“Strike” dei lavoratori degli studios di Hollywood
Oltre ai ritmi di lavoro aumentati e al maggiore sfruttamento le nuove piattaforme globali puntando anche sulla delocalizzazione delle produzioni
La delocalizzazione produttiva è un fenomeno vasto e consolidato nel sistema capitalistico perché consente maggiori di profitto al sistema delle imprese multinazionali e non. Questo fenomeno è determinato sempre più dalle speculazioni finanziarie dei grandi gruppi multinazionali e dei fondi di investimento e dalla scelta di spostare di volta in volta le produzioni in Paesi o aree geografiche dove minore è il costo della forza-lavoro, le tutele e i diritti de* lavorator*.
Nel solo 2019 gli investimenti all’estero dei maggiori Stati europei hanno raggiunto il 28% del Pil in Italia, il 46% in Germania, il 56% in Francia e il 67% in Gran Bretagna. Persino gli Stati Uniti ha effettuato investimenti all’estero pari al 36% del Pil. Tutto ciò non è indolore nei Paesi di origine delle produzioni in quanto questi investimenti hanno comportato corrispondenti perdite di posti di lavoro: 2.616.000 in Italia, 7.770.000 in Germania, 6.087.000 in Francia, 8.790.000 in Gran Bretagna e 22.684.000 negli USA.1
Ad essere investito dalle delocalizzazioni non è solo il settore industriale, in particolare in Italia la componentistica auto, ma l’intera gamma dei settori della produzione e circolazione delle merci materiali e immateriali e non basteranno delle leggi a fermare questi processi anche se va guardato con interesse il tentativo messo in campo dal collettivo GKN per attenuarne quanto meno gli effetti coinvolgendo nella stesura di una proposta di parte operaia un gruppo di Giuristi Democratici.2
I processi di delocalizzazioni si sono talmente estesi globalmente che ne vediamo traccia anche nell’industria della cultura, spettacolo e intrattenimento e, in particolare, in uno dei maggiori centri nevralgici di questo settore che è Hollywood. Il lavoro nel grande circo di Hollywood, quello materiale in particolare, che riguarda attrezzisti, elettricisti, assistenti, scenografi, costumisti, montatori, operatori, quelli, insomma, che vengono citati nei titoli di coda dei film dopo registi, sceneggiatori e cast, è sempre stato caratterizzato da un alto tasso di precarietà, da una robusta differenziazione retributiva, da ritmi, ore e reperibilità di lavoro mai precisamente definite. Ma con l’ingresso in questo settore dei giganti tech come Netflix, Amazon, Apple ecc. il modello di organizzazione del lavoro ha importato dalla Silicon Valley una fidelizzazione forzata fatta di maggiore differenziazione retributiva, di intensificazione della precarietà e delle condizioni di lavoro in termini di maggiori ore prestate, estensione della reperibilità, aumento dei ritmi di lavoro (turni di 18 ore, pause saltate, maggiori infortuni). E, infine, delocalizzazioni all’estero dove queste si rendano necessarie per contenere i costi o quando queste nuove forme di organizzazione del lavoro trovano resistenze da parte de* lavorator*.3
Contro tutto questo, dopo la grande agitazione degli sceneggiatori del 2007-2008, ad incrociare le braccia (letteralmente) saranno nei prossimi giorni i lavoratori delle troupe “below the line” organizzati nello IATSE (International alliance of Theatrical stage employess), cioè i corrispettivi dei nostri lavoratori dello spettacolo, quelli che hanno caratterizzato con la loro lotta e rivendicazioni le mobilitazioni contro gli effetti sociali della chiusura pandemica dell’intero comparto dello spettacolo in Italia.4 Le ragioni dello sciopero a Hollywood come in Italia sono simili, incentrare sulle garanzie di reddito per un lavoro strutturalmente intermittente e precario e contro l’intensificazione dello sfruttamento che, con l’attenuarsi delle chiusure causa covid-19, anche e soprattutto nel centro nevralgico della produzione culturale e d’intrattenimento hollywoodiano fa sentire tutto il suo peso sulle condizioni di lavoro e di vita de* lavorator*.
