La società americana in questi anni non ha sfornato solo sovranismo bianco razzista, trumpismo e aggressività economico-militare, anche se attualmente per procura, contro quanti attentano all’egemonia internazionale del dollaro. Sono emersi anche altri fenomeni e comportamenti, altrettanto rilevanti e per noi decisamente più interessanti, che solo marginalmente vengono citati più che raccontati dai nostri media mainstream e nei tanti talk show di “approfondimento”: fenomeni e comportamenti che disegnano una società, quella americana, di segno diametralmente opposto, conflittuale con le derive sovraniste e razziste bianche e con gli effetti sociali e economici prodotti dal neoliberismo.
Mi riferisco in particolare al fenomeno delle dimissioni di massa dal lavoro, prevalentemente da quello povero e alla ripresa della conflittualità dei/lle lavoratori/trici in diversi settori produttivi.
Negli USA nel 2021 si sono licenziati 48 milioni di lavoratori/trici, saliti/e a 50 milioni e mezzo nel 2022. Nel 2019 pur essendosi dimessi/e 6 milioni in meno di lavoratori/trici, la rilevanda numerica di queste azioni dimostra che le motivazioni alla base di questi esodi dallo sfruttamento salariale hanno radici profonde, probabilmente semplicemente accelerate dalla crisi pandemica tra il 2021 e il 2022, riconducibili all’emergere, almeno nell’ultimo decennio, di un disagio profondo di fronte a livelli salariali bassissimi e all’estensione dello sfruttamento sull’intero tempo di vita.
Queste dimissioni riguardano soprattutto il lavoro povero: ristorazione, trasporti, sanità, assistenza sociale, scuola (compresa l’università), dove il mix bassi salari-sfruttamento intenso in termini di ritmi di lavoro e di prolungamento orario è più rilevante. All’esodo o sottrazione volontaria individuale dallo sfruttamento si è aggiunto in questi anni anche un incredibile aumento e allargamento della conflittualità lavorativa. Questi due fenomeni sono stati e sono tutt’ora talmente rilevanti da spingere Robert Reich, ex segretario del lavoro con l’amministrazione Clinton, a porsi la domanda in un articolo del 13 ottobre 2021 sul “Guardian” se non si fosse in presenza di uno sciopero generale non ufficiale. Scrive infatti:
“Si protrebbe dire che i lavoratori abbiano proclamato uno sciopero generale nazionale finchè non otterranno salari e condizioni di lavoro migliori. Nessuno lo chiama sciopero generale. Ma in modo disorganizzato è collegato agli scioperi organizzati che stanno scoppiando in tutto il Paese: le troupe televisive e cinematografiche di Hollywood, i lavoratori della John Deere, i minatori dell’Alabama, gli operai della Nabisco, i lavoratori della Kellogg’s, gli infermieri della California, gli operatori sanitari di Buffalo. Disorganizzati o organizzati, i lavoratori americani hanno ora una leva di contrattazione per stare meglio”[1]
Sergio Bologna ritiene che il legame anche se non organico, o meglio, organizzato tra ripresa della conflittualità e dimissioni dal lavoro ci sia e che evidenzi anche altre novità. In un recente articolo apparso su Effimera in ricordo di Mario Tronti, una delle principali figure dell’operaismo, polemizzando con quanti da ormai mezzo secolo sostengono che la classe operaia non esista più, sottolinea come ciò che avviene in America dimostri esattamente il contrario. E ricorda che gli osservatori da oltre oceano non a caso hanno coniato per questo periodo il termine “Hot summer” (estate calda):
“Sono gli scioperi degli sceneggiatori di Hollywood, degli autisti di UPS, degli 11 mila dipendenti comunali di Los Angeles, delle infermiere di alcuni ospedali di New York, del New Jersey, dei lavoratori degli alberghi in California del Sud, dei 4.500 dipendenti comunali di San Josè, dei 1.400 tecnici che costruiscono locomotive elettriche a Eire in Pennsylvania e così via”[2]
Aggiungiamo a queste vertenze i diffusi episodi di insubordinazione (non mi viene altro termine per commentarli) verificatisi nella piccola, media e grande distribuzione e ristorazione contro la mancanza di un salario minimo decente e condizioni di lavoro insostenibili: ad esempio l’improvviso abbandono dal lavoro di tutti i dipendenti di un negozio della catena Hot Top a Rochester in Minnesota con la conseguente chiusura dell’esercizio o, per le stesse motivazioni, in un Burger King di Lincoln o in diversi ristoranti McDonald’s e Taco Bell.[3]
