Il 2015 si è aperto con le elezioni politiche in Grecia, con la vittoria di Syriza, che ha messo in discussione la gestione della crisi politica ed economica in Europa per mano della Troika e si è chiuso con l’affermazione potente di Podemos in Spagna che ripropone una sfida democratica, dal basso a sinistra, all’impantanamento dell’Europa delle nazioni. In mezzo c’è stato di tutto, dagli entusiasmi per l’oxi greco, al baratro nazional-fascista in Ungheria e Polonia, al ripresentarsi dispiegato della deriva terroristica dell’Islam fondamentalista, al trionfo delle Le Pen, al militarismo autoritario di Hollande, con qualche sprazzo di luce portato dai movimenti a Francoforte e a Parigi.
All’inizio di questo 2016 ci troviamo in Europa, e anche in Italia aldilà dell’ostentata sicurezza di Renzi, di fronte a una situazione contraddistinta da una profonda instabilità dei rapporti di potere istituzionale ed economico, messi alla prova dall’onda d’urto delle migrazioni, dalle guerre ai confini, dalla crescita esponenziale della xenofobia e dalla permanente crisi economica, che ha determinato ovunque in Europa, ma di più in Italia e negli ex paesi orientali, una polarizzazione delle condizione economiche e sociali dei cittadini, con un progressiva riduzione del ceto medio ed una crescita delle fasce di nuova povertà. Un’Europa in cui la democrazia è una parola priva di senso e significato, dove la decisionalità, comunque la si intenda e guardi, è lobbistica e verticale, estremamente rigida ma al contempo fragile ed instabile, come si è detto, dove, quindi lo spazio politico dei movimenti si può dilatare o restringere, essere determinante o irrisorio nel breve volgere del tempo.
Quest’ultima osservazione ci permette di agganciare il nostro terreno di lavoro: il mondo della formazione, in particolare della scuola, che ha vissuto un anno intensamente e pericolosamente, infatti se il 2015 è stato l’anno del risveglio sociale e politico della scuola, altrettanto non si può dirlo dell’università e dintorni.
La lotta di resistenza contro ‘la buona scuola’ di Renzi, già partita in sordina grazie al lavoro certosino dei soliti noti, sindacati di base e associazioni, con il riuso, anche, della legge di iniziativa popolare, da parte di componenti parlamentari sensibili alla decostituzionalizzazione dell’istruzione pubblica, in primavera ha rotto gli argini e ha costretto tutti, compresi i sindacati ufficiali, ad affrontare di petto, con un rifiuto radicale, la proposta governativa. Così è stato prodotto – ripetiamo obtorto collo – lo sciopero del 5 maggio, forse lo sciopero nella scuola più partecipato e definito del dopo ’68, seguito da una insistita iniziativa, delegata al movimento della scuola romano, che ha contestato energicamente fino alla approvazione parlamentare, a luglio inoltrato, della legge 107.
Una lotta, una mobilitazione che ha fatto ben sperare in una riapertura unitaria delle dinamiche di lotta a settembre. Nulla di tutto questo: la legge è diventata a tentoni operativa ma ha inchiodato tutti a fare i conti della serva con essa, bruciando sul tempo ogni tentativo di aggredirla nella sua interezza, tutti assorbiti da assunzioni sbandierate o meno, dall’organico funzionale o potenziato, dall’anno di prova, dal comitato di valutazione, dal ptof. Tutti a doversi misurare e magari distinguere su questo o quello. Renzi ha scommesso sulla forzatura e ha vinto, almeno per ora. È stato un disastro generalizzato promosso dai sindacati ufficiali, cavalcato dall’individualità contrattuale innescata dalla legge 107, dal corporativismo incistato in molte anime della mobilitazione, che ha costretto, dentro tempi lunghi e steccati duri a cadere, le componenti originarie e artefici del movimento della scuola del maggio-luglio 2015.
Il come uscire dall’angolo dove siamo stati ricondotti da questo insieme di fattori è ancora tutto da scoprire e da sperimentare: proviamo a ragionarci. Sicuramente è sentito, aldilà delle urgenti necessità di tenersi il posto fisso [Zalone docet], il tema del reddito [lo ha certificato anche Francesco], quello del potere disciplinare, quello della libertà di insegnamento, quello della partecipazione e cooperazione dentro la scuola: i primi due attengono alla sfera strettamente materiale, gli altri due solo in termini relativi. Se escludiamo che i 500 euri di bonus, elargiti a ottobre da Renzi, abbiano spento la spinta al recupero di uno standard economico decente, ma siano serviti solo a sopire il malcontento serpeggiante, a sganciare definitivamente il sindacato ufficiale dal suo ruolo di esercizio contrattuale e a riaffermare la centralità del potere dispositivo del governo, allora lo spazio sociale per aprire una conflittualità sul reddito esiste, tanto più se viene sincronizzato con l’analoga potenzialità presente in tutto il pubblico impiego e a quello che si muove nel mondo del lavoro in generale. Gli altri aspetti, che possono assumere potenzialmente importante valenza di generalità, rimangono, per ora, invischiati in micro vertenze, in parzialità individualizzate, che stentano nel definirsi come vero terreno di rottura e di conflitto. Gli stessi quesiti referendari in elaborazione, che s’incardinano su tali problematiche, possono diventare uno strumento di raccolta dell’insofferenza collettiva vissuta dal mondo della scuola, ma difficilmente possono essere assunte come proprie, e quindi condivise, dalla maggioranza della cittadinanza, e, se ciò si appalesasse anche attraverso il voto, sarebbe una mazzata definitiva.
Molto più produttivo, e infinitamente meno azzardato, potrebbe essere concentrare le forze e la credibilità acquisita, in parte, fatta propria dai soggetti originari della lotta di maggio, per la riproposizione di un testo condiviso per una LIP, organica per tutto il ciclo scolastico, in grado di abrogare implicitamente e/o esplicitamente i fondamenti aziendalistici, liberistici, decostituzionalistici della legge 107, e che, quindi, potrebbe diventare una bandiera della scuola pubblica ‘bene comune’ della Repubblica da agitare e giocare in tutti gli ambiti sociali ed istituzionali, senza rischiare di essere interpretata come un’autonoma espressione della categoria – con una immagine socialmente incrinata – contro l’autoritarismo aziendalistico.