Cosa resta di due “scioperi generali”? Cosa hanno prodotto in termini politici e di costruzione di rapporti di forza nella società? Quali prospettive per le prossime settimane e mesi hanno aperto? Queste sono le domanda che ogni sindacato che ha indetto o partecipato a tali giornate di mobilitazione dovrebbe porsi e alle quali dovrebbe rispondere in maniera chiara e onesta. Sempre che si creda veramente in ciò che si è – ovvero organizzazioni di base che si pongono come obbiettivo la trasformazione radicale dei rapporti nel mondo del lavoro e nella società – e che si abbia rispetto per quelle lavoratrici e quei lavoratori che il 27 ottobre e il 10 novembre hanno deciso di scioperare e scendere in piazza a partire dalla parola d’ordine “sciopero generale”, aderendo a quelle piattaforme rivendicative.
In realtà, anche questa volta, tra le organizzazioni del sindacalismo di base è prevalso quell’atteggiamento autocelebrativo, consolatorio e mistificante che ha prodotto le solite dichiarazioni roboanti e sterili sullo “sciopero riuscito”, sullo “sciopero che è stato un successo” sulle “centinaia di migliaia” di lavoratori mobilitati. Tutti però attenti ad esaltare la tal specifica situazione aziendale in cui lo sciopero ha registrato una particolarmente adesione o quella la manifestazione territoriale in cui si è riusciti a portare in piazza qualche lavoratore in più.
Proprio questa esaltazione del micro fa emergere però dalla patina retorica quello che non si vuole ammettere o meglio dire.
Innanzitutto che nessuna delle due giornate – come avevamo prospettato alle due cordate sindacali che hanno percorso la strada delle due date (a riguardo si legga https://www.adlcobas.it/A-proposito-dell-assemblea-di-Milano-del-23-Settembre-e-delle-decisioni-prese.html) – è riuscita a produrre uno sciopero generale: non c’è stata la paralisi delle attività produttive e della pubblica amministrazione né delle città, non abbiamo assistito a grandi manifestazioni, non si è attivata una reale dinamica di attrazione di lavoratori non iscritti alle sigle promotrici né un reale sconfinamento dal perimetro sindacale.
Non dobbiamo stupirci quindi se non c’è stata alcuna reazione allarmata da parte del Governo che ha sostanzialmente ignorato gli scioperi e non ha minimamente pensato di prendere in considerazione qualche richiesta posta dallo sciopero, cosa che normalmente le istituzioni di governo fanno quando cercano di ricostruire il consenso o placare il dissenso nei loro confronti. E dare la colpa ai media, che non avrebbero dato adeguata pubblicità e copertura agli scioperi, è nascondersi dietro ad un dito.
Se vogliamo uscire dall’impotenza e provare a mettere in campo iniziative incisive, capaci di portare a casa risultati concreti e contemporaneamente creare i presupposti per future mobilitazioni più partecipate e generalizzate dobbiamo cominciare ad essere onesti e dire le cose come stanno.
Dire che non c’è stato nessuno sciopero generale, tuttavia, non sta a significare che tutti gli scioperi e le manifestazioni sono fallite, anzi, là dove esiste un radicamento reale, come nella logistica, in alcune grandi aziende manifatturiere, nel trasporto pubblico locale (sebbene fortemente depotenziato dalla compresenza di organizzazioni sindacali che si sono divise nelle due date) così come in alcuni comparti del pubblico impiego e nella scuola, abbiamo constatato blocchi reali della produzione e della circolazione delle merci, ad uffici e scuole chiuse. Segnali che fanno ben sperare, ma che per lo più rafforzano percorsi di rivendicazione settoriali, già sedimentati.
Inoltre, ciò che non si è dato a livello nazionale, forse perché evidentemente non ritenuto centrale e strategico dalla stragrande maggioranza del sindacalismo di base, è stato una tensione alla generalizzazione dello sciopero, una concreta apertura ed intreccio della giornata di mobilitazione con altre istanze e movimenti. Pensiamo al nodo dei diritti dei migranti, della cittadinanza e dell’accoglienza degna, come alle tematiche legate al welfare e al reddito, ai problemi degli studenti e in particolare all’alternanza scuola-lavoro, alla lotta ai cambiamenti climatici e alle battaglie ambientali e per i beni comuni, nonché al movimento contro la violenza sulle donne e alle disuguaglianze di genere.
Come ADL COBAS rimaniamo convinti che la prospettiva dell’allargamento e della convergenza dei percorsi di lotta che criticano radicalmente i rapporti sociali e gli effetti distruttivi del capitalismo sia la strada maestra da percorrere, e in quest’ottica vogliamo continuare a lavorare nei territori dove siamo presenti.
Da questo punto visto dobbiamo registrare una distanza politica da gran parte delle organizzazioni sindacali di base: la nostra forma organizzativa, le nostre strategie e spesso gli obiettivi non si conciliano con gli approcci autoreferenziali e dogmatici di quelle organizzazioni che vedono nel lavoro l’unico soggetto e terreno della lotta di classe, ma che allo stesso tempo subordinano la tutela degli interessi dei lavoratori ad una assurda competizione per il monopolio dell’ortodossia sindacale.
Altrettanto distante da noi è l’idea di sindacato che si pone da cinghia di trasmissione per un progetto politico che crede che nella “scorciatoia” del ritorno alla sovranità nazionale come strategia per la costruzione di rapporti di forza più favorevoli o addirittura di una prospettiva “socialista”.
Detto questo riteniamo che il livello di attacco alle condizioni di lavoro e di vita, ai diritti e alle libertà sia tale per cui si debbano fare tutti gli sforzi possibili per ricercare momenti in cui mettere in campo un’unità d’azione tra sindacati di base.
Quest’autunno abbiamo avuto un’opportunità, l’abbiamo persa e quel che resta e sotto gli occhi di tutti. Invitiamo tutti e tutte a riflettere su questo.