Mettere al lavoro uno «sguardo logistico» è il passaggio fondamentale da compiersi per inchiestare le forme di vita contemporanee e per organizzarle politicamente. Il recente libro di Into the Black Box, collettivo di conricerca attivo da qualche anno tra Italia e Francia, svolge esattamente questo compito (Le frontiere del capitale. Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo, Red Star Press, Roma 2022). Nel libro, l’indagine teorica sull’acquisita centralità della logistica come complesso dispositivo di creazione di valore attraverso il quale vengono ridefinite le forme della produzione fordista facendole dilagare sull’intero territorio (la logistica: non una semplice tecnologia per la distribuzione e per la circolazione delle merci, pertanto. È questa la premessa dell’intero lavoro) viene condotta in contrappunto con le lotte che ne hanno contrassegnato l’espandersi inceppandone l’operatività dei meccanismi. È qui: nella serie di «blocchi» imposti al liscio fluire del ronzio algoritmico che si rendono evidenti le modalità attraverso le quali il suo processo impatta il suolo.
Ciò che si tratta di assumere è l’imporsi di una «catena di produzione planetaria» il cui perno di rotazione è – si tratti di supply chains o di distribuzione di prodotti finiti; di organizzazione del lavoro o di segmentazione degli spazi di accumulazione sin nel singolo magazzino – la logistica. Si prenda il caso di uno smartphone: le materie prime per la componentistica elettronica vengono estratte in Africa, Canada o Russia. Di lì i materiali grezzi vengono trasportati, per esservi lavorati in Thailandia o in Indonesia. Essi vengono poi assemblati in Cina per conto dei grandi brands europei, nordamericani o sudcoreani. Il prodotto assemblato viaggia quindi in direzione di grandi porti commerciali quali Hong Kong, Shenzen o Shangai per muoversi, su enormi navi portacontainer, in direzione di grandi scali logistici come Los Angeles o Rotterdam. Di lì, navi più piccole salpano in direzione dei porti mediterranei ed europei e in seguito i containers, tradotti su gomma o rotaia, raggiungono gli interporti che puntellano le periferie urbane delle città. Solo allora un pulviscolo di traiettorie disegnate da furgoni e camions si infittisce sino a irretire integralmente lo spazio nelle catene del valore. La fabbrica si è fatta metropoli e la metropoli si estende su scala planetaria. Solo in apparenza, però, l’imporsi dell’industria 4.0, disegna un processo lineare. Blocchi punteggiano e ritmano sin dai suoi esordi il suo dispiegarsi come paradigma organizzativo e una contro-logistica del lavoro vivo ne attraversa e incrocia i tempi e gli spazi.
Sin dai primi anni 10 del 2000 in Canada, in Australia, in Cina, in Cile, in Olanda, in Grecia scioperi e conflitti sfruttano i «colli di bottiglia» della circolazione produttiva di materie prime e merci. Almeno dal 2013 tra i facchini migranti organizzati dal sindacalismo di base nel nord Italia, in Veneto, in Emilia, in Lombardia e immediatamente a seguire altrove, viene «riscoperto» e valorizzato lo strumento del picchetto operaio per bloccare magazzini e interporti. Tra il 2018 e il 2019 in vari luoghi del mondo i riders delle consegne a domicilio esponenzialmente cresciute in tempo di pandemia si organizzano e si mobilitano per denunciare le spaventose condizioni di lavoro innestate all’autoimprenditorialità algoritimica, mentre i gilets jaunes francesi riappropriano e si attestano sui rond points della nuova urbanistica dei flussi inventando forme innovative di sciopero sociale. Gli stessi hubs di Amazon – icona logistica del ventunesimo secolo – sono percorsi da scioperi e forme di autorganizzazione operaia.
