Ci sembra doveroso provare ad avviare alcune riflessioni per inquadrare il fenomeno delle nuove migrazioni nel contesto dell’attuale crisi globale e per cercare di capire come muoverci sul piano europeo, nazionale e nei nostri territori. E’ evidente che la questione delle migrazioni oggi ha assunto un peso molto più incisivo , rispetto a qualche anno fa, in relazione non solo agli equilibri politici del “palazzo”, ma soprattutto nei profondi cambiamenti che questo fenomeno sta producendo all’interno delle stesso tessuto di classe. Infatti, all’interno di strati sociali sempre più ampi , si sta producendo uno stravolgimento della percezione del “nemico”, individuato più nel profugo che arriva con il gommone, che nel padrone o nelle scellerate scelte politiche in materia di utilizzo delle risorse economiche.
E’ evidente che per cercare di comprendere il problema e ricercarne possibili soluzioni bisogna sempre partire dalle condizioni materiali per poter spiegare quello che succede nella testa delle persone. Dobbiamo fare lo sforzo di provare ad analizzare il fenomeno delle migrazioni nel nostro paese negli ultimi decenni per coglierne le profonde differenze e cercare di individuare possibili percorsi di lotta che possano, quanto meno, limitare la devastante deriva razzista e xenofoba che sta investendo l’Europa e costruire percorsi futuri in grado di ribaltare questa deriva.
Dobbiamo quindi cercare di capire quali differenze sostanziali esistono tra i flussi migratori verificatisi a partire dai primi anni ‘90 fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo e ciò che sta accadendo in questo secondo decennio e sarà destinato ad accadere ancora per molto tempo. Tutto questo dentro alla crisi epocale che ha investito buona parte del mondo capitalistico con particolare riferimento all’Europa. E’ evidente infatti che il contesto economico nel quale avvengono le migrazioni riveste un significato fondamentale e può spiegare poi anche i cambiamenti di percezione del fenomeno migratorio nelle fasce più sfruttate e povere della popolazione.
SANATORIE, MERCATO DEL LAVORO E CONFLITTI.
A partire dalla Legge Martelli del 1990 i vari governi che si sono succeduti hanno promulgato leggi (prima la Turco-Napolitano e poi la Bossi-Fini, che ricalcava nella sostanza la precedente legge) che hanno sempre cercato di condizionare la regolarizzazione dei migranti alle necessità del mercato del lavoro. Tant’è che il presupposto di queste leggi era che il migrante per potersi regolarizzare era tenuto ad avere un lavoro ed un domicilio. Con questa ottica, governi di centro sinistra e centro destra hanno dato vita a sanatorie cicliche che rispondevano, da una parte, alle necessità del mercato del lavoro, e, dall’altra, erano risposte alle formidabili lotte messe in atto dai migranti stessi, per ottenere il permesso di soggiorno sganciato dal lavoro. La più grande sanatoria di migranti viene fatta nel 2002 dal governo Berlusconi ed ha portato alla regolarizzazione di 700.000 migranti. A partire dal 2006 non si fanno più sanatorie ma si procede con una modalità di regolarizzazione molto più restrittiva che passa attraverso i famigerati “decreti flussi”. Tra il 2006 e gli anni successivi la percentuale di domande di regolarizzazione, presentate attraverso i decreti flussi e accettate, si riduce drasticamente, producendo collateralmente un aumento delle presenze irregolari nel nostro paese. Fino a qui le cause del fenomeno migratorio erano per lo più di carattere economico e socio-politico, solo in minima parte riguardavano cittadini in fuga dalle guerre, richiedenti asilo. Solo con la guerra nella ex Jugoslavia vi è stato un importante flusso di richiedenti asilo o protezione umanitaria, mentre il crollo dell’Albania ha prodotto dopo l’89 un importante flusso di albanesi che fuggivano da un paese che era imploso. Specialmente con l’arrivo dei profughi dalla ex Jugoslavia, di cui una buona parte di origine Rom, si produce un movimento di lotta che rivendica il diritto al riconoscimento di permessi per motivi umanitari e si crea un intreccio virtuoso tra la lotta per il riconoscimento del diritto all’esodo e quella per la conquista di diritti di cittadinanza, attraverso la rivendicazione della chiusura dei campi profughi e l’inserimento come cittadini a tutti gli effetti nelle realtà territoriali.