Non si tratta semplicemente di lotte per il salario mangiato dall’inflazione, bensì di vertenze che contengono elementi di novità importanti: rivendicazioni che riguardano anche l’ambiente, il diritto alla casa e l’emergere nelle dimissioni del “[…] senso primordiale della libertà e della dignità […]dopo decenni di politiche neoliberiste”. Poter respirare un pò scrive Bologna.[4] Motivazioni che esplicitate chiaramente nelle interviste dei/lle protagonisti/e raccolte da Francesca Coin; fenomeno che, ricorda la ricercatrice, non è solo americano ma con diversi e originali connotati lo si trova anche in Cina, in India[5] e sempre più spesso anche in Europa, specie in Gran Bretagna e, infine, anche in Italia. Qui, in un mercato del lavoro più rigido di quello USA, con decisamente minori opportunità di trasferimento da impiego a impiego, il numero di dimissioni nel 2021, prevalentemente nella ristorazione, nel turismo, nella sanità, ha sfiorato i 2 milioni di casi, superati già l’anno successivo.
Un ulteriore elemento di novità che arriva dalle vertenze dei/lle lavoratori/trici americane è la ripresa della solidarietà sociale come avvenuto tra i 140 mila attori del sindacato SAG-AFTRA e gli 11 mila della “Writers Guild of America”, insieme a quelli degli alberghi della California, scesi anch’essi in lotta. Non trascurabile è anche il fatto che molte di queste vertenze si sono concluse positivamente (ad esempio dopo 7 settimane di sciopero i dipendenti della John Deere hanno ottenuto gran parte di quanto richiesto, in particolare un aumento salariale del 20%) o hanno costretto alcune delle Big Tech ad aprire alla sindacalizzazione (Apple si è dovuta sedere per la prima volta al tavolo delle trattative con il sindacato interno e Amazon ha dovuto accettare l’ingresso dell’Amazon Labor Union nell’enorme magazzino di New York che impiega circa 8 mila dipendenti rompendo il tabu della non sindacalizzazione nei magazzini del Gruppo).
Elementi di novità arrivano anche dallo sciopero indetto il 15 settembre dalla United Auto Workers (Uaw) che rappresenta 150 mila lavoratori metalmeccanici, in contemporanea per la prima volta negli stabilimenti General Motors, Stellantis e Ford. Novità sia per la contemporaneità delle vertenze riassunte in un’unica piattaforma rivendicativa, sia per la ripresa di forme di lotte – sciopero a scacchiera – abbandonate da tempo, intraprese per colpire duramente la controparte padronale, sia per come il sindacato è giunto a questa decisione, frutto di una profonda riorganizzazione interna che spazzato via attraverso nuove e più democratiche modalità di elezione la vecchia dirigenza burocratizzata. La nuova dirigenza Uaw si sta dimostrando cosciente della forza rappresentata dalle migliaia di iscritti che ne ha sostenuto l’affermazione e della necessità di ripristinare forme di conflittualità in grado realmente di far pesare a proprio favore i rapporti di forza con il padronato. Shawn Fain, nuovo combattivo leader dell’Uaw ha motivato la scelta dello sciopero a scacchiera nei diversi stabilimenti dei tre grandi gruppi automobilistici con la volontà di “[…] dare massima incertezza alle aziende e mantenere massima flessibilità nei negoziati”, ricordando che se la vertenza dovesse protrarsi ulteriormente, Uaw non esiterebbe a continuare lo stop alla produzione. E’ giunta l’ora di una ripartizione più equa dei lauti profitti fatti dalle aziende, ha dichiarato Fain giustificando le richieste di aumenti salariali: “Questo è il momento che definirà la nostra generazione. I soldi ci sono, la nostra causa è giusta, il mondo ci osserva”.[6]
La piattaforma rivendicativa rispecchia la comprensione della fase e della posta in palio: aumenti salariali del 40% in 4 anni, scala mobile contro l’inflazione, riduzione oraria a 32 ore settimanali, miglioramenti nelle coperture assistenziali e pensionistiche, maggiori garanzie a protezione del posto di lavoro, cancellazione delle diversità salariali (attualmente i nuovi assunti percepiscono 17 dollari/ora contro i 32 del salario massimo che solo dopo 8 anni di lavoro possono raggiungere).
