Questo è il documento firmato dalle associazioni Officina Sociale, Adl Cobas , Polisportiva San Precario e Quadrato Meticcio, realtà che hanno partecipato attivamente al progetto “Per Padova noi ci siamo” e che lanciano l’ipotesi di un’assemblea delle associazioni e dei “volontari” per costruire, dal basso, un nuovo modello di welfare.
Stiamo per lasciarci alle spalle il tempo della paura, del lockdown, della quarantena che ha bloccato ogni vita per tre mesi. La pandemia nCoViD-19 ha d’improvviso stravolto ogni aspetto delle nostre singole esistenze, delle nostre attività quotidiane, ha trasformato – forse in modo permanente – le relazioni sociali: i profondi cambiamenti accaduti in questi mesi a poco a poco emergeranno e dovremo imparare a vivere in nuove forme. Non è quindi il tempo di fare bilanci e valutazioni a posteriori, non c’è un’esperienza estemporanea da chiudere ed archiviare, magari dimenticare come un brutto sogno all’alba.
Anzi, è tempo di attrezzarci davanti ad una novità senza precedenti!
Siamo sì all’alba di una nuova fase di vita, per comprenderla e saperla affrontare dobbiamo partire proprio dalla ricchezza sociale che si è schiusa durante ed in risposta alla pandemia. Questi tre mesi hanno mostrato, a Padova in modo dirompente, quale sia il senso di termini come “comunità”, “responsabilità” e “solidarietà sociale”. Proprio nel tempo tetro del contagio, quando la paura prima della norma imponeva il distanziamento fisico, il tessuto sociale della nostra straordinaria città ha scoperto di cosa è capace: è emerso un substrato di organizzazione, immediatamente disponibile a coordinarsi in rete, una capacità gestionale e relazionale che ha materializzato e dato corpo a quel nome così evocativo “Per Padova Noi Ci Siamo!” scelto dalle istituzioni per testimoniare il loro impegno verso la comunità.
Il progetto “Per Padova Noi Ci Siamo” ha aperto uno spazio di attivazione sociale catalizzando risorse di ogni tipo, dalle donazioni economiche al crowdfunding alle derrate alimentari alle migliaia di persone che si sono messe a disposizione per lavorare, gratis e sfidando il contagio, nella logistica delle spese, nell’incremento dei servizi offerti ai senza fissa dimora.
Questo è ora il nostro punto di partenza. Non sappiamo per quanto ancora esisterà questo progetto.
Casa Arcella ha chiuso lunedì 1 giugno, ci sono 54 persone senza dimora cui dare una casa; le donazioni di generi alimentari e di prima necessità da parte della GDO, finito il social washing della prima fase, sono lasciate all’iniziativa individuale di chi acquista (a prezzo pieno!) qualcosa in più da mettere nel carrello della “spesa sospesa”; le casse comunali hanno garantito la seconda fase dell’approvvigionamento dei magazzini, arrivando però a fare le graduatorie – poi fortunatamente abolite – tra idonei e non idonei, distinguendo chi ha già avuto da chi ancora non ha chiesto.
Le risorse economiche scarseggiano? Certo, il lockdown ha lasciato sul lastrico migliaia di persone, il contraccolpo economico sarà misurato tra qualche mese, intanto l’impoverimento generale dilaga ed è tremendo, quasi quanto il virus, che potrebbe ritornare e con esso la quarantena, teniamo sempre a mente che il pericolo non è cessato.
Come dunque fare tesoro dell’esperienza di questi mesi?
