L’emergenza coronavirus nel nostro Paese ha messo in evidenza le gravi “magagne” che affliggono da decenni ormai il nostro sistema sanitario pubblico. Ad andare in crisi sono stati paradossalmente i sistemi sanitari delle due regioni, Lombardia e Veneto, che dovrebbero rappresentare le eccellenze del settore. Le esigenze di luoghi dedicati agli infettivi negli ospedali, specie nei Pronto Soccorso e l’insufficenza di posti letto per terapie intensive hanno evidenziato le difficoltà di tenuta dell’attuale modello ospedaliero; i ricorrenti timori espressi dai virologi di un rischio collasso se l’infezione da coronavirus dovesse allargarsi oltre le aree attualmente di contenimento rendono altresì chiaro a tutti quanto il sistema sanitario nazionale sia impreparato ad affrontare l’emergenza. Le necessità sanitarie dettate dall’emergenza da coronavirus hanno evidenziato tutti i limiti e l’inadeguatezza della deriva produttivistica e privatistica dell’attuale modello di sanità. Il personale infermieristico, i medici e i ricercatori scientifici, assunti in numero insufficiente ai bisogni della sanità pubblica, con le loro capacità e la loro professionalità, seppur sottopagati e supersfruttati in termini di turni e intensificazione del lavoro, continuano a tenere in piedi questo sistema sanitario anche di fronte a questa emergenza, nascondendo e attenuando in qualche misura la gravità della sua crisi.
Lo fanno, ad esempio, in Veneto e Lombardia, dove da tempo la propaganda leghista esalta un sistema sanitario pubblico-privato d’eccellenza, pur denunciando alla rivista L’Espresso che l’intero sistema sta lavorando in sofferenza al 150% delle capacità reali delle strutture e servizi esistenti. Lo fanno accumulando ferie non godute, svolgendo straordinari continui e raddoppiando i turni di lavoro in corsia e al Pronto Soccorso ma anche usufruendo del contributo dei famigliari dei pazienti che, nei reparti, svolgono funzioni di assistenza ai malati che in altre nazioni svolge esclusivamente il personale infermieristico.
Il contributo nullo della sanità privata all’emergenza Covit-19
L’emergenza coronavirus disvela macroscopicamente l’inutilità della sanità privata per gli interessi reali della salute pubblica. L’apporto delle strutture private, deputate a logiche esclusivamente di profitto, è di fatto nullo se non ininfluente proprio nelle regioni come Veneto e Lombardia dove la loro presenza, finanziata dal contributo pubblico, è più forte e ormai parte di un sistema della sanità misto pubblico-privato governato dalle leggi di mercato. In Lombardia nel 2017 il Gruppo privato San Donato ha ottenuto ricavi per 757,3 milioni di euro da ricoveri e prestazioni, superiori ai 744,1 milioni ottenuti da ben 7 ASL dell’area metropolitana di Milano. E non potrebbe essere altrimenti visto che in una regione le strutture private accreditate per i ricoveri superano quelle pubbliche (50,8% contro il 49,2%).
Per il Veneto un interessante contributo su come il governo regionale abbia in questi anni favorito lo scivolamento progressivo della sanità pubblica a favore della privatizzazione è stato pubblicato da una dottoressa veneta in contropiano.org: blocco progressivo delle assunzioni, oneri economici come quelli assicurativi per i singoli medici assunti, non pagamento degli straordinari, liste di attesa sempre più lunghe e obblighi ai medici di visite non superiori ai 10 minuti per utente, razionalizzazione della rete ospedaliera a favore di specialistiche con scomparsa di reparti, come successo nel padovano per Ginecologia a Piove di Sacco e Pediatria a Camposampiero, taglio dei servizi territoriali dati sempre più in appalto esterno. A fronte di queste operazioni si è avuto un progressivo aumento di convenzioni ai privati con la transmigrazione di medici verso queste strutture che pagano di più per lo stesso lavoro e garantiscono tempi di lavoro meno stressanti e lunghi. Una situazione per altro identica nel resto delle regioni, governate sia dal centro destra che dal centro sinistra.
Tagli alla sanità pubblica e carenza di personale
Ecco spiegato come mai il Veneto, ritenuto un’eccellenza per quanto riguarda la sanità, sconti una carenza strutturale di 1.300 medici con buchi maggiori in Pronto Soccorso e Medicina Generale. Anche in questo caso la carenza di medici è analoga in Lombardia e ancora più grave in molte altre regioni, specie al sud con alcune al semicollasso. Sul territorio nazionale di medici ne mancano almeno 56 mila, al punto che per far fronte al servizio ordinario in più regioni vengono richiamati quelli in pensione. L’età media dei medici in corsia, inoltre, è molto elevata, ben oltre i 50 anni.
