Non di un sindacato che parla bene e razzola male abbiamo bisogno ma dello sviluppo e rafforzamento di reti intersindacali e sociali che si riapproprino del protagonismo delle lotte e delle rivendicazioni.
MA DI COSA PARLA LANDINI?!
La credibilità dei propositi dichiarati nella lunga intervista rilasciata a Luciana Castellina dal segretario generale CGIL Maurizio Landini nel Il Manifesto del 6 aprile scorso1 non ha goduto di una tempistica favorevole visto che, nelle medesime pagine del quotidiano, si dava notizia dell’ennesimo ravvicinato grave incidente all’ex Ilva di Taranto.2
Il caso Ilva, infatti, con il lungo pregresso silenzio delle confederazioni sindacali fiom, fim e uilm sul pesante tributo di morti – immolati al dio lavoro – tra lavoratori e abitanti di Taranto, riconosciuto solo nel 2012 a seguito dell’azione della magistratura, pungolata dalle iniziative e dagli esposti di vari comitati ambientalisti, stride non poco con i propositi dichiarati da Landini di una CGIL lanciata verso la transizione ecologica come transizione di sistema.
Alle origini dell’ennesimo incendio nell’ex Ilva c’è sicuramente lo scarso interesse della proprietà a investire sulla sicurezza degli impianti ma la denuncia confederale delle mancate manutenzioni e ambientalizzazioni promesse e l’appello al Governo perchè richiami ArcelorMittal a rispettare gli impegni assunti non sfiora per niente il nodo centrale del problema evidenziato ancora da questo incidente: il polo industriale tarantino non è sicuro per i lavoratori, produce inquinamento e morte tra questi e nella popolazione come molteplici studi dimostrano e le indagini giudiziare di questi anni hanno denunciato.
Se fosse sincero, quindi, il proposito di Landini di una CGIL che guarda alla transizione ecologica come chiave per una transizione ancora più generale, di sistema, la questione ex Ilva sarebbe stata o dovrebbe essere assunta, seppure in grave e colpevole ritardo, come bandiera di questo cambio di prospettiva. Basta compromesso tra occupazione e produzione nociva, basta primato dell’industrialismo sull’ambiente e la salute delle popolazioni: una riconversione radicale del sito partendo da un programma di profonde bonifiche dell’area industriale tarantina dovrebbe essere la bandiera di un nuovo corso, obiettivi che solo una minoranza operaia delle acciaierie, le associazioni ambientaliste e i comitati di cittadini perseguono da anni inascoltati non solo dalle istituzioni ma anche dal sindacato confederale. Altro che “sindacato di strada” di cui parla Landini.
Sentirgli dichiarare: “Misurarsi con la grande questione della transizione ecologica vuol dire battersi non per una sommatoria indifferenziata di progetti e investimenti. Comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità del lavoro e di una sua trasformazione. […] cambiare l’attuale modello di produzione e di consumo […]. Vuol dire occuparsi di risanamento delle aree urbane, della mobilità collettiva, di suolo, aria, sanità, formazione, ricerca, cultura […] energia rinnovabile e riuso per impedire lo spreco. L’economia circolare […]” e vedere come poi il suo sindacato si comporta in situazioni come quella di Taranto, fa capire che si tratta solo di belle parole perchè poi la pratica va verso altri lidi, quelli della autoreferenzialità sindacale e della compatibilità con le esigenze dell’attuale sistema neoliberista; da riformare certo, da addolcire sicuramente ma non certo da affrontare con proposte radicali di cambiamento.
