Nonostante la propaganda di governo i dati sull’occupazione ed i salari in Italia ci restituiscono un quadro strutturale per nulla rassicurante. Le ultime riforme del mercato del lavoro non solo non stanno facendo aumentare l’occupazione, ma stanno aumentando la precarietà. Secondo Marta Fana, la ricercatrice che per prima ha segnalato gli errori del Ministero del Lavoro sui numeri relativi ai contratti stabili “a fine ottobre 2015, il numero di occupati a tempo indeterminato, rispetto al momento di entrata in vigore del JobsAct, è diminuito di 18 mila unità. I dipendenti a termine sono invece aumentati di oltre 170 mila occupati. I giovani rimangono ai margini del mercato, dovendosi accontentare di forme sempre più aggressive di precarietà, come ad esempio i voucher o i contratti di brevissima durata. Ad aggravare la situazione – che senza un cambio di rotta produrrà effetti disastrosi sul piano strutturale – c’è la dinamica delle retribuzioni e salari, spinti verso il basso da un rapporto di forza sempre più sbilanciato a favore dei datori di lavoro. Lo stesso sta accadendo anche nei confronti del welfare lavoristico: l’introduzione del contratto a tutele crescenti non è che una monetizzazione dei diritti, che prende la forma di una mancia, mentre ai datori di lavoro viene corrisposto il più generoso sgravio sui contributi previdenziali. Per completare il quadro è necessario considerare la variazione di quanti non cercano più lavoro, gli inattivi, i veri protagonisti della dinamica del tasso di disoccupazione” (http://commonware.org/index.php/neetwork/632-dati-istat-occupazione).
Per quanto riguarda il salario medio si osserva una netta distinzione tra l’Europa dei paesi creditori, con salari medi relativamente elevati, e l’Europa dei paesi debitori, caratterizzati da salari bassi.
Ora discutere se la crisi che stiamo attraversando sia simile a tante altre passate oppure no è senz’altro utile, ma secondo noi è sbagliato credere che se ne possa uscire attraverso una crescita della produzione e dell’occupazione, aumentando la competizione sul costo del lavoro e con un aumento dei consumi a prescindere. Siamo infatti già in una fase di sovrapproduzione e nello stesso tempo di contrazione dei consumi per mancanza di salario. Ci dobbiamo inoltre confrontare con una crisi ambientale grave a tal punto che i suoi effetti sono evidenti e palpabili nella nostra vita quotidiana: aumento della concentrazione di anidride carbonica e di altri gas nell’atmosfera e mutamenti climatici; impoverimento della fertilità del suolo; distruzione delle foreste e della biodiversità; erosione del suolo con conseguenti alluvioni e frane; congestione delle città; inquinamento industriale; montagne di rifiuti che nessuno sa dove mettere. Qualsiasi ragionamento attorno alla crisi e alla precarietà e a possibili vie d’uscita non può prescindere da consumi socialmente ed ecologicamente compatibili, favorendo quelli che più contribuiscono al benessere sociale, e da un ripensamento delle modalità di distribuzione dei beni e di accesso ai servizi.
Inoltre, bisogna capire che la precarietà non è la condizione di lavoro e di vita dei giovani assunti con uno dei tanti contratti di lavoro atipici legalizzati negli anni. A definirla in questo modo si rischia di considerarla come un fenomeno marginale, temporaneo, congiunturale o ancora peggio come un conflitto generazionale.
La precarietà è la condizione strutturale su cui si è riorganizzato negli ultimi 30 anni in Italia e nei Paesi Occidentali il sistema economico, il quale ha quindi modificato condizioni di lavoro e di vita degli individui.
Certamente la precarietà può assumere connotati diversi e, a seconda di determinate situazioni soggettive e oggettive, rendere gli individui più o meno vulnerabili. In ogni caso è il prodotto di processi di frammentazione, individualizzazione, deregolamentazione delle attività produttive e di un progressivo trasferimento del rischio d’impresa verso i lavoratori. Una socializzazione del rischio che solo gli ingenui o i politici in mala fede si ostinano a sostenere possa essere accompagnata da una nuova e più ampia redistribuzione della ricchezza, e che invece va di pari passo con la concentrazione dei patrimoni (l’Italia è il 4° Paese OCSE per disuguaglianze sociali) e la riduzione dello stato sociale.
La precarietà quindi si manifesta con basse retribuzioni ed introiti discontinui, tutele nel lavoro variamente ridotte e sottoposte al ricatto occupazionale, forte compressione dell’autonomia individuale e della libertà di scelta, e infine un mix esplosivo tra tempo libero imposto (e non liberato) e invasione del tempo di lavoro in quello del non lavoro.
La condizione precaria tende a farci sentire soli, colpevoli della propria situazione individuale e incapaci di costruire percorsi collettivi. Allo stesso tempo però, il suo carattere strutturale, pervasivo e comune, proprio il suo essere forma tipica (tutt’altro che “atipica”) dell’organizzazione del capitalismo contemporaneo può e deve essere un elemento di ricomposizione sociale.