Anche se Uaw non ha più i milioni di iscritti di un tempo, viene, però, da due vertenze, alla John Deere e a Caterpillar, dove ha recentemente strappato con la lotta aumenti salariali significativi. Inoltre è consapevole di poter giocare una carta importante essendo collocate le aziende in Stati fondamentali per le sorti elettorali delle prossime presidenziali, come appare chiaramente dalle dichiarazioni di sostegno alla bontà delle rivendicazioni da parte del Presidente Biden che si è spinto, primo presidente americano, a intervenire, megafono in mano, a uno dei comizi operai in corso a Detroit in Michigan, rivolgendo alle aziende un appello esplicito a riconoscere “un’equa parte che il loro lavoro” a chi “ha contribuito a produrre”, siano essi “attori, scrittori o metalmeccanici”. Aver saputo cogliere da parte della Uaw il momento politico favorevole lo si vede anche dal tentativo del rivale per la corsa alla Casa Bianca, Donald Trump, anch’esso intervenuto a loro favore tentanto la carta della concorrenza cinese per il futuro dell’industria automobilistica americana e, quindi, del rischio di perdita di posti di lavoro, senza trovare una qualche sponda amichevole tra i lavoratori in lotta. Fain ha, infatti risposto: “Ogni fibra della nostra union è impegnata alla lotta di classe dei miliardari e contro l’economia che arricchisce gente come Donald Trump. Non possiamo continuare ad eleggere miliardari che non hanno la minima cognizione di cosa significhi arrivare a fine mese, e pretendere che risolvano i problemi della working class”. [7]
Nel commentare quanto sta avvenendo oltre oceano, è sconsolante osservare che a fronte di introiti e dividendi record degli azionisti di questi grandi gruppi – ben 4,2 miliardi nel 2022 i dividendi che si sono assegnati in Stellantis, centinaia di milioni per gli Agnelli e 23,5 milioni per l’ad Carlos Tavares – la risposta in Italia della Fiom sia quella (piagnona) di chiedere al Governo la convocazione di un tavolo con l’azienda e Federmeccanica per discutere il rilancio della transizione ecologica del settore, invece di promuovere una qualche forma di iniziativa nelle aziende del gruppo.
Se la vertenza dei lavoratori del settore automobilistico americano è nel suo momento più caldo, stanno, viceversa, concludendosi positivamente le grandi vertenze aperte dai writers e dagli attori contro le corporation hollywoodiane, mentre è di queste ore l’apertura di una vertenza dei lavoratori dei videogames (il 98,32% degli iscritti al sindacato di settore ha appena votato a favore dell’autorizzazione dello sciopero per rivedere il contratto) al cui centro c’è anche qui, oltre all’adeguamento stipendiale al passo con l’inflazione, la protezione sull’utilizzo delle intelligenze artificiali (IA).