Noi pensiamo che la reazione alla pandemia abbia fortificato il welfare in città. Per tre mesi – non sono pochi! – e iniziando da zero, senza alcuna base di partenza, Padova è stata laboratorio effettivo di un modello di welfare assolutamente inedito, che ha avuto come ossatura le realtà sociali di base, associazioni o gruppi informali, che hanno fornito referenti operativi, basi logistiche, ma soprattutto il “saper fare” che deriva dalle piccole azioni a margine delle nostre attività ricreative, sportive, culturali. Noi per Padova ci siamo sempre stati, e non smetteremo certo adesso: vogliamo fare meglio, vogliamo fare di più. Siamo stati punto di riferimento per chi poteva offrire qualcosa, per chi cercava aiuto, sentiamo una responsabilità e il nostro desiderio è di essere in grado di reggerne il peso. Ci abbiamo messo la faccia, i nostri nomi, le nostre sedi, ci siamo assunti il rischio del virus e abbiamo creato percorsi di solidarietà e legami sociali dentro al vuoto delle strade. Abbiamo riempito materialmente lo spazio discorsivo “per padova noi ci siamo”, rendendolo un dispositivo efficace: ora serve uno slancio per continuare ad essere all’altezza del ruolo che abbiamo ricoperto, e che ancora rivestiamo.
Abbiamo operato seguendo le indicazioni ricevute, raccolto le forze e messo in campo tutto ciò che abbiamo: le reti sociali che ruotano attorno alle nostre sedi autogestite, la cui conduzione è permanentemente a carico nostro. Alcune in affitto, altre occupate: moltissime in immobili di proprietà dell’Amministrazione Comunale. Questi luoghi sono e continuano ad essere i nodi della rete welfaristica creatasi, sono e resteranno a disposizione della comunità come beni comuni dei quali ci facciamo garanti, per i quali ora chiediamo uno sforzo più ampio: va pienamente attestata la funzione sociale che rivestono, ormai pienamente disvelata, e identificata una forma di riconoscimento giuridico che consenta di semplificare la gestione anche sotto il profilo economico. Le nostre attività di autofinanziamento difficilmente potranno garantire il pagamento di pigioni ed utenze.
Riconoscere titolo d’uso laddova manca, strutturare convenzioni per abbattere i costi delle utenze, progettare interventi strutturali laddove servono: questa urgenza non è per noi, è per garantire l’ossatura del welfare in città da oggi e per sempre!
Il problema del reddito non è ancora esploso, lo farà nell’estate: gli ammortizzatori sociali nazionali sono oltremodo insufficienti, lo erano prima del lockdown e la situazione non può che peggiorare. La cassa integrazione non ha copertura sufficiente, gli importi erogati comunque non sono sufficienti a garantire il fabbisogno di moltissime famiglie.
D’altro canto, per il fondo di sostegno per gli affitti la Regione non ha stanziato che 1,5 milioni di euro: praticamente nulla!
Nei prossimi mesi decine di migliaia di persone non saranno più in grado di pagare l’affitto della casa.
A fronte di questo, solo in città ci sono quattro mila appartamenti sfitti: è il patrimonio di Edilizia Residenziale Pubblica, ERP, posseduto e gestito in vario modo tra Amministrazione Comunale e ATER. Queste case vanno messe a disposizione, parecchie sono vuote da anni e l’incuria tra non molto le renderà inutilizzabili senza onerosi ed invasivi interventi edilizi.
Mettere a disposizione quanto più possibile di questa immensa ricchezza, strutturando progetti di autorecupero graduale che non siano basati sul debito privato, è possibile qui e ora: c’è un problema di salute pubblica ancora in atto (lo stato d’emergenza è proclamato fino al 31 luglio, passibile di rinnovo) e se il disaccordo istituzionale tra ATER e Comune continua a lasciare all’incuria le case mentre le persone rischiano di dormire sotto i portici non ci sono altre strade se non misure straordinarie di requisizione e redistribuzione degli alloggi vuoti. Lo può fare dall’alto il Prefetto, lo possono fare i movimenti sociali dal basso.
La lezione che abbiamo imparato in questi tre mesi è ancora più terribile, si chiama “fame”.
Chi sono stati i destinatari dei “buoni spesa”? A chi serve la “spesa sospesa”? Quanti non hanno i soldi per comprarsi da mangiare? Anziani soli, famiglie, lavoratori precari e senza tutele che la letteratura accademica ha chiamato “working poors” per indicare quanto il salario di una giornata non basti per arrivare alla fine della giornata. Il blocco delle attività economiche ha fatto esplodere questa bomba sociale, rimasta sottotraccia perché c’è chi si vergogna a chiedere aiuto, sente venir meno la propria dignità di persona.