E’ significativo osservare come man mano che si sviluppa la crisi economica che ha investito tutti i principali paesi europei, le politiche volte a regolarizzare l’immigrazione irregolare accentuino gli aspetti restrittivi in rapporto diretto con l’aumento della disoccupazione. Va comunque sottolineato che i percorsi della regolarizzazione che hanno portato oggi ad una presenza di cittadini stranieri che si avvicina al 10 % della popolazione è stata in buona misura il portato di vari cicli di lotta che hanno messo in primo piano il diritto ad ottenere un permesso di soggiorno sganciato dal lavoro e il diritto alla casa. Le sanatorie sono state l’escamotage ideato dai vari governi per rispondere alle dinamiche conflittuali e per immettere nel mercato del lavoro un certo numero di lavoratori regolari, mantenendo sempre e comunque una certa quota di forza lavoro senza documenti che è andata – e va ancora di più oggi – ad alimentare il mercato del lavoro nero e il lavoro schiavistico. E’ quindi evidente che fino a che il mercato del lavoro, specialmente in alcuni comparti (dalla logistica, alla sanificazione e pulizie, alla metalmeccanica pesante, al welfare familiare, all’agricoltura, al turismo, ecc.) aveva bisogno di forza lavoro, la “governance” dell’economia di mercato era riuscita a condizionare le scelte governative in materia di regolarizzazione, garantendo, in combinazione con le Regioni, le Provincie e le città, un processo di inclusione differenziata. Il razzismo e la xenofobia, profusi a piene mani, specialmente nelle regioni e nelle città governate dalla Lega, serviva a questo scopo: creare piani diversificati di concessione di diritti per i cittadini stranieri.
Pensiamo solo alle politiche in Veneto dei vari Gentilini, che, a fronte di un inserimento massiccio di migranti nel ciclo produttivo di questa Regione, faceva poi sparire le panchine per mantenere vivo il principio di un modello economico che ti accettava come “forza lavoro” ma non come cittadino. In ogni caso, al di là dei molti episodi che pure ci sono stati ma che hanno trovato anche imponenti risposte in termini di mobilitazioni antirazziste, non vi sono stati particolari problemi di inserimento di importanti numeri di migranti in tutto il nord industrializzato. La percentuale di cittadini stranieri nelle principali città del centro nord, da Firenze, a Bologna, a Padova, Treviso, Verona, Milano, Brescia, Torino, varia tra il 15 ed il 18%. Questo è stato possibile soprattutto grazie anche ai formidabili cicli di lotta che si sono susseguiti a partire dall’inizio degli anni 90, da Padova, a Treviso, Verona, Bologna, Brescia, Milano, Torino ecc. Lotte che sono partite dalla rivendicazione del diritto al permesso di soggiorno sganciato dal rapporto di lavoro, alla battaglia per il diritto alla casa, a quella per la chiusura dei CPT, alle molteplici iniziative “No Border”. In questo contesto storico-economico l’intreccio tra soggettività autoctone e migranti si è rivelato determinante ai fini della conquista di reali diritti di cittadinanza ed ha aperto le porte , in un periodo successivo, alla soggettivazione di questa forza lavoro nelle varie forme che ha assunto l’autoorganizzazione sindacale in alcuni settori divenuti – a fronte della delocalizzazione della produzione manifatturiera – strategici nella divisione e frammentazione del lavoro. E’ quindi evidente il nesso tra lotte, conquista di diritti e necessità del mercato del lavoro di assorbire una consistente nuova leva di forza lavoro non sindacalizzata, a basso prezzo, ricattabile e deprivata di ogni diritto. Si può affermare che questo intreccio di elementi ha prodotto una sostanziale conquista di diritti di cittadinanza per quei migranti arrivati nel nostro paese fino al 2007/8 circa, senza produrre significativi conflitti con gli strati sociali più deboli autoctoni.