La Writers Giuld of America (WGA) che rappresenta la gran parte dei writers è scesa in sciopero il 2 di maggio scorso rivendicando adeguamenti stipendiali, garanzie e tutele sanitarie e pensionistiche e, soprattutto, tutele contro i rischi legati all’utilizzo da parte delle corporation dell’IA e dalle differenziazioni dei compensi determinati dall’introduzione delle tecnologie digitali in particolare per quanto riguarda le produzioni in streaming.
A fronte di un settore completamente rivoluzionato in un brevissimo arco tempo, con investimenti massicci sulle nuove tecnologie digitali (dal 2019 dai 5 ai 19 miliardi di dollari all’anno), che ha visto la nascita di nuove piattaforme adottate un pò da tutte le corporation per sopperire alla chiusura di molte sale cinematografiche e attrezzarsi nella contesa del pacchetto abbonati (modello Netflix docet) e il conseguente aumento esponenziale di cartichi di lavoro per maestranze e creativi, non è corrisposto un adeguamento dei compensi e una modifica dei contratti e delle tutele. La paga media degli sceneggiatori secondo il WGA è invece diminuita del 4% nell’ultimo decennio, con metà degli autori che percepiscono il minimo salariale rispetto al 33% che prendeva il minimo nel 2013. Dal 2019 i compensi sono sempre più bassi.
Il WGA denuncia come i diritti d’autore, che dovrebbero sostenere gli autori nei periodi fra produzioni attive, per quelli in streaming siano inferiori a quelli legati ai film distribuiti in sala e trasmessi in programmi tv o pay per view e che l’avvento dell’era digitale a Hollywood abbia crato un enorme precariato creativo simile a quello creato dall’avvento della gig economy. A questo si aggiunga la tendenza sempre maggiore all’esternalizzazione di produzioni fuori dagli Studios in Paesi dove le condizioni contrattuali e di lavoro sono decisamente a favore delle corporation.
Su contenuti analoghi è sceso in sciopero il 14 luglio anche il Screen Actors Guild (SAG-AFTRA), sindacato degli attori con 160 mila iscritti. Anche in questo caso a fianco della rivendicazione di compensi che non hanno tenuto il passo con l’aumento del costo della vita e con l’aumento dei compensi milionari per Studios e Corporation – secondo Los Angeles Time negli ultimi cinque anni Rupert Murdoch della Fox ha guadagnato 174 milioni di dollari, Ted Sarandos di Netflix 192 milioni, Bob Iger di Disney 195 milioni, David Zaslav di Warner Bros/Discovery 498 milioni – c’è la questione dei cambiamenti epocali indotti dall’introduzione delle nuove tecnologie digitali, delle IA in particolare. Attori e writers hanno subito solidarizzato e unite le forze per contrastare i nuovi conglomerati proprietari del settore bloccando produzioni, impedendo l’uscita di nuove serie tv, mettendo in crisi festival con il diniego di molte star del cinema di parteciparvi e di produzioni di potervi inviare nuovi prodotti. Lo sciopero ha provocato una perdita di profitti molto alta oltre a riduzione del numero di abbonati nelle tv a pagamento. Attori e writers sono consapevoli di avere di fronte non più i vecchi Studios hollywoodiani ma complessi con radici anche nella Silicon Valley, portatori di interessi diversificati sull’applicazione delle nuove tecnologie digitali, molto più potenti e con prospettive di sviluppo non più legate esclusivamente alle vecchie sedi della produzione culturale hollywoodiane, fatto questo che evidenzia il grande cambiamento in corso in questo settore. Ciò rende ancora più importante quersta vertenza, dimostrando come questa lotta si ponga decisamente all’avanguardia in un mondo del lavoro che va trasformandosi, precarizzando e impoverendo tutte le realtà lavorative, siano esse quelle del lavoro povero o della produzione e circolazione delle merci materiali, sia quelle della produzione di lavoro immateriale.[8]