Quante volte abbiamo sofferto dentro questa contraddizione, portando la spesa a chi si trova a vivere una condizione di fragilità fisica o isolamento sociale, e la rottura di questo isolamento però mostra la condizione di povero come nessuno vorrebbe mai esserlo!
Allora c’è un modo solo di superare questa impasse, quello di intenderci e sentirci un unico grande “Noi”, e prenderci reciprocamente cura di noi, spazzando via ogni atto di pietà o carità per lasciare il posto ad una relazione umana alla pari.
Abbiamo cercato di agire in questo modo, consegnando le spese alle persone, non sempre le indicazioni ricevute andavano in questa direzione … certo comunicare ciò che si fa è fondamentale, ma non senza mettere al centro la dignità delle persone.
Ora sono tornate a sbocciare le strade, il desiderio di aria aperta e socialità – sopito per mesi – ricama chiassosamente la città.
Ma nemmeno lo spritz è lo stesso di prima! Non è più o solamente il rito stanco dell’imbrunire, luoghi e momenti di incontro sono ora più necessari che mai, il superamento del trauma nCoViD-19 necessita di elaborazione collettiva, non fingiamo che non sia successo nulla: l’elaborazione di ciò che è stato necessita momenti collettivi. Tutto il pianeta è stato scosso – e non è finita – da un’epidemia senza precedenti. Certo, gestire centinaia di persone è tutt’altro che semplice.
Il modo sbagliato è senza dubbio chiedere ai “volontari” che hanno garantito il funzionamento del welfare per tre mesi di continuare a lavorare gratis con la pettorina di “assistente civico” per far osservare il “distanziamento sociale”.
Il Ministro Boccia non ha capito nulla!
Serve quindi mettere in chiaro due elementi, che per noi sono i punti di partenza per un progetto di welfare totalmente nuovo, di cui Padova può essere laboratorio ed incubatore.
Il primo è che l’attivazione volontaria di cui siamo parte è, lo ribadiamo, una presa in carico di responsabilità in seno alla comunità, un atto di cura verso tutte e tutti noi.
Chi pensa di avere davanti una massa di manodopera gratuita e disponibile ad eseguire ciecamente ogni richiesta ha visto un altro film.
L’impegno che continuiamo a mettere sul piatto è volontario perché nessuno ci obbliga, è unicamente la nostra libera scelta, e decidiamo noi come e dove spenderlo. Nella fase iniziale della pandemia c’è stato poco tempo per discutere, le modalità telematica e l’urgenza degli aiuti hanno reso tutto più lento e difficile, ora che è possibile guardarsi negli occhi è tempo di valutare e rivedere le modalità decisionali ed operative di ogni azione. Il welfare è un bene comune, perché è prodotto in comune dalla cooperazione tra soggetti di natura diversa. Perché quindi non aprire un’agorà per far tesoro dell’esperienza attuale, e mettere in comune risorse idee e prospettive, in modo da aprire nuovi spazi di collaborazione volti ad essere strutturali e mai più solo emergenziali?
Secondo punto: noi scegliamo di agire solo laddove riscontriamo la possibilità di fortificare i legami sociali nel territorio, mai per supplire a mancanze istituzionali. Rigettiamo dunque alla radice il senso del “volontariato” come azione salvifica, e inorridiamo davanti alla richiesta di agire per il “distanziamento sociale”.
Ci sono precauzioni, misure preventive da adottare e la più spinosa è il distanziamento fisico. Purtroppo il discorso pubblico è stato occupato fin da subito dalla locuzione “distanziamento sociale”. È sociale perchè tutte e tutti dobbiamo rispettarlo, per chissà quanto tempo ancora: è un atto di responsabilità, come indossare la mascherina, come detergersi e disinfettarsi le mani.
Migliaia di persone si sono volontariamente attivate allo scopo di prendersi cura delle proprie comunità: sognare ora che si possano trasformare in finti poliziotti, improvvisati e non pagati, è un delirio insano che non merita altro spazio.