Abbiamo esempi vicini e meno emblematici del caso Ilva a dimostrare che ben altra è la pratica quotidiana delle confederazioni sindacali nei luoghi di lavoro, specie dove pesano meno in termini di tesserati o dove sono del tutto o quasi assenti. Pensiamo alle recenti vicende prodotte nella logistica, in particolare nella vertenza Fedex-TNT a Padova dove l’accordo per l’internalizzazione del personale stipulato sotto banco dalla proprietà con CGIL-CISL-UIL, ultraminoritari se non del tutto assenti in termini di rappresentanza, senza coinvolgere nella discussione ADL-cobas, di gran lunga sindacato maggioritario per rappresentanza, nasconde il proposito di cancellare gli accordi migliorativi ottenuti con le lotte di questi anni e di impoverire la forza contrattuale dei lavoratori separandoli da quanti lavorano in Veneto e Friuli negli altri magazzini appaltati da Fedex. In questa vicenda emerge il disegno padronale di colpire una composizione operaia dimostratasi in grado di produrre conflitto radicale per rivendicare il rispetto dei propri diritti e ottenere miglioramenti lavorativi e economici e soprattutto colpirla perchè in grado di mobilitarsi anche in termini solidaristici nei diversi siti logistici. Dall’altro, nascosto dalla retorica dei comunicati CGIL si tenta di occultare la disponibilità del sindacato confederale di fare il lavoro sporco, dividendo e depotenziando i legami solidaristici creatisi in questi anni, proponendosi come garante della pace sociale nei magazzini al servizio degli interessi della proprietà in cambio di una legittimazione rappresentativa, tutt’oggi minoritaria e a volte marginale. Sono tante le esperienze in questo settore dove analogo è stato il ruolo giocato dal sindacato confederale che fa pensare a un tentativo non improvvisato e episodico di accreditarsi presso i proprietari delle piattaforme logistiche come soggetti impegnati a sedare la conflittualità emersa in questi anni, dividere la composizione di classe costituitasi e riportare il conflitto a logiche di compatibilità con gli interessi padronali.
Tornando all’intervista a Landini, l’intervistatrice allo scopo di chiedergli spiegazioni sulla nuova progettualità della CGIL di fronte alla crisi attuale ricorda l’importanza del coinvolgimento del sindacato in “tempi di transizione” come gli attuali rifacendosi a tale proposito all’esperienza del Piano del Lavoro proposto nel dopoguerra da Di Vittorio ma, soprattutto, assegna proprio al sindacato confederale degli anni 70, sulla “spinta sessantottina” (bontà sua!), la capacità di aver trasformato in positivo la condizione lavorativa e determinato la conquista di migliori condizioni generali in termini di abitazioni, di salute, di accesso scolastico per tutti. Insomma quella parte di welfare conquistato negli anni 70. Peccato che Castellina si dimentichi che sia stata piuttosto la soggettività operaia e sociale che, dopo la scintilla della rivolta operaia di Piazza Statuto a Torino del 1962, dette vita a partire dal 1968 per tutto il decennio degli anni 70 a un ciclo di lotte straordinarie nelle fabbriche e nella società, a consentire di rompere il patto tra DC e padronato da una parte e sinistra e sindacato confederale dall’altra, patto che aveva consentito un boom economico “fondato sul basso costo del credito e sui bassi salari”3, su maggiore occupazione in cambio di un controllo della confittualità operaia. Soggettività a cui andrebbe ascritto il merito di aver conquistato pezzi di welfare che ancora in minima parte sopravvivono oggi e non tanto a quel sindacato che nei decenni successivi ha condiviso le politiche dei sacrifici prima, del consociativismo poi e, oggi, di una rappresentatività che persegue l’esclusione di qualsiasi forma di organizzazione di base che non sia ad esso riconducibile.
Di fronte alla crisi determinata dalla pandemia contrassegnata da un allargamento della povertà a intere categorie di lavoratori, di ulteriore precarizzazione e di aumento della disoccupazione; di fronte agli evidenti limiti degli strumenti di welfare esistenti e di contro all’aumento dei profitti in alcuni settori, al rafforzamento dei privilegi e delle speculazioni finanziarie, più che di parole c’è bisogno di pratiche concrete e coerenti con quanto si dichiara. Reddito garantito universale, riconoscimenti contrattuali e di diritti per le tante categorie di lavoratori precari dello spettacolo, del turismo, del lavoro bracciantile, delle cooperative sociali, della vasta gig economy, diritto alla casa e moratorie degli sfratti, sanità pubblica gratuita e uguale per tutti, definizione di un salario minimo sociale e detassazione su salari, stipendi e compensi che dovrebbero comporre una piattaforma sociale rivendicativa adeguata alla sfida imposta da questa crisi hanno bisogno di una soggettività che si riappropri della propria autonomia organizzativa, sviluppando reti intersindacali dove necessario, ricercando ricomposizioni tra settori lavorativi e realtà sociali nei territori, rivendicando protagonismo attivo e dal basso.
1 “Ritorno al futuro. <Il tempo nuovo del sindacato>” intervista al segretario generale CGIL Maurizio Landini a cura di Luciana Castellina, Il Manifesto del 06/04/2021
2 Gianmario Leone “All’ex Ilva esplode la <colata continua>, tragedia sfiorata”, in Il Manifesto del 06/04/2021
3 Frase ripresa dall’intervista rilasciata da Guido Bianchini nel 1991 a Gabriele Massaro e riportata nel volume a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò “Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo”, edito da Derive Approdi 2021