Il precariato ha reso l’assenza di diritti sul lavoro una normalità. Noi chiediamo che questo incantesimo sia definitivamente rotto. I lavoratori precari sono per la maggior parte soli, in competizione, non sindacalizzati. Il rapporto lavoratore/datore di lavoro si basa sempre più su un rapporto individuale, e per questo, senza tutele e garanzie se non quelle della contrattazione personale. Quello che serve è annullare le fratture e ricostruire una unità di interessi tra i lavoratori: il precariato non è uno status solamente di chi possiede un contratto atipico, ma è una condizione di vita che raggiunge anche chi oggi ha un lavoro stabile. Il mercato del lavoro si è modificato ledendo le garanzie dei tempi certi del lavoro.
Per questo i diritti e la continuità di una retribuzione\reddito dignitoso non possono dipendere dal posto occupato in un dato momento della nostra vita lavorativa, ma devono essere garantiti a tutti\e e sempre. Non è il posto fisso che si cerca, ma le garanzie conquistate col contratto a tempo indeterminato! Per fare questo bisogna eliminare tutte le forme di lavoro atipico. Sostenere che bisogna far costare di più il lavoro atipico significa entrare dentro la logica che si possono monetizzare i diritti. E quanto valgono i diritti come ferie, malattia, maternità, il tempo indeterminato e l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nella nostra esistenza?
Ci si deve però anche battere per ricomporre il mercato del lavoro: quasi tutte le figure precarie possono rientrare nel tempo indeterminato, quelle che non vi rientrano possono essere ricondotte al lavoro autonomo. Il lavoro autonomo senza nessun dipendente deve avere però agevolazioni fiscali e un trattamento normativo di sostegno, diverso da quello delle imprese.
E’ facile costatare come negli ultimi anni si è passati da una fase di richieste che andavano verso l’aumento del salario, ad una sua diminuzione e incertezza; da richieste di diminuzione di orario per dividere il lavoro fra tutti, ad una flessibilità oraria che sembra non avere più limiti.
Per questi motivi e per tantissimi altri che se ne possono aggiungere, la lotta contro il precariato può essere vinta solo se riusciamo a ricomporre la stratificazione del lavoro così come lo conosciamo oggi, e per questo si devono tenere in considerazione alcune questioni: 1. democrazia e rappresentanza nei luoghi di lavoro; 2. Contratti nazionali e diritti per tutti; 3. Salario minimo garantito; 4. Reddito minimo grantito.
1. Democrazia e rappresentanza nei luoghi di lavoro…
Sono diritti che non possono rimanere fuori dai luoghi di produzione. Bisogna sancire che il lavoratore ha il diritto di votare e scegliere su ogni contrattazione e sull’elezione dei suoi rappresentanti. Quello che sta succedendo oggi è il tentativo di costruire una “casta” anche all’interno dei posti di lavoro, simile a quella che esiste fuori da essi, nella società civile, con privilegi e diritti in più rispetto ai comuni cittadini\lavoratori.
La necessità di ridisegnare il sistema dei diritti e delle regole della rappresentanza deriva dalla convinzione dell’inadeguatezza degli attuali meccanismi e dall’evidente carenza di democrazia e di reale possibilità di partecipazione da parte dei lavoratori.
Bisogna quindi ridefinire un sistema di regole e di garanzie che restituiscano ai lavoratori, e a coloro che da essi sono direttamente eletti, diritti e prerogative che ad oggi sono invece di esclusiva pertinenza delle organizzazioni sindacali tradizionali.
2. Contratti nazionali e diritti per tutti
Nessuna deroga deve essere consentita ai contratti nazionali che anzi, dovranno essere riuniti e ridotti a poche unità dai circa 400 oggi esistenti. I contratti aziendali che, oltretutto oggi riguardano una minima parte dei lavorativi, possono essere solo migliorativi, a favore del lavoratore.
3. Salario minimo garantito (SMG)
Una rivendicazione unificante è la richiesta di un SMG. Per noi questo potrebbe essere di 1.200 euro mensili per la categoria contrattuale più bassa, legato al costo della vita calcolata dai dati Istat e per un orario di lavoro di 40 ore. Salari bassi e stagnanti, combinati con un facile accesso a mutui ipotecari e prestiti al consumo, si sono risolti in un rapido aumento del debito delle famiglie.
Il SMG è un diritto che va a sommarsi a quelli che formano il salario indiretto come ferie, malattia, maternità, TFR, pensione e dovrebbe essere garantito a tutti. Contro chi cerca di trasformare i diritti del lavoro in semplici diritti commerciali dovremmo rivendicare il fatto che i diritti del lavoro devono diventare personali e quindi prescindere dal tipo di impiego.
4. Reddito minimo garantito (RMG)
L’Unione Europea riconosce il diritto ad un reddito minimo garantito come diritto sociale fondamentale nell’art. 34 terzo comma della Carta di Nizza, ma “secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e legislazioni e prassi nazionali”. Due risoluzioni del Parlamento europeo del 2008 e del 2010 hanno invitato gli stati a dotarsi di schemi di reddito garantito in grado di assicurare un’esistenza dignitosa attraverso un reddito “adeguato”, che offra un’equa partecipazione del singolo alla vita culturale, sociale ed economica in cui è inserito e pari almeno al 60% del reddito mediano di ciascun paese.
