l commento ai dati Istat sull’occupazione riguardanti il primo trimestre 2018, pubblicati ieri, è stato fatto dalla MayDay Parade di Bologna e dal corteo contro lo «sfruttamento» di Milano il primo maggio. I «riders», i precari, gli studenti, i lavoratori con o senza contratto da dipendente o a termine hanno capito perfettamente che la «crescita» dell’occupazione, anche quella giovanile, registrata negli ultimi 12 mesi è interamente trainata dal nuovo precariato: quello creato dalla «riforma» Poletti che ha eliminato la «causale» ai contratti a termine e permette fino a cinque proroghe per una durata di 36 mesi. E questa è solo la forma emersa di un arcipelago di precariato fatto di lavoro a chiamata e somministrato,. Tutto in cambio di paghe da prefisso telefonico, e senza tutele. Di pensione neanche a parlarne. Perché si sa che si lavorerà a vita e si morirà precari. Tutele per tutti, hanno scritto sullo striscione di apertura a Milano. Continuità di reddito e reddito di base, innanzitutto, hanno rilanciato i giovani di Bologna. In pochi slogan concisi, la sintesi di un programma politico fondamentale, una scossa in un paese che annega in una stagnazione morale, prima ancora che economica.
I DATI ISTAT suffragano l’interpretazione di una realtà realmente vissuta. Vanno però letti a partire dall’anno per poi soffermarsi sul trimestre. A pagina 4 del bollettino «occupati e disoccupati» si legge che «nei dodici mesi la crescita occupazionale si è concentrata esclusivamente nei dipendenti a termine (+12,4%), mentre risultano in calo i permanenti (-0,3%) e gli indipendenti (-1,5%)». Soffermiamoci sul trimestre: gli occupati sono cresciuti dello 0,1% rispetto al trimestre precedente). L’aumento interessa soprattutto gli uomini ad eccezione dei 35-49enni. Ed è sostenuto dai dipendenti a termine (+66 mila), mentre calano i permanenti (-8 mila) e in misura più consistente gli indipendenti (-37 mila). Vediamo il mese di marzo: l’occupazione che cresce non è quella dei dipendenti, ma quella delle partite Iva – gli «indipendenti» che da tempo subiscono flessioni paurose, anche per l’effetto dell’assorbimento del lavoro autonomo «grigio» nell’ambito della parasubordinazione.
SI CONFERMA la struttura del mercato del lavoro post-Jobs Act: la crescita del lavoro precario si concentra nei giovanissimi (15-24enni: disoccupazione al 31,7%) e soprattutto negli over 50, non è merito del Jobs Act, come ancora ha detto ieri Renzi, impegnato a rispondere a chi – come Cinque Stelle o Lega – vuole «abolire» la sua «riforma», se solo ci fosse un governo. È da tempo chiaro che questa situazione è l’effetto dell’aumento dell’età pensionabile imposto dalla «riforma» Fornero, oltre che della già citata «Poletti», antecedente al fallimentare contratto a «tutele crescenti» – dove a crescere è solo la libertà di licenziare senza articolo 18. Se, e quando, sarà abolito, nessuno rimpiangerà il Jobs Act. Il rischio è un altro: la «riforma» successiva potrebbe essere addirittura peggiore.
CHI ESCE MASSACRATO dalla crisi sono i trenta-quarantenni. Anche se il precariato cresce tra i giovani, portando il tasso di disoccupazione ai minimi dal 2011, manteniamo il primato in Europa. Stesso discorso per l’occupazione femminile: è cresciuta ma a marzo è calata. In generale è tra le più basse in Europa. La disoccupazione generale è all’11%, come nella seconda metà del 2012, 5 punti percentuali sopra al livello pre-crisi.
L’IMMAGINE GENERALE è quella di un perimetro sempre più stretto dove si lavora tanto, sempre peggio e sempre più da precari. Lo attesta il tasso di occupazione: dopo dieci anni di crisi, e 18 miliardi di euro elargiti dal governo Renzi alle imprese per assumere a tempo «indeterminato» con il Jobs Act (non lo hanno fatto, ma hanno preso i soldi), questo tasso resta attorno al 58% virgola qualcosa, la stessa percentuale dell’inizio della crisi. In 120 mesi non è stato creato nuovo lavoro, è stato recuperata un’occupazione – più bassa di dieci punti rispetto all’Europa – prodotta da nuovo precariato attraverso nuove leggi.
«ESISTE UN CONSIDEREVOLE aumento della temporaneità dell’occupazione dipendente. Uno dei motivi per cui la qualità del lavoro è diventata una questione da affrontare con estrema urgenza – sostiene Tania Scacchetti (Cgil) che definisce «allarmante» la «difficoltà per i giovani e le fasce centrali di età ad entrare nel mercato del lavoro». Guglielmo Loy della Uil fa una proporzione: «un lavoratore a termine ogni 5 a tempo indeterminato». Una proporzione in «continuo aumento» e comporta «l’instabilità lavorativa porta con sé anche un’instabilità economico-produttiva, oltre che sociale. Instabilità alimentata dal crescere di un’economia che crea nuovi “lavori” fuori dalle attuali regolazioni contrattuali e giuridiche». E con questo Loy intende la «gig economy» e il cottimo 2.0: il neo-taylorismo. Se c’è un futuro del lavoro, è questo.
L’OCCUPAZIONE va incrociata con i dati sulla crescita. Per l’Italia è un passo indietro rispetto agli altri paesi (+0,3% congiunturale contro il +0,4% dell’Eurozona) e mantiene il ritmo sostenuto dell’ultimo scorcio del 2017. Ma c’è una contro-indicazione: un’economia fondata sull’export risente del rallentamento del commercio internazionale, dell’euro «pesante» che si rafforza sul dollaro e della tentazione protezionistica il cui vento attraversa i palazzi del potere in tutto il mondo. Potrebbe causare una perdita di prodotto pari allo 0,3% nel 2018 e allo 0,7% nel 2019. Come già attestato dalla Bce e da altre istituzioni, queste incognite rendono pallida la crescita sul medio periodo trainata, all’interno dei confini nazionali, dal precariato strutturale.
LO STALLO POLITICO, la bonaccia economica, l’incertezza esistenziale, la disperazione di un paese congelato nel mutismo. È il nostro Maggio 2018, in Italia.