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ADL Cobas > Blog > Associazione Diritti Lavoratori > I (NE)FASTI DI ZAIA
Associazione Diritti Lavoratori

I (NE)FASTI DI ZAIA

adlcobas
di adlcobas Pubblicato 17 Maggio 2020 1.3k Visualizzazioni 10 minuti di lettura
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10 minuti di lettura
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ZAIA NELL’INTERVISTA A LA REPUBBICA SI ATTACCA AL PETTO LE MEDAGLIE MA LE COSE NON STANNO PROPRIO COME LUI LE DESCRIVE

Il nuovo corso del giornale La Repubblica dedica sabato 16 maggio 2020 un’intervista a tutta pagina al presidente regionale del Veneto Luca Zaia per celebrarne la fama. Già il titolo – “Zaia ” – evidenzia l’intento del giornale ma sono alcuni passaggi dell’intervista a celebrarne i fasti di unico, efficace difensore dei propri cittadini dalla pandemia da covid-19. Alla domanda se il modello Veneto (inteso come sistema di risposta alla pandemia) sia merito suo o del prof. Crisanti, Zaia risponde (modesto!) “E’ merito della mia squadra. Crisanti è arrivato dopo” e alla richiesta di spiegazione dichiara: “Noi eravamo pronti da un mese, grazie alla professoressa Russo, una catanese (era necessario specificarne l’origine?) che dirige il Dipartimento di prevenzione. Quando c’è stato il primo caso a Vò, io un’ora dopo a Padova avevo davanti a me la task force. Quella sera, contro la volontà del tavolo, ho deciso tre cose”. Quali chiede l’intervistatore: “Tamponi per tutti”, la chiusura dell’ospedale di Schiavonia e le tende riscadalte fuori degli ospedali per il triage. Zaia chiude il passaggio con una frecciata all’OMS dicendo che questa lo ritenesse esagerato mentre “Noi il virus siamo andati a cercarlo” chiosa.
Le cose però non sembra siano andate proprio così; di errori ce ne sono stati molti nei mesi antecedenti all’inizio dell’emergenza sanitaria in Italia, fatti da tante istituzioni e anche dallo stesso Zaia che nell’intervista si appunta tutte le stellette.

La sequenza dell’emergenza pandemica da covid-19 parte il 31 dicembre 2019, giorno in cui le autorità cinesi comunicano che a Wuhan era esploso un grave focolaio di polmonite di natura ignota che una settimana dopo gli scienziati cinesi indentificano come un coronavirus pubblicandone il genoma e l’OMS conferma che si trattava di un ceppo nuovo. I primi due casi in Italia sono quelli di una coppia di turisti cinesi subito ricoverati il 29 gennaio 2020 allo Spallanzani di Roma; il 30 gennaio il governo blocca i voli con la Cina e il giorno dopo proclama l’emergenza sanitaria. Ma i primi contagiati italiani vengono scoperti il 20 e 21 febbraio a Codogno in Lombardia e a Vò Euganeo in Veneto. Un interessante articolo pubblicato dall’Espresso del 26 aprile 2020 rivela che i primi due casi italiani “emergono grazie alla disobbedienza di due medici, un professore e una dottoressa, che eseguono la prova del tampone nonostante le direttive di segno opposto”.
Secondo le direttive vigenti i tamponi non dovevano essere fatti. In Veneto il prof. Crisanti che dirigeva il Dipartimento di microbiologia e virologia dell’Università degli studi di Padova decise di forzare le regole e di sottoporre a test il pensionato di Vò che sarà, purtroppo, il primo caso covid-19 in Veneto e il primo morto per contagio in Italia. In Lombardia a forzare le regole è, invece, la dottoressa anestesista Malara che si assume la responsabilità di fare il test al malato ricoverato all’ospedale di Codogno.
L’Espresso rivela che in Veneto Crisanti aveva già da metà gennaio elaborato un test con tampone naso-faringeo proponendo di somministrarlo a studenti e docenti veneti di ritorno dalla Cina; il 29 gennaio, quando non esistono ancora linee guida nazionali, con il placet dell’ateneo padovano istituisce un numero verde per il test invitando i controllati a rimanere a casa in attesa dei risultati anche se in assenza di tosse e febbre. “L’iniziativa entusiasmo la comunità cinese che scrive al virologo per ringraziarlo” scrivono i due giornalisti ma scatena una reazione negativa da parte del direttore generale della sanità veneta Domenico Mantoan, “gran capo degli ospedali veneti” e “presidente dell’Agenzia nazionale per i farmaci (Aifa)” che l’11 febbraio manda a Crisanti per lettera una diffida chiedendo “sulla base di quali indicazioni ministeriali o internazionali” abbia deciso di fare quei tamponi. Gli prospetta una possibile denuncia per danno erariale e che “ogni spesa associata a soggetti asintomatici non rientra tra le prestazioni coperte dal servizio sanitario nazionale”. Domenico Mantoan è l’uomo forte della sanità venete, da vent’anni feudo della Lega. E’ lo stesso che in una recente intervista a Il Mattino di Padova del 14 maggio 2020 denunciava i tagli alla sanità e esaltava il Veneto come modello innovativo e a posteriori la scelta di fare tamponi, dimenticando la lunga stagione dei project financing e dei buchi nei bilanci delle Aziende sanitarie per le scelte regionali.