Una iniziativa da tenere presente è usare la possibilità che il Trattato di Lisbona ci offre, di rivolgere petizioni popolari al parlamento e alla commissione europea attraverso la raccolta di un milione di firme su tutti i paesi firmatari.
Il RMG è uno degli strumenti centrali per costruire una società fondata sulla dignità della persona, su una nuova idea di autonomia individuale e di libertà di scelta, su una nuova idea di distribuzione delle ricchezze prodotte e di diritto sociale fondato anche sul diritto economico. Un modello di società che ridefinisce lo stesso concetto di lavoro e la sua ideologia, e che assume nella critica al consumismo l’idea del limite nello sfruttamento delle risorse naturali e nell’inquinamento dell’ambiente.
Inoltre, per muovere dei passi oltre questo orizzonte sconsolato di crisi e di declino è necessaria l’affermazione di nuove strategie e secondo noi il reddito garantito è una tra queste.
A fronte dei tanti casi di fallimento individuale e collettivo all’interno del paradigma del pieno impiego, occorre mettere a tema la possibilità di un superamento del nesso tradizionale tra prestazione lavorativa e garanzia dei mezzi di sussistenza.
Da questa auspicabile dissociazione tra assicurazione dei mezzi vitali e prestazione lavorativa risulterebbe non tanto la distruzione del lavoro in quanto tale, come temono i conservatori (che vedono catastrofi in ogni innovazione) e neppure lo scioglimento della attuali attività lavorative in una dinamica sociale interamente liberata (come pensa chi vede il reddito garantito come panacea di tutti i mali). Piuttosto e più laicamente, noi crediamo risulterebbe una sorta di equiparazione tra la sfera del lavoro e la sfera del non-lavoro. A ciò che esula dalla sfera lavorativa formale verrebbe data dignità sociale almeno pari a quella che si è soliti attribuire al lavoro salariato e oggetto di scambio sul mercato.
I dati Istat italiani ci dicono che una persona su quattro è a rischio povertà, i salari sono tra i più bassi tra i Paesi occidentali e le disuguaglianze sociali più ampie; inoltre e rispetto all’ Europa a 27, si spende meno per quel che riguarda il sostegno del reddito. La crisi economica ha messo a nudo, in modo drammatico, le carenze di un sistema di protezione sociale, incapace di offrire tutele adeguate ai soggetti più esposti ai rischi di esclusione sociale, primi fra tutti giovani e lavoratori precari.
La rivendicazione di un reddito minimo garantito di 600 € mensili (valore del reddito di povertà che oggi è stabilito in Italia per una persona singola) per tutti i residenti in Italia (nativi o migranti) di età compresa tra i 18 anni fino alla morte è più che fattibile. La somma potrebbe essere erogata in parte mediante servizi e modificata nel caso si fosse proprietari o no di casa; l’erogazione dovrà essere incondizionata e cumulabile con il salario e altri redditi fino all’ammontare della cifra del salario minimo garantito, cioè 1.200€.
La sostenibilità economica e finanziaria è assolutamente possibile, purché lo si voglia davvero. Finanziare un reddito garantito individuale a tutti coloro che si trovano collocati sotto la soglia del salario minimo garantito (SMG) non è un obiettivo irrealizzabile.
L’alternativa ad un RMG potrebbe essere solo la riduzione forte e generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario e cioè dentro la logica di “lavorare meno per lavorare tutti”. Si tratta di una rivendicazione sempre valida, ma abbandonata completamente da quelle forze sindacali che negli anni ’70 erano state costrette a “cavalcarla”, pressate dalle avanguardie operaie interne alle grosse fabbriche del Nord che reclamavano la riduzione dell’orario di lavoro in proporzione agli incrementi di produttività.
La ricerca della piena occupazione se non prende in considerazione il “cosa, come e per chi produrre” è una richiesta che si scontra con la garanzia dei diritti e i limiti ambientali. Non si può trascurare il fatto che maggior produzione di merci richiede più materiali, acqua ed energia, che l’offerta di questi beni è limitata e che alcune risorse naturali sono essenziali per la sopravvivenza. In futuro, la crescita occupazionale dovrebbero avvenire nell’alveo di un’economia i cui principi guida sono la cura e il valore d’uso. Si tratterebbe quindi di investire da un lato nello sviluppo di servizi alla persona basati sull’attenzione all’altra/o, sulla responsabilità e su un atteggiamento di solidarietà interpersonale, e dall’altro lato, sulla produzione di beni sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale. Crediamo, infatti, che la creazione di occupazione debba avvenire solo per produrre oggetti e servizi volti al miglioramento della qualità della nostra vita e salvaguardando le condizioni salariali e normative.
Comunque è poco credibile parlare di piena occupazione o di RMG se non si lotta contro la precarietà oggi diventata sistema a partire dal proprio posto di lavoro.