Giustamente Luca Celada ha sottolineato nei suoi reportage dall’america per Il Manifesto la centralità di queste nuove tecnologie che, nello specifico, potrebbero nel breve tempo rivoluzionare le produzioni e rendere più precarie le condizioni dei/lle lavoratori/trici del settore. I writers denunciano che nelle sceneggiature la nuova tecnologia IA è già in uso parziale, elaborando idee e trattamenti che solo in un secondo momento vengono affidati a mani umane per rifinirle, precarizzando e impoverendo anche economicamente la loro professione. Nella recitazione, lo stiamo vedendo, si va affermando l’utilizzo di performer completamente o in parte sintetici che solo alcune star del cinema riescono sinora a limitare con contratti che prevedono il divieto delle modifiche digitali alla loro recitazione. Celada ha ricordato a questo proposito il recente caso di Keanu Reeves che ha denunciato l’aggiunta di una lacrima in post produzione a sua insaputa. Anche altri attori e attrici hanno denunciato episodi analoghi o portato in tribunale la produzione per difendere la propria professionalità dall’invadenza delle IA. Un caso recente è quello di Anil Kapoor, attore indiano tra i più famosi, protagonista di The millionaires, che ha recentemente vinto in tribunale una causa contro l’uso improprio della sua immagine e recitazioni da parte di media digitali. Kapoor nel commentare la vittoria giudiziaria ha espresso sostegno alla lotta degli attori negli USA a dimostrazione di come quella vertenza susciti ramificazioni positive fuori dagli States.[9]
La centralità di queste rivendicazioni a tutela delle professioni di writers e attori dai cambiamenti indotti dall’introduzione delle tecnologie digitali non vanno lette esclusivamente come una difesa specifica del lavoro creativo perchè la pervasività di queste tecnologie, della loro introduzione ormai massiccia in più ambiti del lavoro e della vita, riguardano cambiamenti globali, nel mondo del lavoro, nelle politiche del controllo sociale, nella creazione di informazioni, nei processi di condizionamento dei comportamenti di massa.
La lotta dei writers è ormai giunta alle sue battute finali come per altro sta avvenendo per quella degli attori e con esiti positivi per entrambi, in particolare per quanto riguarda le garanzie e le tutele relative all’utilizzo della IA. I writers nell’accordo raggiunto si sono assicurati, oltre al riconoscimento degli obiettivi di carattere economico, una protezione dalla scrittura di materiale originale da parte dell’IA e contro il suo utilizzo come “materiale di partenza” per un adattamento. Inoltre gli autori possono ricorrere all’IA se l’azienda lo consente ma questa non può richiedere a loro di farlo; l’accordo prevede anche il divieto di sfruttamento del materiale prodotto dagli sceneggiatori per formare l’IA. Punto questo tra i più qualificanti anche nella vertenza degli attori. Questi punti dell’accordo consento anche di impedire alla controparte di pagare in maniera differenziata (inferiore) lavori che si siano avvalsi in parte del supporto di tecnologia IA.
“Quello che abbiamo ottenuto in questo contratto” scrive in un Nota inviata da WGA agli iscritti “è stato grazie alla volontà dei membri di esercitare il proprio potere, dimostrare solidarietà, marciare fianco a fianco e far fronte comune all’incertezza e al dolore degli ultimi 146 giorni. Sono queste le azioni, assieme al sostegno straordinario dei nostri compagni di sindacato, che hanno indotto le controparti a tornare al tavolo e trovare un accordo”[10]
Dichiarazioni che valorizzano la prassi adottata e la solidarietà costruita tra professioni diverse che dovrebbero servire da esempio anche qui in Italia per riannodare i fili di quella originale forma di intersindacalità che si è manifestata nel mondo dello spettacolo tra tutti i suoi protagonisti durante la serrata pandemica delle attività, individuando obiettivi comuni, garanzie per le professioni più precarie in termini di compensi e di coperture previdenziali e pensionistiche, tutele professionali, tutti fili che ora, purtroppo, sembrano essersi di molto allentati e in alcuni casi spezzati. Dagli Stati Uniti arriva un messaggio: la lotta, quando viene messa in campo e trova consenso e solidarietà tra i lavoratori anche di diversa collocazione produttiva, paga sempre!