Ma negli ultimi 10 anni i tagli alla sanità in Finanziaria sono stati continui raggiungendo la cifra di 37 miliardi di euro, determinando una profonda differenziazione nell’offerta e nella qualità della sanità da regione a regione, tra nord e centro-sud. I tagli e il depauperamento conseguente dei servizi sanitari ha favorito l’imporsi dell’attuale modello produttivista di una sanità pubblica-privata. L’Italia è oggi al penultimo posto in Europa per spesa procapite a favore della sanità, appena sopra alla Grecia; per mettersi al passo con i Paesi europei più virtuosi mancano dai 10 ai 12 miliardi di euro e mancano drammaticamente gli infermieri: in Italia ogni 1000 abitanti ci sono 5,6 infermieri contro i 7,9 del Regno Unito, i 10,5 della Francia e i 12,6 della Germania.
Il Servizio Sanitario Nazione in 10 anni ha perso 70 mila posti letto e secondo una ricerca promossa da Cesas Bocconi tra il 2012 e il 2017 sono stati soppressi 759 reparti ospedalieri (- 5,6%); i posti letto in dotazione sono 3,2 ogni 1000 abitanti contro i 6 della Francia e gli 8 della Germania. Sono stati chiusi i piccoli ospedali concentrando le specializzazioni in poche strutture ma con il 20% in meno delle risorse economiche a disposizione rispetto all’Inghilterra, il 34% in meno rispetto alla Francia e il 45% in meno rispetto alla Germania. Lo Stato investe ogni anno grossomodo 119 miliardi di euro ma i cittadini mettono nel sistema di tasca propria ben 40 miliardi. L’ultima manovra finanziaria su 30,2 miliardi ne ha destinati solo 7 alla sanità e solo lo 0,2% degli investimenti viene destinato alla ricerca.
I limitati posti letto per terapie intensive specchio di un modello di sanità improntato al profitto
Appare chiaro come in questi ultimi decenni la logica del profitto applicata al sistema sanitario abbia favorito da un lato i profitti dei privati e dall’altro vincolato la gestione della sanità, sia ospedaliera che distrettuale, a risparmi di bilancio che hanno ridotto all’osso la funzione di welfare della sanità pubblica. Tiket esosi e costi di degenza ospedaliera a carico dei pazienti, affiancati alla riduzione dei posti letto nelle strutture pubbliche e all’ingigantimento dei tempi di attese per visite e prestazioni anche specialistiche, hanno favorito il dirottamento dell’utenza verso le strutture private; queste hanno visto aumentare i propri profitti e goduto della sempre maggiore dipendenza della domanda di salute dai loro servizi a pagamento. Ecco spiegato allora come una emergenza sicuramente importante come questa del coronavirus ma con numeri non certo stratosferici di ricoverati, riesca a mettere in crisi il sistema sanitario di due regioni come Lombardia e Veneto. Alla data del 3 marzo il numero di contagiati in Italia era di 1.835 ancora in continua crescita; una parte di questi ha bisogno di degenza ospedaliera in reparti per contagiati e una parte minore di terapie intensive. Secondo l’Annuario della sanità 2019, riferito al 2017, i posti letto per terapia intensiva in ospedali pubblici e strutture accreditate è di 5.090 a cui vanno 1.200 posti letto negli ospedali pediatrici. 11 posti letto ogni 100 mila abitanti in linea con la media europea ma in un Paese, l’Italia, decisamente all’avanguardia per numero di anziani ultrasessantenni che sono la categoria più a rischio in questa emergenza, non bastano. Lo conferma la recente decisione del Governo di finanziare il loro ulteriore potenziamento. Gli attuali reparti di terapia intensiva non possono essere completamente dedicati ai colpiti da coronavirus perchè altri pazienti hanno bisogno di usufruirne, per cui il numero di posti letto realmente disponibile secondo gli esperti sanitari si riduce a 2.900 in tutta Italia. Anche il numero di ventilatori polmonari utili per contrastare la patologia virale del Covit-19 dovrà essere di conseguenza aumentato dagli attuali circa 14.000. Nel Lodigiano gli ospedali sono entrati subito in sofferenza proprio per queste carenze e se l’attuale crescita dei contagi continuasse già entro il 15 marzo la disponibilità di posti letto potrebbe essere al punto di saturazione.