A stragrande maggioranza il 98,6% dei votanti in rappresentanza del 90% degli iscritti totali che riguarda 52.706 lavoratori su un totale di 60 mila hanno detto sì allo stato di agitazione e a seguito di ciò il sindacato IATSE minaccia uno sciopero che potrebbe bloccare molta parte degli studios. Non era mai successo nei 128 anni dalla nascita di questo sindacato. I lavoratori, dichiara il presidente dello IATSE Mattew Loeb, chiedono meno ore di lavoro, di ricontattare i salari e più stabilità per i fondi di pensione e di “essere trattati con la minima dignità umana”.5
Nel mirino delle rivendicazioni – tra le altre trattamenti economici migliori per i lavoratori meno pagati e quelli impiegati in produzioni in streaming, tetto massimo di ore di girato al giorno, periodi di riposo più lunghi tra una lavorazione e l’altra, pause pasti garantite – sono soprattutto le piattaforme di streaming e le loro nuove regole di lavoro fra cui ovviamente la facilità a delocalizzare le produzioni. “Pensano che tanto gli basta portare tutta la baracca in Corea o qualche altro paese” ha dichiarato al corrispondente del Il Manifesto, Luca Celada, una montatrice di una serie televisiva Hbo Max; pensano, concludeva, “che ci mettono un attimo a sostituirci…”.
Le condizioni di lavoro sono al centro delle richieste rivendicative di questi lavoratori e lo sciopero approvato pesa in queste ore come pressione alle major perché si siedano con ragionevolezza al tavolo di trattativa richiesto dal sindacato. Sullo sfondo rimane, oltre alla lotta contro l’intensificazione dello sfruttamento, la denuncia dello strumento della delocalizzazione anche in questo settore per piegare le rivendicazioni della sua forza-lavoro e per consentire, anche qui, ai padroni di turno di fargli pagare i costi della crisi pandemica e esportare secondo il loro esclusivo interesse le produzioni in luoghi dove minore è la capacità di organizzazione e di lotta dei lavoratori.
Di quanto sta avvenendo oltre oceano ne hanno parlato poco o nulla i nostri media mainstream, per lo più liquidando il tutto come notizia curiosa. Invece si tratta di una esperienza importante che va seguita nei suoi risvolti per comprendere in che modo globalmente ci si debba attrezzare per rispondere al disegno che nei diversi Paesi intende far pagare la crisi pandemica ai ceti popolari e a* lavorator*
1 I dati sono ripresi da Ignazio Masulli “Perché è decisivo combattere la delocalizzazione dilagante” da Il Manifesto del 25/09/2021
2 Per una valutazione della vertenza GKN e della sua importanza rimando all’articolo di Beppi Zambon “GKN, riflessioni su di una lotta operaia” del 6 ottobre 2021, pubblicato in questo stesso sito (www.adlcobas.it). Sul piano legislativo la vertenza del Collettivo interno ha avuto il merito di stimolare una elaborazione di parte operaia di un testo volto a contrastare le delocalizzazioni e tutelare i/le lavorator* prodotto da un gruppo di giuristi lavoristi solidali con questa lotta. Per conoscere i punti salienti del testo approvato in assemblea GKN si veda “Fermiamo le delocalizzazioni” in www.giuristidemocratici.it
3 Si veda per un breve ma chiaro resoconto Luca Celada “Hollywood, sciopero delle maestranze contro lo sfruttamento” in Il Manifesto del 10 ottobre 2021
4 Si veda in questo sito – www.adlcobas.it – il documento della mobilitazione nazionale del 23 febbraio 2021 dei lavoratori dello spettacolo: “23 febbraio mobilitazione nazionale spettacolo e cultura”.
5 Si vedano “Stati Uniti, sindacato dei lavoratori di Hollywood verso lo sciopero per salari migliori” in www.tg24.sky.it 7 ottobre 2021 e Massimo Basile “Hollywood, i lavoratori verso lo sciopero generale: sarebbe il primo in 128 anni” in La Repubblica del 6 ottobre 2021