LA NUOVA FASE DELLE MIGRAZIONI AL TEMPO DELLA CRISI.
A partire dal 2008, le condizioni materiali cambiano in maniera profonda per due ordini di problemi: il primo è che si fa largo una crisi dell’intero sistema economico capitalistico globalizzato, che vede nell’Europa uno dei principali punti di criticità; il secondo è che le guerre fomentate dall’Occidente in molti paesi e la nascita di varie formazioni fondamentaliste in paesi di religione musulmana hanno prodotto una notevole modificazione dei fenomeni migratori paragonabili a veri e propri esodi biblici di intere popolazioni. Basti pensare che i profughi provocati dalle guerre e da fenomeni di crisi alimentari, nei paesi nordafricani, dell’Africa sub sahariana, del Corno d’Africa, del Medio Oriente e dell’Afghanistan, superano i 10 milioni di persone, la maggior parte delle quali cerca di arrivare in Europa, nella speranza di riprendere a vivere.
L’esodo assume così dimensioni europee, nel senso che investe tutti i paesi dell’Europa, e in Italia negli ultimi tre anni l’entità degli sbarchi si è attestata tra i 150.000 del 2015 i 170.000 del 2014 e i 180.000 del 2016 e certamente non è certo destinato a ridimensionarsi nel corso dei prossimi anni.
E’ evidente che la catastrofe umanitaria che è sotto gli occhi di tutti, è frutto di precise scelte politiche motivate da svariate ragioni collegate, da una parte, a quel complesso militare industriale che rappresenta da sempre uno dei motori principali dell’economia americana (e non solo) e, dall’altra, da mire neocoloniali volte ad imporre il controllo sulle fonti energetiche e, forse anche da una buona dose di stupidità di chi governa. La situazione di profonda crisi economica e sociale, – pensiamo solo ai tassi di inoccupazione nei paesi mediterranei che ha investito, come abbiamo accennato, tutti i paesi europei – con l’arrivo di un flusso costante di profughi, ha innescato un mix esplosivo sul piano della reazione della pancia di chi oggi, all’interno del proprio paese vive in modo drammatico le conseguenze di questa crisi, della quale è molto difficile intravederne la fine.
Ciò che sta determinando oggi, rispetto a quello che è successo a partire dal ‘90 fino a circa il 2008, marca la differenza, nel senso che, mentre in quel primo ciclo di grandi migrazioni lo Stato non interveniva nel garantire la sussistenza di chi arrivava, oggi, per le modalità e i numeri completamente diversi degli arrivi via mare e via terra, lo Stato è costretto ad intervenire e ricevere chi arriva come richiedente asilo, garantendogli vitto e alloggio, andando a costruire un sistema di accoglienza che ha prodotto, da un lato un enorme business, e dall’altro un vero e proprio sistema di apartheid. Allo stesso tempo, a fronte della continua emorragia di posti di lavoro, di una disoccupazione giovanile attestata costantemente intorno al 40 %, l’impoverimento generalizzato di categorie inquadrabili tra i cosiddetti “ceti medi”, sono andati crescendo malumori, rabbia e paura che si sono riversati nelle mobilitazioni contro l’arrivo dei profughi, indicando nel profugo o richiedente asilo la causa del proprio malessere sociale. Il tutto, ovviamente anche grazie all’azione di forze xenofobe e razziste che da anni gettano benzina sul fuoco del malessere sociale, indicando come i principali nemici da combattere i profughi.
In particolare al Nord, ma anche al centro e in misura minore al Sud, si sono viste mobilitazioni, anche di un certo peso, contro la creazione di grandi e piccole concentrazioni di richiedenti asilo. In tutto questo, ovviamente, hanno avuto gioco facile la Lega Nord e fascisti di vario tipo. Ma al di là delle facili strumentalizzazioni messe in atto da varie forze politiche, è chiaro che si tratta di un problema oggettivo, di un problema reale: al di là che si dica che i fondi usati per l’accoglienza sono in buona parte europei o che l’accoglienza crea anche posti di lavoro, è evidente che siamo in presenza di una contraddizione oggettiva che, nella vulgata popolar/nazionale, diventa che lo Stato usa i fondi pubblici a beneficio degli “stranieri”, mentre si lasciano alla fame gli “indigeni”.