Dalle notizie riportate da L’Espresso apprendiamo, quindi, che il professor Crisanti “non è arrivato dopo” come dichiarato da Zaia a La Repubblica ma ben prima di tutti e che il suo uomo di punta nella sanità veneta, Mantoan, lo aveva diffidato duramente per aver forzato le regole. L’applicazione dei tamponi rivelatasi una mossa giusta è più farina del sacco di Crisanti che non del governo regionale della sanità e onestà vorrebbe che fosse dichiarato dal Presidente invece di intestarsi tutti i meriti. Anche perchè la sequenza di sue dichiarazioni tra febbraio e marzo, allo scoppio dell’epidemia e dell’emergenza, non brilla per coerenza e indirizzi fermi e precisi come parrebbe essere dalle sue dichiarazioni nell’intervista sopra citata. Basta scorrerle per capirlo:

-ISEE-
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23 febbraio “E’ l’emergenza sanitaria più grave mai vissuta”
27 febbraio “La situazione sotto controllo, scuole aperte lunedì”
28 febbraio “No alla psicosi, è una pandemia mediatica”
29 febbraio “Veneto in emergenza, è chiaro”
3 marzo “Trend assolutazione sostenibile, la sanità tiene”
5 marzo “L’intero Veneto va considerato zona rossa”
8 marzo “No al Veneto zona rossa”
9 marzo “Chiudere tutto può essere utile”

Va concesso a Zaia di aver avuto l’intuizione di affidarsi poi a una equipe di virologi e medici capaci e in grado di cogliere prima di altri la gravità della situazione e la necessità di alcune soluzioni ma non può certo ergersi a “unto dal Signore” per la direzione di una sanità, quella veneta, non esente dalle magagne di un sistema gravato dai guasti di una gestione pubblico-privata che riguarda tutte le regioni.
La scelta poi di destinare l’ospedale di Schiavonia ad Hub Ospital covid-19 per la provincia di Padova privando 46 Comuni e poco più di 180 mila abitanti di ogni altro servizio ospedaliero mentre si potevano ripristinare spazi ospedalieri chiusi a Monselice e Este o scegliere altre parti dell’ASL 6, meno densamente abitate e disperse chilometricamente e servite da più ospedali, come destinazioni di un hub per i contagiati, non è certo stata così centrata e fondamentale come dichiara Zaia. Anzi la contestazione a questa scelta da parte del territorio e della gran parte dei sindaci della bassa padovana lo ha dimostrato e i dati che stanno emergendo sulla mortalità per patologie diverse dal covid-19, dovuti in questa parte della provincia alla sottrazione di tutti gli altri servizi forniti fino a quel momento dall’ospedale di Schiavonia dovrebbero abbassare di tono ogni tipo di trionfalismo.

La sanità veneta è sicuramente migliore di altre sanità regionali ma l’indirizzo privatistico che scarica i costi sui cittadini e garantisce ai privati utili importanti e di godere dei guadagni derivanti della stagione degli ospedali costruiti in project financing o in altre formule simili è anche in Veneto evidente. E non si venga a dire che è tutta colpa di Galan perchè la Lega e Zaia gli sono stati compari per decenni. Così come nel resto del Paese anche questa regione soffre per carenze pesanti nei servizi sanitari territoriali e per i costi elevati a carico degli anziani per l’accesso a rsa e case di riposto. C’è poco da esultare quindi!

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