La notizia c’è ed anche un po’ inaspettata. Il Consiglio dei Ministri di venerdì 17 marzo ha approvato un decreto legge che abroga il lavoro accessorio pagato attraverso i voucher a partire dal 1 gennaio 2018.
Si tratta di una notizia certamente positiva per chi come noi non solo ne ha chiesto l’abolizione, ma ha costruito nell’ultimo anno vertenze individuali e collettive per scoraggiare le aziende ad utilizzare questo strumento per eludere la normativa sulla subordinazione. Era ormai evidente che i voucher non venissero usati per prestazioni lavorative accessorie e occasionali, ma che erano diventati lo strumento legale per abbassare facilmente e drasticamente sia i salari sia l’asticella dei diritti dei lavoratori. Anche sul fronte dell’emersione del lavoro non hanno dato grandi risultati: in un settore dove vige la regola del lavoro nero, quello dell’agricoltura, che spesso viene evocato per giustificare la loro esistenza, il loro utilizzo è stato irrisorio, attorno al 2% del totale dei buoni venduti.
Qualcuno potrebbe allora dire che, finalmente, i membri del governo e la maggioranza parlamentare hanno dovuto accettare la realtà dei buoni lavoro, che non è ovviamente quella dei pensionati che tagliano l’erba del giardino o degli studenti che danno ripetizioni in casa. O che il governo voglia ridurre la precarietà dilagante in Italia. Noi non lo crediamo. Chi ci governa in questo momento, al pari di chi ha introdotto i voucher e li ha liberalizzati, ha come obbiettivo ridurre le tutele e abbassare il costo del lavoro per rendere più competitive le imprese italiane e attrarre capitali esteri.
E’ bene essere chiari: la scelta di abolire i buoni lavoro è stata una scelta puramente tattica che persegue a nostro avviso tre obbiettivi. Il primo, neppure troppo celato, del governo è quello di evitare una consultazione rischiosa vista l’impopolarità dei voucher e il probabile accorpamento del referendum con le amministrative. Un referendum rischioso perché una seconda sconfitta delle forze di governo avrebbe portato facilmente a nuove elezioni. Il secondo obiettivo è quello di buttare polvere negli occhi dei lavoratori nel tentativo di far dimenticare il jobs act, i miliardi di sgravi contributivi regalati alle imprese, la disoccupazione e il crescente impoverimento degli italiani con una scelta apparentemente drastica, l’abolizione e non la correzione del lavoro accessorio. Terzo obiettivo, connesso agli altri due è quello di riguadagnare consenso con quegli elettori di “sinistra”, che pur fedeli al “gran partito” sono sempre più perplessi dalla svolta renziana. Non a caso con questa operazione il governo ha dato una nuova legittimazione alla Cgil, che ora si può intestare questa vittoria, senza passare per la conta dei voti.
Per evitare ogni possibile fraintendimento e ribadire che la strategia del Governo non è cambiata Gentiloni e Poletti, a poche ore dal varo del provvedimento, hanno voluto tranquillizzare il fronte imprenditoriale chiarendo che esiste già un tavolo di confronto – a cui partecipano sindacati confederali e associazioni padronali – che sta discutendo di un nuovo strumento per gestire il lavoro occasionale. In discussione insomma ci sono dei nuovi strumenti che saranno il sostituto funzionale dei voucher, ma avranno un nome meno impopolare. Da questo punto di vista sembra molto probabile la liberalizzazione del lavoro a chiamata, oggi utilizzabile solo da alcune categorie di lavoratori o la recezione della via tedesca alla precarietà: i tristemente noti “mini-jobs”. Oltre a questo si assisterà molto probabilmente ad un aumento nell’uso dei contratti a tempo determinato, delle somministrazioni e del finto lavoro autonomo, con p.iva o senza.
E’ evidente che la battaglia contro l’economia della precarietà è ancora tutta aperta. Noi non ci accontentiamo dell’abolizione del lavoro accessorio e continueremo a batterci dentro e fuori i luoghi di lavoro per salari più alti, una riduzione dell’orario di lavoro, un welfare più inclusivo e strumenti di garanzia del redditto.