Non a caso anche negli USA questo tema ha fatto vincere le elezioni a Trump con lo slogan “American first” e con l’impegno a costruire un muro tra gli Stati Uniti ed il Messico, per ribadire che il problema viene da fuori e che se non ci fossero i profughi tutto andrebbe molto meglio. E’ quindi evidente che il fenomeno ha assunto dimensioni globali e si traduce un po’ ovunque nella creazione di muri di vario genere per fermare gli esseri umani, ma non certo le merci. Anzi, riteniamo che le nuove tendenze a voler creare dazi per contenere la circolazione delle merci, in questo mondo sempre più globalizzato, siano destinate al totale fallimento e che quello che a tal proposito, viene sbandierato ai quattro venti da varie forze politiche, sia solo propaganda fine a sé stessa.
Ci troviamo allora di fronte ad una xenofobia che sta portando ad un imbarbarimento della civiltà occidentale, destinato, molto probabilmente, a durare nel tempo, con cui dobbiamo fare i conti e interrogarci per capire come agire in un contesto nel quale le contraddizioni oggettive non sono risolvibili con un tocco di bacchetta magica. La prima domanda che viene da porci è cosa succederà ai milioni di profughi che sono già arrivati e comunque arriveranno in Europa. Cosa succederà a quelli che hanno ottenuto lo status di profugo, o il permesso umanitario o il sussidiario e cosa toccherà a quelli invece che hanno visto e si vedranno respingere la richiesta di asilo? Verranno tutti espulsi come viene proclamato a gran voce un po’ da tutti, oppure andranno ad infoltire le schiere dei nuovi schiavi all’interno del mercato del lavoro? Riusciranno a fermare i barconi e a creare centri di identificazione nei paesi di provenienza? Una cosa è certa: a prescindere dagli accordi che verranno fatti con la Libia, con la Tunisia o con qualsiasi altro paese, difficilmente il flusso di migranti potrà essere fermato, specie per il nostro paese che ha migliaia di km di coste. Un’altra cosa la possiamo dire con tranquillità: il numero delle espulsioni sarà comunque sempre in una percentuale assolutamente irrisoria rispetto agli arrivi. Non siamo in grado di prevedere il futuro, ma quello che possiamo dire, in rapporto a quello che sta già succedendo oggi, è che il meccanismo della “inclusione differenziata” avrà caratteristiche ancora più marcate rispetto al ciclo precedente delle migrazioni che abbiamo conosciuto. Già oggi si sta evidenziando la nuova stratificazione attuata nei confronti dei nuovi arrivati. Da anni ormai il sistema di accoglienza predominante è quello degli HUB, un vero e proprio sistema di apartheid con migliaia di richiedenti asilo ammassati in enormi strutture abbandonate e in condizioni pietose. Non solo la presenza in tali strutture degrada, umilia e spoglia della dignità migliaia di esseri umani, ma nei loro confronti si esercita una sorta di ricatto sociale per cui si vogliono impiegare i richiedenti asili nei cosiddetti “lavori socialmente utili” con l’idea di mettere “al servizio della collettività” una forza lavoro pagata non per il lavoro che fa, ma per il semplice fatto di essere stata accolta in strutture. Questa dinamica ci proietta in un campo che non è più quello del lavoro salariato, ma è altra cosa. Cosa potrà significare questo essere “altra cosa” è tutto da vedere ed è strettamente collegato all’evoluzione del mercato del lavoro e delle infinite forme contrattuali e non esistenti. Ma non solo la presenza in tali strutture degrada, umilia e spoglia della dignità migliaia di esseri umani, nei loro confronti si esercita una sorta di ricatto sociale.
