A inizio novembre, due dipendenti del Gruppo Serenissima Ristorazione, addette alle cucinette dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso, sono risultate positive al tampone per il Covid-19. Come denunciato dall’Adl Cobas, le lavoratrici della Serenissima non hanno accesso agli stessi dispositivi di protezione e ai regolari test per il Covid-19 disposti per il personale ospedaliero, nonostante lavorino negli stessi ambienti. Alle colleghe delle due positive è stato quindi detto di rivolgersi al proprio medico di base e di continuare a presentarsi sul posto di lavoro anche prima di conoscere l’esito del tampone. Poco dopo, almeno altre due lavoratrici si sono ammalate di Covid.
È noto che, tra tutte le fragilità sociali messe in evidenza dalla pandemia del Covid-19, il deterioramento del sistema di sanità pubblica sia l’aspetto emerso con più drammatica nitidezza. La sanità pubblica in Veneto è sicuramente più solida che in altri contesti, tuttavia non è stata immune da quel processo di privatizzazione strisciante che attraverso l’esternalizzazione di numerose mansioni ha permesso di tagliare i costi, a spese di significative fette di personale. Giocoforza, la precarizzazione non è priva di impatti sui servizi erogati e sulla preparazione del sistema a emergenze sanitarie come quella in atto. I problemi delle lavoratrici della ristorazione ospedaliera non sono quindi cominciati con la pandemia che ha d’un tratto rivelato la natura essenziale del loro lavoro.
Le addette alle cucinette, una forza-lavoro quasi interamente femminile, distribuiscono i pasti ai pazienti dell’ospedale. Questo servizio era in passato svolto da Operatrici sociosanitarie (Oss) assunte direttamente dall’ospedale, ma è ora gestito dall’azienda di Mario Putin. Serenissima Ristorazione è un gigante del settore con circa 9.000 dipendenti e 50 milioni di pasti all’anno in convenzione con ospedali, scuole e altre strutture. Ha già attirato le attenzioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per irregolarità nelle gare d’appalto indette da Azienda Zero, l’ente creato da Zaia al centro delle gestione delle esternalizzazioni ospedaliere. Infatti, Serenissima detiene ormai il monopolio degli appalti negli ospedali veneti, grazie a un centro di cottura di sua proprietà ma pagato con soldi pubblici. Come? Nel 2009, la società vicentina aveva vinto un bando con l’Usl di Padova da unica concorrente, inserendo nelle condizioni – prontamente accettate – l’ammortamento del proprio maxi-centro di cottura a Boara Pisani.
Nonostante il “libero mercato” abbia poco a che vedere con questo sistema di appalti, le condizioni delle lavoratrici Serenissima riflettono una chiara strategia di riduzione del costo del lavoro. Quello delle addette alle cucinette è un lavoro di cura che aggiunge alla fatica emotiva anche quella fisica. La fatica emotiva è data dalla necessità di far fronte ai bisogni dei corpi ammalati di una grande varietà di pazienti, senza che sia prevista una formazione specifica. La fatica fisica è dovuta allo spostamento di carichi pesanti (un carrello pieno di pasti pesa tra i 300 e i 400 chili) per buona parte della giornata lavorativa, che colpisce soprattutto la schiena. Le scarpe antinfortunistica fornite dalla Serenissima sono di qualità scadente, cosa che ha contribuito all’emergere di fasciti plantari, talloniti, tendiniti e artrosi tra le lavoratrici.
Buona parte del personale lavora con contratti part-time involontari, che hanno visto una progressiva riduzione dell’orario di lavoro operata anche con il supporto dei sindacati confederali, tramite l’utilizzo di ammortizzatori sociali che dovrebbero servire per sopperire a situazioni di crisi aziendale, ma che nel caso di Serenissima sono stati autorizzati per accontentare le sue esigenze di bilancio.
Il rapporto tra personale ospedaliero e lavoratrici esternalizzate è descritto come nettamente gerarchico: “All’inizio ci trattavano proprio male, ora le cose sono migliorate ma a volte non siamo viste di buon occhio”. Un aspetto da notare è che i lavoratori esternalizzati dovrebbero prendere ordini solo dai dirigenti della propria azienda, altrimenti non si giustificherebbe il subappalto da parte del committente a un’azienda terza. Tuttavia, come spesso capita, anche nel caso delle addette alle cucinette è normale prassi che le istruzioni vengano impartite anche dalle coordinatrici dei reparti dell’ospedale. Difficilmente potrebbe essere altrimenti, vista la natura delle mansioni da svolgere.
Una lavoratrice osserva: “La pandemia ha trovato tutti impreparati, nonostante si sapesse che emergenze di questo tipo possono succedere”. Il primo problema è stato la mancanza di dispositivi di protezione individuale, in particolare le mascherine: “All’inizio dicevano che non servivano”. Questo proprio quando emergeva un focolaio di Covid-19 nel reparto di geriatria. Le mascherine sono poi arrivate, ma le lavoratrici Serenissima non hanno comunque accesso alle stesse protezioni e controlli del personale ospedaliero. In particolare, mentre tutti i dipendenti dell’ospedale vengono testati ogni venti giorni, le dipendenti Serenissima sono state sottoposte a tampone solo una volta, a maggio, quando i contagi erano già in discesa. Risultato: “Noi di fatto viviamo nella paura”.
Ma la pandemia non ha comportato solo un aumento dei rischi e delle difficoltà nello svolgimento delle mansioni. Serenissima ha anche fatto un uso strumentale delle cassa integrazione “Covid” per ridurre le giornate di lavoro delle dipendenti. Il servizio di catering nelle scuole e in altre strutture è stato sospeso a causa del lockdown, determinando la fermata di moltissime lavoratrici alle quali Serenissima ha rifiutato l’anticipo della cassa integrazione straordinaria. Tuttavia, negli ospedali il servizio è naturalmente continuato, non c’erano quindi ragioni oggettive per un uso del Fondo di integrazione salariale (Fis), che si è pero dato a macchia di leopardo.
I casi di Covid-19 tra le lavoratrici Serenissima esemplificano un fenomeno più ampio: i tagli alla sanità comportano esternalizzazioni di servizi che hanno a loro volta l’effetto di rendere gli ospedali meno sicuri sia per i lavoratori che per gli utenti. Se i lavoratori esternalizzati sono i più direttamente colpiti, è chiaro che la contrazione di risorse ha un impatto anche sui dipendenti diretti, che come sappiamo sono stati la prima linea della lotta alla pandemia. Quest’ultima ci sta mostrando chiaramente l’irrazionalità dell’allocazione delle risorse in una società che ha soldi per produrre beni di lusso e armamenti in abbondanza ma non per finanziare un sistema di sanità pubblica adeguato ai bisogni di tutte e tutti. Le rivendicazioni di sicurezza – sia sanitaria che economica – delle lavoratrici esternalizzate si inseriscono quindi in un quadro molto più ampio: quello della lotta per una salute pubblica di qualità, universale e gratuita.