L’intero processo di organizzazione e di implementazione delle reti logistiche globali è contrappuntisticamente scandito da momenti di insubordinazione e di insorgenza collettiva. Ma anche da una profonda eterogeneità e da contraddizioni che l’applicazione di una particolare prospettiva, quella appunto dello «sguardo logistico», permette di rilevare. Vale la pena segnalarne alcune. La prima è il moltiplicarsi e l’incrociarsi di scale globali e locali nel contemporaneo processo del capitale. Le catene della logistica – se la intendiamo come forma di produzione, abbiamo ricordato poco sopra – ridefiniscono gli spazi politici ed economici attorno alle rotte che esse tracciano (dai nuovi passaggi artici attorno ai quali competono le grandi potenze, alla via della seta, all’investimento nell’acquisto e nel controllo di porti in altri paesi, ma su di un livello di maggiore prossimità: esse riorganizzano le aree urbane, ricentrano le periferie, ridefiniscono i sistemi di trasporto contribuendo anche qui ad una complessiva risignificazione degli spazi) e determinano le differenziate modalità con le quali i flussi globali di valore impattano i territori. Un magazzino nella Valle del Po, la nuova area metropolitana che quei flussi tracciano sulla scia della produzione e della circolazione delle merci, è parte integrante di un processo molto più ampio, ma quel processo trascrive nella sua immediata specificità.
Una seconda cosa mette conto segnalare. La logistica diventa parte integrante del ciclo di produzione in quella che alcuni studiosi assumono come una progressiva, ma significativa, modificazione del paradigma fordista. Alla fabbrica e alla zona industriale si affiancano magazzini di stoccaggio e interporti all’interno dei quali le scale globali e locali dei circuiti globali del valore si riproducono in termini di composizione di classe e nell’assemblaggio di vecchie e nuove forme di organizzazione del lavoro. Grandi concentrazioni di uomini in magazzini, mansioni ripetitive e standardizzate, integrazione tra «corpo-uomo» e «corpo-macchina», fatica e sudore, rendono il lavoro del facchino più simile a quello dell’operaio massa che non a quello del lavoratore digitale. E tuttavia, l’assenza di diritti, l’adozione dello strumento-cooperativa nella quale il facchino agisce come socio e il suo lavoro viene gestito da terzi, la precarietà lavorativa, il ricatto imposto dalla sua frequente condizione di migrante, trascinano questa figura del passato fordista nel presente elevandolo a simbolo della composizione di classe contemporanea. E lo stesso potrebbe in gran parte dirsi per riders, portuali, autisti e altre figure del lavoro vivo.
Una terza cosa ci sembra rilevante. La logistica va intesa come un dispositivo che agisce contemporaneamente su spazi, soggetti e potere. E non è certo un caso che nella teoria critica contemporanea – all’interno della quale sempre di più occorre reclutare il sapere specifico della geografia – termini quali «assemblaggio», «interruzione», «connessione» o «hub» acquistano una crescente centralità. Il panorama che la logistica e l’industria 4.0 definiscono è fatto di un eterogeno impasto (globale e locale) di forme arcaiche di sfruttamento e di radicale innovazione tecnica e organizzativa.
Il segreto laboratorio all’interno del quale queste nuove formule organizzative e di comando del lavoro vengono preparate e riprodotte resta per lo più invisibile all’osservatore. La scatola nera che connette dati, ritmi e misure di catene globali della produzione e reti della logistica che sussumono la vita al capitale è l’indisponibile matrice algoritmica che materialissimi processi di soggettivazione moltitudinaria puntano come cervello della fabbrica sociale complessiva. L’inchiesta e la conricerca che il collettivo Into the Black Box conduce da anni e che approda a questo nuovo libro nel quale si incrociano cronache di lotta, analisi teorica e sguardo genealogico – vale la pena di ricordarlo: la logistica nasce come scienza militare e si specializza, inventando la containerizzazione all’altezza della guerra del Vietnam, per dilagare in seguito come forma strategica generale della ristrutturazione capitalistica a seguito delle lotte che rendono ingovernabili le fabbriche tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento – forniscono utili strumenti per far luce su di essa mettendo a valore, oltre che la letteratura scientifica degli negli ultimi decenni, il concretissimo sapere operaio che emerge dalle lotte. Si tratta del pregio fondamentale di questo sforzo teorico. Che lavora sulla scia di una vecchia intuizione e che attesta, ma per noi non ce n’é in fondo davvero bisogno, la vitalità dell’operaismo.