Nelle giornate tra il 26 e il 27 Novembre, in molte città del Veneto, ad Alessandria, in Emilia e nelle Marche, si sono moltiplicate le iniziative di blocco di magazzini o di sensibilizzazione.
La data non è stata scelta a caso: il Black Friday (che i lavoratori e le lavoratrici di ADL Cobas hanno trasformato in un vero e proprio “Block Friday”), simbolo del consumismo più sfrenato,
per un anno ha parlato anche di diritti dei lavoratori, redistribuzione della ricchezza e di lotte contro il cambiamento climatico, e a farlo sono stati lavorator* e militant*.
In particolare, la giornata si è concentrata su alcuni marchi della grande distribuzione alimentare: la logistica di tale settore è attraversata in questi anni da percorsi di lotta messi in campo da lavoratori e lavoratrici stufi dell’iper-sfruttamento a cui sono sottoposti e dell’arroganza della parte datoriale, che semplicemente non accetta che qualcuno dei suoi sottoposti possa reclamare condizioni di lavoro migliori e uno stipendio più alto, come se fosse un reato di lesa maestà chiedere la giusta redistribuzione di almeno parte della ricchezza che queste aziende hanno accumulato (e continuano ad accumulare) grazie al lavoro di facchini e facchine, e grazie all’ormai arcinoto sistema degli appalti.
La grande distribuzione alimentare peraltro propone un sistema di sviluppo ormai evidentemente inadeguato alla crisi climatica ed ambientale che stiamo vivendo: l’industrializzazione della produzione alimentare, in particolar modo di quella animale, comporta una iper-produzione che ha un impatto devastante sull’ambiente in cui viviamo, senza contare che la continua ricerca dell’aumento di capitali ha portato queste aziende a costruire magazzini sempre più grandi ed un numero sempre più alto di supermercati: ovvero cemento e consumo di suolo.
Ovviamente, il Black Friday è emblema delle grandi aziende di e-commerce, che basano le loro fortune sugli acquisti online e che hanno visto i loro fatturati schizzare alle stelle durante la
pandemia da Covid-19. Le stesse aziende, come Amazon, che hanno un atteggiamento schiavista nei confronti dei lavoratori. Questi ultimi subiscono una sorveglianza distopica, spesso grazie a tecnologie innovative che vengono utilizzate non per facilitare il lavoro ma per rendere i lavoratori sempre più controllati. Tali aziende svolgono anche una feroce attività antisindacale, specialmente contro i sindacati che sono reputati “non graditi”.
In questo contesto, abbiamo visto il blocco del magazzino Maxi Dì di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, il blocco del magazzino Prix di Grisignano (VI) e il blocco del magazzino Vega a Bonisiolo (TV). In tutti i casi le rivendicazioni erano chiare, ovvero maggiore reddito e maggiori diritti per tutte e tutti. A Casale sul Sile (TV), inoltre, l’ADL Cobas ha partecipato al presidio contro la costruzione di un nuovo maxi polo Amazon su 500.000 mq di suolo verde e permeabile.
A Padova, è stata la vertenza Alì a tenere banco: a seguito dell’internalizzazione dei lavoratori, dopo una lunga battaglia contro il sistema truffaldino degli appalti, stiamo assistendo al tentativo nemmeno troppo velato di cancellare l’esperienza di lotta di ADL Cobas all’interno del magazzino, con l’utilizzo di vere e proprie intimidazioni. Per questo è stato deciso il blocco del
magazzino e il lancio della campagna di boicottaggio della catena Alì, con manifestazioni di solidarietà anche a Treviso e Bologna.
Stiamo attraversando una fase straordinaria, in cui abbiamo visto molte delle nostre certezze vacillare a causa di una pandemia che ha colpito e sta colpendo duramente. Questa pandemia,
che ci sta portando in una gravissima crisi economica, ha come causa principale la devastazione ambientale. Nel contesto attuale, se vogliamo che le lotte per il reddito e per una vita degna siano veramente efficaci, se vogliamo costruire gli anticorpi per altre pandemie e per tutto quello che ne consegue, è necessario che le nostre battaglie si leghino con quelle contro la devastazione ambientale. Slegare quindi il reddito dalla crescita economica, che in un contesto capitalista è di per se causa di ulteriore devastazione ambientale e della crisi climatica, diventa quindi il nodo attorno a cui costruire mobilitazioni e lotte, cercando di intersecarle con le battaglie degli attivist* climatic* per rompere definitivamente la contrapposizione tra lotte operaie e lotte ambientaliste tramite piattaforme miranti alla redistribuzione della ricchezza, la riduzione dell’orario di lavoro e la conversione a produzioni sostenibili e sempre meno mercificate. Cosa ce ne facciamo di qualche euro in più in busta paga se poi veniamo avvelenati dal nostro stesso lavoro?