Questa situazione con i possibili rischi di saturazione mette chiaramente sotto accusa le scelte politiche e gestionali fatte in questi decenni dalla classe dirigente, di centro destra e centro sinistra, che hanno determinato il progressivo depauperamento finanziario della sanità pubblica a favore della sua sostanziale privatizzazione; politiche miopi che avrebbe dovuto, invece, per tempo mirare al potenziamento effettivo delle strutture pubbliche e attrezzarle a rispondere alle nuove esigenze che questi decenni globalizzati impongono (ricordiamo che le semplici influenze producono ogni anno molti più decessi per causa diretta e indiretta di quelli provocati attualmente dal coronavirus e che epidemie simili a questa, negli ultimi vent’anni, si sono drammaticamente succedute periodicamente; senza dimenticare, infine, le patologie poco raccontate che colpiscono soprattutto gli abitanti della pianura padana provocate dall’inquinamento atmosferico e delle falde acquifere) . E invece ora dobbiamo attrezzarci con le tende della Protezione Civile davanti agli ospedali, con le proposte di hub regionali dedicate agli infettivi sottraendo posti letto ai già pochi a disposizione nel circuito ospedaliero pubblico, con l’allestimento di spazi dedicati agli infettivi nelle caserme e con la richiesta ai medici militari di affiancare quelli civili per coprire le carenze di organico proprio nelle regioni, Lombardia, Veneto e Emilia Romagna capofila della costruzione dell’attuale sistema sanitario pubblico-privato.
Galan, Zaia e la stagione dei project financing
In Veneto la sanità è sempre stata dal 2000 ad oggi saldamente in mano ai partiti di Galan e Zaia; la Lega Nord in particolare ha gestito ininterrottamente dal 2005 sino ad oggi l’Assessorato alla sanità, condividendo con Galan e soci forzisti la stagione degli ospedali in project financing, strumento principe del passaggio dalla sanità pubblica a quella pubblico-privata. Una stagione che ha contribuito non poco a determinare il buco finanziario di denaro pubblico nella sanità. Un esempio su tutti può bastare a fotografare questo passaggio: nel 2010, al momento del primo insediamento del leghista Luca Zaia alla guida del Veneto, la sanità pubblica veneta presentava uno sbilanciamento di 66 milioni di euro rispetto all’anno precedente a favore della sanità privata (+17%) con finanziamenti di gran lunga superiori all’incremento Istat per servizi forniti a cliniche, ospedali e laboratori privati; un peso economico per le casse regionali di 145 milioni di euro all’anno per l’allegro utilizzo del project financing con un aumento degli interessi moratori nei confronti dei fornitori passato da 16,5 milioni di euro a 36 milioni (incremento del 118%). In sede di giudizio sull’ultimo bilancio regionale firmato da Galan, la Corte del Conti lanciava alla nuova giunta Zaia un monito per i guasti prodotti proprio dal largo utilizzo dello strumento del project financing che, solo per la realizzazione dell’Angelo di Mestre, aveva portato la voce “altri oneri” da 900 mila euro a 17,6 milioni e segnalava i rischi derivati dai costi di altre opere già in cantiere come i nuovi ospedali di Castelfranco Veneto, Montebelluna, Treviso e Santorso nel vicentino. Di fronte a tutto ciò nessuna nuova rotta è stata presa dal governatore leghista. Anzi la continuità di indirizzo è stata totale favorendo come già detto interessi e profitti privati e indebolendo la rete ospedaliera diffusa, tacciata di antieconomicità allo scopo di favorire gli investimenti per la costruzione dei grandi ospedali per acuti, dotati di eccellenze specialistiche ma con meno posti letto e servizi di cura generica. Ne ha sofferto anche la rete assistenziale, ridotta, smantellata e ricondotta a cieche esigenze di bilancio e non più in grado di rispondere alle reali esigenze socio-sanitarie, di prevenzione e assistenziali per una popolazione diventata sempre più anziana.
Tolti i veli della retorica sull’ospedale modello della bassa padovana che potrebbe diventare l’hub per infettivi da coronavirus?
L’ospedale per acuti di Schiavonia (Monselice) risponde a questa logica: un nuovo ospedale che ne ha di fatto soppressi 2, uno a Monselice e l’altro a Este; riconvertiti altri due, a Montagnana e Conselve, a semplice funzione di lungodegenza per una utenza distribuita in territorio vasto costituito da ben 46 Comuni con 180 mila abitanti qual era la vecchia USL17, oggi inglobata in quella del capoluogo Padova con ulteriori problematiche. Un’operazione questa che ha ridotto immediatamente la disponibilità di posti letto di alcune centinaia di unità, passata dai 630 posti letto garantiti dalle due vecchie strutture ospedaliere di Monselice e Este a 434 posti letto, ridottisi oggi a 368, a cui va aggiunta la perdita di un primario e il ridimensionamento dei posti letto dell’Area medica e chirurgica. Operazione che ha depotenziato l’offerta ospedaliera sul territorio ma aumentato i costi sanitari: il primo dato emerso dopo l’apertura del nuovo ospedale ha riguardato i costi relativi alla dispersione in altre strutture ospedaliere limitrofe dell’utenza, vista la difficoltà di arrivo nell’ospedale di Schiavonia. A fronte di 23 milioni di entrate per prestazioni a utenza di altre ASL si sono registri 67 milioni di uscite per spese relative a prestazioni fornite all’utenza di questa ASL in altre Aziende.
