Il problema riguarda la possibilità per i lavoratori intermittenti del settore spettacolo (ma in realtà anche degli altri settori non industriali) di essere oggetto del trattamento di cassa integrazione.
Dal punto di vista generale andiamo a parlare di cassa in deroga, dato che la cassa ordinaria è prevista per l’industria e per altre ipotesi specifiche.
Punto da tenere in considerazione è che la cassa integrazione, come istituto e come idea teorica, non è un istituto a sostegno del reddito del lavoratore, ma è un istituto a sostegno del datore di lavoro (i guadagni integrati sono quelli del datore!), che tramite essa, in ipotesi in cui dovrebbe pagare il salario stante la non imputabilità al lavoratore della impossibilità relativa della prestazione ma è in difficoltà a farlo, non si trova costretto a dover decidere tra pagare il salario senza guadagnare oppure a licenziare disperdendo i suoi lavoratori e dunque parte essenziale della sua organizzazione.
Elemento bislacco della vicenda è che per i lavoratori a chiamata il datore ha una terza chances, ovvero semplicemente non chiamarli. Per cui rispetto ad essi non ha senso una misura di cassa integrazione propriamente detta.
Quello che si è venuto a creare, di fatto, tramite l’inclusione dei lavoratori intermittenti (art. 13 d.lvo 81/2015) è un istituto ibrido che parrebbe funzionare con le modalità della CIGD ma che ha a tutti gli effetti le funzioni di una misura a sostegno del reddito quale l’indennità di disoccupazione. E primo dei problemi che viene in luce nel caso è che in tal modo quello che ontologicamente è il diritto di un soggetto (il lavoratore) è creato dalla norma sulla CIGD ed è rimesso al comportamento di un terzo (il datore di lavoro). Conseguenza potrebbe essere che in mancanza di validi motivi per rifiutare la richiesta, potrebbe essere ventilabile una responsabilità del datore di lavoro, che potrebbe essere chiamato a rispondere del danno causato al lavoratore.
La norma, ovvero l’unica cosa che ha valore per i lavoratori e per le imprese, allo stato è il DL 18/2020 e gli accordi regionali delegati dalla stessa. Nessun valore ha alcuna circolare Inps, che è solo uno strumento interpretativo per gli uffici dell’Istituto stesso.
Peraltro si segnala che per la CIGD l’inps non è competente in quanto ai sensi dell’art. 22 c. 4 DL 18/20 (come peraltro per tutte le CIGD) il soggetto a cui sono indirizzate le domande è la Regione (o le PA di Trento e Bolzano) e non certo l’Inps che è mero soggetto pagatore.
Con riguardo a interpretazioni sulla norma fiorite nel frattempo si segnala che L’inps ha affermato che “L’accesso dei lavoratori intermittenti al trattamento in deroga è riconosciuto nei limiti della giornate di lavoro effettuate sulla base della media del 12 mesi precedenti e ai sensi della circolare inps 41/2006” che aveva riguardo alla Indennità di Disoccupazione.
Con tale frase l’inps ha individuato come criterio di calcolo della misura il lavoro svolto nei 12 mesi precedenti, da parametrarsi evidentemente alle settimane di CIGD richiedibili, ovvero 9. Di talchè, stante che il trattamento copre l’80% della retribuzione, al lavoratore intermittente sarà dovuto (salario degli ultimi 12 mesi / 52 sett x 9 sett) x 80%.
Ovviamente trattandosi di una somma da individuare per il futuro con riferimento a delle chiamate impossibili per factum principis la base di calcolo non poteva che essere individuata nel passato, dato che il futuro non c’è per legge. La vecchia circolare del 2006 richiamata è congruente nell’individuare l’importo orario sulla base del lavorato nel passato, ma è confliggente giuridicamente e logicamente nel passaggio che pare esse più “limitante” ovvero il punto 4.5 che dice che le integrazioni salariali possono far riferimento solo a chiamate saltate (ovvero fatte e poi revocate). Tale previsione non attaglia al caso di specie per due ragioni: il contenuto del paragrafo invocato de relato è esattamente il contrario dell’interpretazione data apertis verbis dall’ente oggi, con la conseguenza che la precedete posizione deve ritenersi superato qualora la si intendesse astrattamente riguardante la medesima fattispecie. Ma ciò che più rileva è che la fattispecie a cui fa riferimento è diversa: nella circolare del 2006 è sottointeso un fatto naturale che impedisce di fatto una produzione programmata e già in organizzazione (esempio: incendio del palco la sera prima del concerto), mentre qui c’è una norma che impedisce a priori le attività per cui le chiamate sarebbero prive di causa e dunque nulle secondo le regole comuni sul negozio giuridico.
Secondo “non problema” sollevato dalla lettura delle circolari inps è quello relativo all’esistenza del contratto a chiamata il giorno previsto dalla norma. Secondo alcuni il contratto a chiamata esisterebbe solo con la chiamata. Tale idea esiste solo nella elaborazione del funzionario Inps che nel 2006 ha redatto la circolare 41, in modo alieno a qualsiasi dottrina sul punto, e con l’evidente intento di evitare che contratti simulati senza chiamata effettiva (per i quali non sarebbe stato possibile stante il loro numero una vigilanza ispettiva) andassero a costituire fonte di pretesa nei confronti dell’istituto con riferimento al periodo di contribuzione valevole per l’ Aspi. La questione si può considerare risolta definitivamente, se mai ve ne fosse stato bisogno, con il testo della norma del d.lvo 81/2015, che da un lato all’art. 13 c. 4 chiarisce che nei periodi in cui non viene utilizzata la prestazione il lavoratore intermittente non matura alcun trattamento economico o normativo, mentre dall’altro lato al primo comma dice “il contratto di lavoro intermittente è il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione in modo discontinuo o intermittente” chiarendo letteralmente, e in claris non fit interpretatio, che v’è un rapporto di lavoro in essere indipendentemente dal fatto dell’utilizzo o meno della prestazione, che diviene uno degli elementi del contratto, ma non è né l’elemento necessario né l’elemento sufficiente all’esistenza del contratto di lavoro, che infatti esiste sotto ogni altro aspetto (computabilità pro quota, obblighi di fedeltà, non concorrenza, e così via).
Peraltro ragionare diversamente condurrebbe ad un esito paradossale ed in evidente contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., per cui il lavoratore in forza il giorno x riceverebbe la misura, quello in forza il giorno x-1 o anche x+1 invece ne rimarrebbe escluso per una sorta di irragionevole beffa del destino. Dato anche che una tale conclusione non può essere ritenuta legittima, evidentemente errato è il presupposto che conduce ad essa.
Pertanto risulta priva di ragione la mancata volontà di ogni datore di lavoro di lavoratore intermittente in forza al 23.2 di non voler procedere alle consultazioni e alla domanda agli uffici regionali competenti.