Spendiamo invece ancora poche parole per sottolineare la centralità del concetto di “cura” nell’approccio al mondo post-pandemico: “cura” nel senso politico del termine, come metodo e risultato delle azioni esercitate in comune verso la collettività tutta. Questo lavoro di cura è parte essenziale del concetto di welfare, e troppo spesso è dimenticato, nascosto e mai retribuito! Lavoro gratuito, quello domestico, verso bambini anziani e tra conviventi, lavoro che genera una ricchezza sociale sempre trascurata, anzi il ruolo sociale è sempre dimenticato, forse perché nascosto dalla percezione di “obbligo reverenziale” che ne snatura il senso.
Ma se il riconoscimento sociale ed il sostegno materiale alla cura “parentale” e “comunitaria” sono terreni da conquistare, la “cura medica” è già un duro terreno di scontro perché va difesa con ogni mezzo necessario.
La santificazione del personale medico morto a causa del virus è un’ipocrisia irricevibile. Migliaia di medici e paramedici sono morti perché hanno contratto il virus in turni di lavoro massacranti, non avendo il cambio nelle corsie degli ammalati.
Li ha uccisi il virus? o forse sono le vittime di trent’anni di disinvestimento nelle strutture, nel personale, nelle metodologie su cui si basa il sistema sanitario?
Non è malagestione: è il frutto della trasformazione del sistema sanitario in sistema di aziende ospedaliere, che in quanto aziende funzionano secondo meri principi contabili. E adesso contiamo i morti!
Padova durante la pandemia ha assunto, quasi di soppiatto, la decisione finale sul nuovo ospedale: si farà a S. Lazzaro secondo i progetti noti da anni, che coinvolgono il riassestamento del Policlinico universitario e dell’ospedale S. Antonio. Altro che decentralizzazione del sistema sanitario in favore delle strutture di territorio, come se nulla fosse successo …
Noi ci siamo attivati, ci siamo spesi gratis e ci siamo auto-formati sul campo. Siamo stati dentro al quadro tracciato dal progetto “Per Padova Noi Ci Siamo”. Non siamo però meri esecutori, non ci siamo messi a disposizione per sopperire ad una mancanza ma per aprire spazi di innovazione sociale, di cooperazione, perché sapevamo di “saper fare”.
Ora siamo ad un punto di svolta: questi tre mesi di eccezionale attivazione possono essere un patrimonio da non disperdere, un punto di partenza, un trampolino verso il futuro continuando a sperimentare un welfare in comune tra tutti coloro che si caricano la città sulle spalle e vogliono portarla avanti, oltre l’emergenza.
Oppure, si può pensare che è stato solo un sogno, che presto tutto tornerà come prima e far appassire tutto dentro i ruoli canonizzati tra istituzioni, terzo settore e slanci di generosità individuale.
Padova dispone di una ricchezza incommensurabile, forse non ne siamo mai pienamente coscienti perché questa ricchezza si manifesta solo quando una enorme disponibilità di massa, in silenzio e a testa china, si adopera per supplire alle carenze strutturali di un sistema di welfare martoriato da trent’anni di privatizzazioni e disinvestimento. Mettere reciprocamente a disposizione capacità, saperi, strutture e – benché pochi e mai sufficienti – finanziamenti è possibile, lo abbiamo sperimentato.
Perché allora non sperimentare anche una decisionalità comune? Perchè non aprire un cantiere per identificare urgenze e priorità, linee strategiche a lungo termine e strumenti immediatamente attivabili? Quando parliamo di risorse, parliamo in generale di persone, strumenti, competenze, case, soldi. E anche vertenze, lotte, rivendicazioni. Padova ha dimostrato a sé stessa che sa come fare a non lasciare indietro nessuno, ma può fare molto di più, quando impara a dire “noi”.
Prendersi cura di noi significa ribaltare il concetto di “Padova capitale del volontario” in Padova capitale del nuovo welfare, con un’assemblea delle associazioni e dei “volontari” per iniziare insieme un nuovo viaggio.
Noi continuiamo ad organizzarci in comune, lo facciamo assieme?
Associazione Officina Sociale
AdL Cobas Padova
Polisportiva Sanprecario
Quadrato Meticcio
in allegato l’articolo de Il Mattino