La prima proposta di bilancio dell’USL17 nel 2015, una volta aperto il nuovo ospedale per acuti di Schiavonia, ha evidenziato subito un buco di 28.746.000 di euro e costi di esercizio di 361.930.000 di euro nonostante le risorse fornite dalla Regione fossero leggermente aumentate rispetto al passato. Costi dovuti ai canoni che l’Azienda si era impegnata a pagare al concessionario privato per ben 26 anni; costi per servizi non sanitari (lavanderia, pulizia, mensa tutti appaltati, per manutenzione e riparazione macchinari) e per servizi sanitari, per bollette e assistenza informatica; costi per trasporti non sanitari e per smaltimento dei rifiuti.
La breve fotografia appena fornita dell’operazione ospedale unico per acuti della bassa padovana è molto simile a quella di altre strutture ospedaliere venete costruite in questo ventennio: denaro pubblico immesso direttamente o attraverso garanzie alle Banche a copertura dei rischi legati agli investimenti privati; costi di costruzione e canone ai privati altissimi per i decenni futuri e cessione di fatto a questi delle prestazioni specialistiche più profittevoli; riduzione dei posti letto e dell’offerta sanitaria, assistenziale e ospedaliera sul territorio; razionalizzazione dei Pronto Soccorso; aumento dei costi di gestione delle strutture. Nel frattempo è cresciuta esponenzialmente l’offerta di servizi sanitari e di specialistica in convenzione e non nelle strutture private e i conseguenti costi per la salute dei cittadini.
Ora si prospetta per l’ospedale di Schiavonia una funzione specifica di cure per gli infettivi da coronavirus (sorta di hub regionale per gli infettivi) con la destinazione di 54 posti letto sottratti ai già pochi esistenti che ha trovato l’opposizione di una parte dei Sindaci del territorio mentre tacciono, obbedienti alla linea del partito, i sindaci leghisti della bassa padovana. Un appello di questi giorni promosso dai consiglieri comunali di minoranza di Monselice che denuncia i rischi per la popolazione connessi a queste scelte e ricorda le tante emergenze sanitarie sottaciute dagli enti di controllo sanitari e ambientali e dalle autorità pubbliche comunali, provinciali e regionali, denunciate invece in questi anni dai comitati e movimenti di cittadini, ha già raccolto migliaia di firme di appoggio.
Vale la pena ricordare, inoltre, che il vecchio ospedale di Monselice aveva, come per altro i vecchi ospedali ritenuti antieconomici, stanze dedicate per gli infettivi che ora dovranno essere create in una rete meno diffusa, in strutture non pensate a questo scopo e ovviamente con costi aggiutivi per la loro creazione e per la ristrutturazione dei Pronto Soccorso al ricevimento anche di utenze da destinare a spazi per infettivi.
Alcune riflessioni finali
Come ricordato prima l’epidemia virale Covid-19 non è la prima che colpisce il mondo globalizzato; prima di questa abbiamo avuto l’epidemia sars e mers, l’epidemia aviaria, quella del virus ebola e dell’HIV, tutte caratterizzate dal “salto di specie” dagli animali all’uomo. E nel mondo globalizzato attuale la loro diffusione è inevitabile e difficilmente contenibile nei soli luoghi di prima contaminazione. Il “salto di specie” è favorito dai cambiamenti climatici indotti dall’azione dell’uomo e dai processi estrattivi di risorse determinati dal sistema capitalistico e, quindi, situazioni simili all’attuale emergenza coronavirus potrebbero realisticamente ripetersi. Tanto più che sembra confermato che fattori di trasmissione di questo tipo di virus possono essere proprio quei sistemi di allevamento intensivo di cui il sistema di distribuzione agroalimentare si giova per la vendita al dettaglio di carne e altri prodotti derivati e che ormai ha colonizzato l’intera pianura padana.
Attrezzarsi semplicemente con spazi ospedalieri dedicati all’emergenza coronavirus come sembra optare il Governo nazionale e regionale continuando a perpetuare un modello della sanità pubblica come l’attuale, non può essere la scelta giusta. Va invece colta l’occasione per rimettere al centro dell’attenzione con la pressione dell’opinione pubblica, con la mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici del settore, con l’azione dei movimenti e dei comitati, il ripristino di una vera sanità pubblica, con personale medico e infermieristico sufficiente, con una rete di assistenza socio sanitaria sul territorio adeguata alle nuove esigenze di una popolazione sempre più anziana, con finanziamenti adeguati alla ricerca e la stabilizzazione in ruolo dei ricercatori. Insomma cambiando radicalmente verso.