto sembra indicare, a rispondere semplicemente all’emergenza coronavirus, i limiti di sistema non verranno mai messi in discussione e rimarremo in attesa della prossima emergenza e della successiva, inevitabile, crisi della risposta sanitaria.
Decreto Legge Covid-19: misure economiche a sostegno dei lavoratori e delle aziende
Le medesime critiche vanno rivolte alla parte del decreto governativo riguardante le misure a sostegno dei lavoratori e delle aziende. Anche qui, seppure insufficienti in termini di erogazione complessiva di stanziamenti, è la logica semplicemente di risposta emergenziale che ne determina i limiti. L’estensione della copertura di strumenti come la Cassa integrazione in deroga a tutto il territorio nazionale, a tutti i dipendenti e a tutti i settori produttivi è certo positiva così come il riconoscimento indiretto di una frazione di lavoratori come quelli del settore turistico e dello spettacolo che viene sancito con le misure a favore dei lavoratori autonomi e delle partite IVA. Rimane, d’altra parte, insufficiente l’indenizzo di 600 euro previsto per il mese di marzo, come, d’altra parte, lo è ancor più il fondo cosiddetto di reddito di ultima istanza di 300 milioni per quanti risulteranno esclusi dall’indennizzo per autonomi e partite IVA (in pratica circa 100 euro a persona secondo una prima stima del numero di avente diritto). Provvedimenti positivi come misure tampone e niente più, per altro insufficienti economicamente, che non toccano i nodi reali della crisi di sistema anche delle politiche dei redditi e della fiscalità ad esse collegata. Perchè non aver pensato, ad esempio, in questo periodo emergenziale a legare ai 600 euro, di cui andrebbe allargata la platea degli aventi diritto a tutte le figure lavorative che il decreto lascia scoperte da questo indennizzo, l’accesso gratuito o fortemente calmierato a beni e servizi fondamentali; perchè non aver esteso a tutti i lavoratori e lavoratrici amortizzatori sociali che coprano il 100% dello stipendio; insomma perchè non aver previsto un universale reddito minimo di esistenza per questa fase e previsto la trasformazione dell’attuale “reddito di cittadinanza” in uno strumento universale, non vincolabile coattivamente come l’attuale, utilizzando parte della liquidità che la Bce metterà in circolo?
Provvedimenti questi che potrebbero coprire anche quanti rimangono esclusi dagli insufficienti benefici del decreto come il lavoro di cura e quelle figure – pensiamo alle badanti – che operano in questo settore e, soprattutto, quella frazione non indifferente di lavoro informale o non dichiarato o, meglio, che costituisce l’economia non osservata, che sostiene la raccolta dei prodotti agricoli indispensabili per l’efficienza del settore agroalimentare. Lavoro riconducibile sostanzialmente a lavoratori e lavoratrici straniere, comunitari e extracomunitari, sottopagato, in nero o in condizione di estrema precarietà e in buona percentuale costituito da lavoro illegale (Eurostat calcola la sua presenza nei campi dell’eurozona intorno al 20% e in Italia al 30% della forza-lavoro impiegata).
Conclusioni
Il decreto non intaccando in alcun modo i nodi fondamentali della politica dei redditi e della fiscalità da lavoro in un sistema messo a nudo nella sua inadeguatezza e insostenibilità sociale dalla condizione determinatasi nell’Italia ai tempi del coronavirus, rischia di far pagare, come sempre, la crisi ai più deboli sia in termini di garanzie sanitarie che di condizioni di vita, di lavoro e di reddito.
Tanto più che non siamo probabilmente di fronte ad una emergenza sanitaria inspiegabile,bensì a un epidemia determinata, come molte altre susseguitesi con sempre maggiore frequenza a livello mondiale, da uno stress ecologico sempre più grave determinato dalle politiche estrattive e distruttive capitalistiche. Le cause che provocano i “salti di specie” di virus letali per l’uomo dagli animali sono dovute proprio alla distruzione di interi ecosistemi, alla desertificazione e deforestazione di interi territori che devastano il pianeta e aumentano la crisi ecologica planetaria. E in questo quadro dovremo anche domandarci come mai proprio nella pianura padana si stia assistendo a una percentuale così alta di decessi e se, come alcuni studiosi già lo affermano, questo abbia una corrispondenza con il profondo inquinamento di questo territorio e dalle conseguenze di questo sulla condizione di salute della sua popolazione (percentuali di rischio maggiore da deficienze cardiocircolatorie e respiratorie rispetto ad altri territori).
Rivendicare una necessaria trasformazione di sistema nel Paese come in tutta l’eurozona diventa, pensiamo, una necessità resa ancora più evidente dall’attuale emergenza. Si tratta di ripensare un sistema sostenibile ecologicamente che metta al centro l’universalità del diritto alla salute, dell’accesso ai servizi di welfare, del reddito garantito. Questioni come la rivendicazione di un reddito di quarantena universale, di una fiscalità sociale con giusti meccanismi di progressività, di salari minimi adeguati e uniformi in tutta l’eurozona insieme alla mobilitazione per un sistema di welfare secondo i principi di una economia fondamentale che garantisca, fuori dalle logiche di mercato e dai vincoli delle politiche neoliberiste, condizioni di vita universalmente sostenibili e migliori per tutti, in una prospettiva di sostenibilità ecologica deve diventare la matrice di una piattaforma rivendicativa globale.