In ogni caso, al di là di ciò che accade nella prima fase dell’accoglienza (ma è una prima fase che può durare anche anni) e che riguarda solo una parte di chi arriva, ciò che sta già accadendo è che esiste un mercato del lavoro, destrutturato e devastato dalla crisi, che ha bisogno di nuovi schiavi. Pensiamo all’agricoltura, dove il fenomeno del caporalato e della riduzione in schiavitù ha assunto proporzioni enormi e non riguarda più solo il Sud ma si sta estendendo anche al Nord, nelle campagne emiliane, lombarde e venete. Un esempio pratico lo abbiamo avuto alle porte di Padova dove una azienda che produce ortaggi per la grande distribuzione dava lavoro a circa 25 lavoratori, tutti stranieri, per 12 ore al giorno, per 6 giorni alla settimana, a 4 € all’ora, tutto compreso e tra questi lavoratori 4 erano privi di documenti. Pensiamo al turismo, dove la stagionalità favorisce l’impiego di manodopera senza alcun diritto. Alla logistica, dove, al di là delle situazioni nelle quali si sono dati percorsi di autoorganizzazione, le forme di caporalato sono diffusissime. Tutto questo ci porta a dire che la presenza di numeri consistenti di potenziale forza lavoro non può far altro che produrre – nelle condizioni materiali del XXI secolo – nuovamente quel fenomeno che abbiamo conosciuto col nome di “esercito industriale di riserva” che indurrà una nuova schiavitù e meno diritti per tutti. Si tratta dello stesso processo messo in atto da tempo sulla riforma del diritto sul lavoro, simboleggiato dal Jobs Act. Più si abbassano i diritti sul piano formale, più si aprono le porte a forme di sfruttamento estremo, già conosciute in altre epoche storiche.
E quando si parla di migrazioni non dobbiamo dimenticare che ormai l’Italia stessa è divenuta nuovamente terra di emigrazione: ogni anno decine di migliaia di persone emigrano altrove, evidentemente come modalità di ricerca di migliori condizioni di vita e come strumento per sottrarsi alle forme estreme di precariato e sfruttamento. Non a caso, in questa catena perversa che i razzisti vogliono creare, in molti paesi europei, i “nemici”, più che i profughi, sono i migranti comunitari, che magari trovano lavoro senza difficoltà ma a cui viene negato l’accesso al welfare.
Ma allora come muoverci in questo contesto così complesso, nella consapevolezza che non esistono soluzioni facili, che non si inverte facilmente una deriva razzista e xenofoba che investe tutto il mondo occidentale?
Possiamo dire intanto, in termini generali ma nel rispetto e nel riconoscimento degli specifici ambiti di intervento, che sarebbe un grave errore separare la questione delle nuove migrazioni da ciò che riguarda le condizioni di vita degli autoctoni. Dobbiamo essere consapevoli che, a differenza del primo ciclo di migrazioni, in cui i migranti sono andati a coprire quei lavori che gli italiani non volevano più fare, oggi il nuovo “esercito industriale di riserva” è composto anche da moltissimi italiani. E’ evidente che le energie che vanno giustamente investite nelle sacrosante battaglie per il diritto ad una degna accoglienza rischiano di risultare inefficaci ai fini di ribaltare la deriva xenofoba, se non si collegano con le battaglie per una degna vita per chi ha perso il reddito, la casa e la dignità. Non tenere nella giusta considerazione questo principio significa rischiare di aumentare le contraddizioni anziché ridurle. Quindi nelle battaglie per una degna accoglienza è necessario agire in un contesto nel quale i diritti devono essere rivendicati per tutti. Come abbiamo sempre sostenuto, la cittadinanza non è qualcosa di già dato, di “scontato”, da estendere ai migranti, ma un terreno di lotta in cui tutti siamo accomunati, per il reddito contro la precarietà, per l’alloggio, la formazione, la sanità, la casa. Oggi, la lotta per la degna accoglienza deve avere come orizzonte costante quella per uno sviluppo che cancelli le “grandi opere”, che assuma la salvaguardia dell’ambiente, la tutela del territorio, la messa in sicurezza del patrimonio abitativo minacciato da terremoti e catastrofi naturali di vario genere, come obiettivi fondamentali di chi si prefigge di cambiare il modello di sviluppo economico. Allo stesso tempo le lotte contro il Jobs act e contro il progetto padronal/governativo volto a cancellare i diritti sui posti di lavoro e a precarizzare l’intera forza lavoro, creando sempre nuove stratificazioni al ribasso dei diritti, diventano un terreno fondamentale anche per poter intercettare tutte quelle nuove forme di lavoro schiavistico, o di “inclusione differenziata” su cui si basa oggi il sistema dell’accoglienza.
