40 anni fa.
Il 7 aprile 1979, scattava in tutt’Italia una operazione di polizia giudiziaria destinata a lasciare il segno nella macro e micro storia del nostro Paese e non solo. Una inchiesta giudiziaria che aveva avuto gestazione, come impianto accusatorio associativo già ne 1977 ma che con il 7 Aprile compie un salto di qualità politico e giudiziario: l’accusa non è il semplice reato di associazione sovversiva ma diventa insurrezione armata contro i poteri dello stato, con l’assunto accusatorio che fa coincidere il presunto vertice dell’Autonomia, anzi una fetta di essa, quella originatasi dallo scioglimento del gruppo dei primi anni ‘70 denominato Potere Operaio, con quello della formazione armata e clandestina nota come Brigate Rosse.
Fu il così detto ‘teorema Calogero’, dal cognome del magistrato Pietro della Procura di Padova, molto noto e stimato, anche negli ambienti dell’allora sinistra per aver indagato sul fascista Ordine Nuovo, sui padovani Freda e Ventura, identificati come gli stragisti della Banca dell’Agricoltura, a Piazza Fontana in Milano, dove nel 1969 morirono 17 persone e oltre 60 furono ferite; attentato che determinò un mutamento generale del conflitto sociale in atto nel Paese, della militanza nel movimento e nei gruppi politici di allora: era l’epoca della strategia della tensione, delle Stragi di Stato, viste le evidenti collusioni tra terroristi neofascisti e servizi segreti, nazionali ed internazionali.
Ci sono chiare le difficoltà di comprendere a fondo il quadro politico, storico e sociale che, con queste poche righe, abbiamo cercato di sintetizzare, contiamo che possano essere lo stimolo per una ricerca, un approfondimento che si può realizzare pescando nella ricca pubblicistica che ruota sia attorno agli avvenimenti storici di quell’epoca, sia in quella che esamina genesi, sviluppo, peculiarità e portato dell’inchiesta e del processo chiamato 7 Aprile.
Un giudice che era, dunque, accreditato quale abile indagatore, considerato un attento democratico, molto vicino al Partito Comunista di allora. Il Partito che per questa inchiesta sull’insorgenza sociale e militante, che si era coagulata attorno alle plurime esperienze territoriali dell’autonomia operaia, bollata da Giorgio Napolitano come espressione di un nuovo diciannovismo, quindi eversiva e para fascista, ha fornito il supporto concreto di tutti il suoi apparati coordinati da ministro degli interni ombra Ugo Pecchioli.
Il teorema politico giudiziario di Pietro Calogero non avrebbe retto ne socialmente, ne politicamente, ne giudiziariamente senza il sostegno a tutti i livelli del PCI di Enrico Berlinguer, che, nemesi della storia, morì proprio a Padova nel 1984. Tutte le fonti testimoniali dell’inchiesta originaria erano iscritti o simpatizzanti di questo partito che, nel passato, avevano attraversato l’esperienza del disciolto Potere Operaio, venendo in contatto con i presunti ideologhi di quella che, poi, è stata l’autonomia operaia, e con la presunta centrale ideologica rappresentato dall’Istituto di Dottrina dello Stato nella Facoltà di Scienze Politiche di Padova.
Da subito, quindi, l’inchiesta 7 Aprile ebbe una connotazione veneta, che si prolungò nel tempo, con varie ondate di arresti nel ’80, ’82, ‘83, man mano che il lavorio della polizia giudiziaria ebbe a produrre nuovi collaboratori disponibili a modellare le loro deposizioni ed informazioni secondo le richieste dei pubblici ministeri.
Un modello d’inchiesta giudiziaria emergenziale, che si impose in tutte le Procure, rovesciando l’onere della prova, comprimendo ogni garanzia propria di uno Stato di diritto, tanto che tali procedure furono denunciate da Amnesty International, dagli studiosi del diritto penale italiano ed europeo, procedure processuali che furono disconosciute da Stati quali la Francia – non a caso oggi sotto pressione dopo il caso Battisti – e il Regno Unito, ma che rimase la modalità di procedere di gran parte della Magistratura fino alle inchieste dette Mani Pulite.
Un’inchiesta che diede il via al così detto ‘processo a mezzo stampa’, di cui vediamo dei miseri scampoli in questi giorni con il caso della professoressa Maria Giacchi: allora e per degli anni, tutta la stampa, con, in prima fila, “L’Unità” sbatteva l’accusato in prima pagina, costruendo spesso una vera e propria gogna mediatica; unica eccezione che vale ricordare fu il quotidiano “il Manifesto” che ospitò le isolate voci di giuristi e studiosi garantisti dello Stato di diritto.
Sono passati 40 anni ed è ancora doloroso e faticoso parlare, discutere, scrivere di quella infame inchiesta, falsa e fuorviante per la comprensione della realtà e dell’insorgenza sociale, soggettiva e militante di allora. Una inchiesta socialmente devastante perché, chiudendo ogni spazio politico, spinse mezza generazione di attivisti politici a compiere una scelta ‘lottarmatista’ che non era per nulla data per scontata.
Pensiamo a quei compagn* che hanno patito il carcere speciale – ora il 41bis -, quell* che sono morti perché non hanno retto o perché la galera fa male fisicamente e psicologicamente, quell* che hanno dovuto fuggire, quell* che hanno perso il lavoro, la famiglia, il contesto amicale e sociale – si parla di una fascia sociale di oltre 100.000 persone.
Sono quell* più ‘sfortunati’ di noi, padovani e veneti, che abbiamo incontrato una conduzione giudiziaria – quella del giudice istruttore Giovanni Palombarini e quella del collegio giudicante di Euro Cera – non sopra le righe, come altrove dove sono stati dispensati secoli di carcere. Ma, soprattutto, noi tutt*, possiamo ritenerci politicamente privilegiati perché abbiamo potuto contare su un potente e complice radicamento sociale territoriale, che ci ha permesso di uscire dalle ondate processuali con le ossa rotte, barcollanti ma integri, possibilitati e capaci di rimetterci – dagli anni ’90 in poi – in cammino – confrontandoci, dialogando, discutendo – con le nuove realtà sociali in movimento per una società rispettosa della natura, dell’ambiente, più giusta e accogliente.
E ancora oggi, dopo che anche la Storia e le micro storie hanno smentito le ipotesi politiche e giudiziarie dell’inchiesta 7 Aprile, ci capita di leggere cazzate complottiste da parte di un supponente mentecatto storico locale e dello stesso Piero Calogero.
Spudorati. Una vergogna per gli storici oltre che per tutta la cittadinanza, che è frutto solo di accidia politica e livore personale. Una vergogna come quella dell’Università di Padova, del suo corpo accademico che, dopo 40 anni, non ha ancora fatto varcare i suoi portoni – diversamente dalle Università di moltissimi Paesi, dagli USA, al Brasile, al Giappone – al professor Antonio Negri.
* Qui, per chi fosse interessato, alleghiamo la memoria collettiva, sottoscritta da un centinaio di imputati, letta all’apertura del processo padovano, nell’aula giudiziaria nel bunker di via 2 Palazzi e una ricostruzione delle fasi processuali e del clima politico che si viveva curata da Luca Barbieri per Carmilla.
** L’immagine dell’articolo è tratta dal fumetto sul processo 7 aprile, sceneggiato e disegnato da Andrea Nese, allora imputato e giovane studente della scuola d’arte P. Selvatico, che ringraziamo.