“Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Bertolt Brecht
di Gianni Sartori
“Non ci credo, non è possibile”. Questo era stato il primo commento; poi silenzio, attonito silenzio per ore.
Olol Jackson, sicuramente tra i maggiori protagonisti dell’antagonismo sociale nel vicentino degli ultimi 20 – no, almeno 25, forse 30 – anni ci ha lasciati. All’improvviso, inaspettatamente, a soli 48 anni. Un vuoto incolmabile che verrà drammaticamente percepito sabato prossimo quando, per la prima volta, Olol non ci sarà alla manifestazione davanti alla caserma statunitense Ederle in viale della Pace.
Ben noto come uno degli organizzatori dell’occupazione da cui nacque il Centro sociale Ya Basta! (un richiamo all’insurrezione zapatista), Olol aveva al suo attivo anche quella della scuola in abbandono di San Antonino di qualche mese prima. L’intenzione era di farne un centro sociale-culturale per il quartiere (guarda caso di fronte al Dal Molin e non lontano da dove sorgerà il tendone del Presidio: coincidenze?), ma prima intervennero i manganelli della polizia.
Ricordo che Olol si era stupito di trovare sulla “Voce dei Berici” un mio articolo, critico nei confronti del sindaco Achille Variati (al suo primo mandato, credo) che aveva ordinato lo sgombero brutale (vedi il pestaggio subito da Cedro e da altri compagni). Chissà, forse Variati intendeva riportare alla memoria dei militanti più anziani l’analoga carica (con immancabile pestaggio: un paio di commozioni cerebrali, Francesco e Chiara) davanti alla vecchia questura sbrigativamente ordinata nel maggio 1972 dal suo pigmalione, Mariano Rumor.
Le analogie erano notevoli, mancavano solo i fascisti che applaudivano dal balcone (la vecchia sede del MSI era di fronte alla Questura, opportunamente), ma non si può avere tutto.
In realtà l’articolo era stato alquanto ridimensionato, in parte edulcorato, ma onestamente al buon don Lucio Mozzo, il miglior direttore che il settimanale diocesano abbia mai avuto, non potevo chiedere di più. Quella fu l’unica voce critica, dissonante in un coro di applausi per la fermezza mostrata dalle istituzioni.
Poi nel 1995 ebbe inizio la fin troppo breve stagione di Ya Basta! in via Battaglione Framarin, fatto abbattere sei anni dopo dal sindaco Hullweck (in gioventù di Ordine Nuovo, quello che intanto presenziava “a titolo personale” all’inaugurazione della sede di Forza Nuova). Ma come disse Olol al momento di abbandonare la sede “Finisce solo il primo tempo, ora andiamo a giocarci il secondo”.
Seguirà l’occupazione dell’ex Lanerossi al quartiere Ferrovieri, l’attuale Bocciodromo (in memoria di quello storico costruito dai ferrovieri per il dopolavoro).
Entrambi nel luglio 2001 eravamo stati a Genova, ma senza esserci incontrati.
In seguito ci scambiammo impressioni e opinioni sia sulle proditorie cariche del venerdì che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani che sui gas CS.
Consigliere dei Verdi alla circoscrizione 3 (San Pio X) dal 2003 al 2007, insieme a Francesco Pavin fu tra i primi a denunciare i progetti di un nuova base statunitense (di cui nessuno sentiva la mancanza) a Vicenza.
Portavoce e “anima” del Movimento “No-Dal Molin”, quando il Presidio decise di dotarsi di un mensile, fu lui a chiedermi di fare da direttore responsabile. Dopo una iniziale perplessità (magari ogni tanto uno anche ci pensa alla “carriera”…) ne fui onorato.
Tra i suoi numerosi meriti conquistati sul campo, le molteplici denunce e la condanna nel 2013 per l’occupazione della prefettura del 16 gennaio 2008. Data infausta della dichiarazione di Romano Prodi a favore della realizzazione del Dal Molin.
Un padre veterano del Vietnam, gli avrebbe consentito di richiedere la cittadinanza statunitense, ma la rifiutò in quanto, come disse “son già cittadino del mondo”. Una scelta di campo, comunque.
Dalla madre, scomparsa recentemente e già impegnata nell’associazionismo, presumibilmente gli derivava la passione politica e quel suo indiscutibile “carisma ai cortei che ci faceva sentire protetti” come ricordava affettuosamente Cinzia Bottene.
Una dote di famiglia. Una volta mi aveva parlato di un nonno, dirigente politico e militante dell’opposizione in Somalia. Ora rimpiango di non aver approfondito. E la sua militanza non si esauriva certo qui: l’antifascismo militante, l’antirazzismo, la lotta contro gli sfratti e più recentemente l’impegno quotidiano nel sindacato di base Adl Cobas.
Concludo. Ai funerali dei compagni ci si conta, ma si contano anche i vuoti. Sia per defezione, sia per decesso. Prima era toccato a quelli, pochi, delle Brigate Internazionali, poi ai partigiani. Ora forse tocca alla mia generazione (quella del cosiddetto “68”) di prendere commiato. Anche se, va detto, in molti tra quelli del “77”, più giovani, ci hanno già preceduto. Magari per l’eroina elargita dallo stato o per malanni successivi.
Ma Olol era già di un’altra generazione. Nato 48 anni fa, era nel pieno del vigore e dell’impegno. Non aveva particolari magagne o trascorsi a rischio.
E allora? Allora niente. La vita è notoriamente una puttana che ti afferra, ti trascina in alto e poi ti molla giù, a schiantarti sul cemento.
“La terra ci reclama” recitava la poesia di un prigioniero politico basco. Ci reclama sempre, anche prima del tempo. Conviene farsene una ragione, era il saggio sottinteso.
E noi invece sempre lì a stendere progetti, a cercar simboli, orizzonti…a illuderci che ci sia qualche significato recondito in questo perenne annaspare, nel vuoto in direzione del nulla. Magari in tondo.
Anche la Storia ci siamo inventati per dare un senso al nostro incedere precario in questa valle di lacrime.
Ma tuttavia “…ci sono quelli che lottano tutta la vita…” . Ci sono appunto quelli come Olol Jackson.
Ed è a loro che dobbiamo quel poco di dignità con cui ci è dato di vivere a testa alta. Nonostante tutto.