29 settembre 2023
Paolo De Marchi
[1] Robert Reich “Is America Experiencing an Unofficial General Strike?” in “The Guardian”, 13 ottobre 2021, https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/oct/american-workera-general-strike-robert-reich. La citazione è ripresa da Francesca Coin “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, Einaudi, 2023.
[2] Sergio Bologna “Strappiamo Tronti dalle grinfie dei salotti buoni” in www.effimera.org
[3] Notizie su questi significativi episodi di confluttualità nel settore della ristorazione e distribuzione negli Stati Uniti, sostanzialmente contro l’imposizione di lavoro povero e superfruttamento su una larga parte del tempo di vita dei/lle lavoratori/trici sono reperibili, a mia memoria, esclusivamente dalla cronaca internazionale del Il Manifesto. In parte sono riprese a sostegno dell’analisi del fenomeno delle dimissioni volontarie sempre da Francesca Coin “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, Einaudi, 2023.
[4] Sergio Bologna “Strappiamo Tronti dalle grinfie dei salotti buoni” in www.effimera.org
[5] In Cina il fenomeno delle dimissioni è legato alla nascita del movimento di protesta Tang ping (sdraiarsi) contro il sistema 996 che richiede di lavorare dalle 9 alle 21 per sei giorni alla settimana a cui a fatto seguito un secondo movimento Let it rot (lascialo marcire) che critica la costrizione al lavoro in condizioni di supersfruttamento in tutti i settori lavorativi. In India il fenomeno è stato rilevato da agenzie di reclutamento specializzate: l’86% dei lavoratori intervistati , di tutte le età e livelli, prevedevano dimissioni nei 6 mesi successivi all’impiego e il 61% dichiaravano la loro disponibilità anche a un salario più basso purchè in cambio di un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro. Si veda per questo Francesca Coin “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, Einaudi, 2023.
[6] Luca Celada “Usa, in sciopero gli operai delle ‘Grandi Tre”: <il mondo ci guarda>”, Il Manifesto, 16/09/2023
[7] Si vedano le diverse dichiarazioni di Biden, Trump e Fain in Guido Moltedo “Presidenziali Usa, il vecchio Joe e la sfida delle tute blu”, Il Manifesto, 19/09/2023. Sull’argomento anche Luca Celada “Joe Biden si unisce allo sciopero: la prima volta di un presidente”, Il Manifesto, 17/09/2023.
[8] Interessanti annotazioni sul cambiamento avvenuto nella composizione degli Studios e delle produzioni dello spettacolo cinematografico, tv e digitale e sui cambiamenti del lavoro degli attori e dei writers indotti dalle tecnologie IA negli articoli di Luca Celada “Hollywood strike, la mecca del cinema incrocia le braccia” e “Nella Hollywood degli scioperi manca ancora il lieto fine” entrambi in Il Manifesto, il primo del 14/07/2023 e il secondo del 29/08/2023. Sui cambiamenti intervenuti si veda Amanda D. Lotz “Pirati, cannibali e guerre dello streaming”, Einaudi, 2022 e in particolare sul fenomeno Netlfix Ed Finn “Che cosa vogliono gli algoritmi”, Einaudi 2018.
[9] “Anil Kapoor, battaglia contro l’AI per proteggere la propria immagine”, Il Manifesto, 21/09/2023
[10] Luca Celada “Accordo eccezionale, vinta la lotta degli sceneggiatori”, Il Manifesto, 26/09/2023