Per questi motivi è fondamentale la comprensione, da parte di tutti i soggetti sociali colpiti dalla crisi, che ogni percorso di lotta e di rivendicazione deve includere i nuovi soggetti dello sfruttamento, i profughi: non è solo un minimo livello di etica ed umanità che deve sempre essere difeso, ma anche un interesse specifico per combattere il percorso al ribasso dei diritti, delle tutele e della qualità della vita.
Da questo punto di vista va affermato un principio umanitario irrinunciabile: non possiamo accettare che migliaia di persone vengano ammassate a vivere in condizioni inumane in veri e propri lager, come abbiamo visto, qui in Veneto, a Conetta e Bagnoli. Quindi la battaglia per la chiusura di questi luoghi infami, così come abbiamo fatto in passato per i CPT e dovremo fare per i nuovi centri detentivi ideati da Minniti, deve essere al primo posto nella agenda di tutti noi.
E’ evidente che ci sono grandi difficoltà a vincere una battaglia di questo tipo, in quanto la chiusura degli Hub presuppone una accoglienza diffusa che oggi non c’è. D’altro canto è anche auspicabile che ci sia un protagonismo dei soggetti che vivono in questi lager nell’opporsi al dover vivere in posti simili. Alcune rivolte vi sono state ed è evidente che se questa modalità di accoglienza continuerà nel tempo, si produrranno inevitabilmente altre forme di rivolta. D’altra parte, solo dai conflitti può nascere qualcosa di nuovo. Il sistema dell’Apartheid in Sudafrica non è stato sconfitto con petizioni o con la buona volontà di qualche bianco disposto ad accettare il nero come un suo simile. Quello che possiamo fare noi in questo contesto è di appoggiare tutte quelle iniziative che si muovono nella direzione di denunciare le condizioni che vi sono all’interno di questi campi di concentramento, fornire appoggio legale a chi viene espulso dai lager perché ha osato ribellarsi e appoggiare e sostenere chi riesce a mettere in campo un’accoglienza degna.
In questa direzione si muove anche la necessità di costruire iniziative di mobilitazione, ma anche culturali, che portino a sostenere quei Comuni che accettano il progetto SPRAR, a contestare quei sindaci che vi si oppongono, a contrastare con forza tutte le derive xenofobe e razziste.
Come Adl, in questi ultimi mesi abbiamo cercato di investire in modo più marcato tutta la rete dei nostri delegati e i lavoratori nostri iscritti più in generale, – la maggioranza dei quali sono migranti- partecipando a varie iniziative di lotta e mobilitazione per garantire nuovi diritti per tutti, compresi i profughi. Con questo spirito, ritenendo che oggi siamo all’anno zero per quanto riguarda questa nuova difficile e complicata battaglia per l’inclusione sociale, non solo per i migranti ma per tutti, intendiamo continuare a partecipare a tutte le iniziative che si muovono su questo terreno con un presupposto irrinunciabile che è quello che la battaglia per i diritti deve essere sempre rivendicata per tutti. Siamo anche consapevoli che combattere oggi contro la precarietà, contro le nuove forme di schiavitù, contro il Jobs act, per il diritto alla casa e all’accoglienza per tutti, per un nuovo modello di sviluppo che sappia mettere al primo posto il bene comune e non i profitti, siano gli obiettivi principali sui quali ci stiamo impegnando e sui quali ci impegneremo per il prossimo futuro.