Il testo approvato da Confindustria e Cgil, Cisl, e Uil del 28 febbraio fa seguito all’accordo chiamato “Testo unico sulla rappresentanza” del gennaio del 2014. E’ evidente che la strada imboccata dalla triplice sindacale e da Confindustria è indirizzata sempre di più a produrre un processo di neo corporativizzazione delle relazioni industriali, all’interno del quale le parti si rapportano sempre di più in una relazione che tende ad escludere il conflitto dal rapporto capitale/lavoro. Nella parte nella quale si parla delle ragioni che hanno portato a questo documento si afferma esplicitamente che “ le parti sono convinte che avere relazioni industriali autorevoli, dinamiche e qualificate costituisca un fattore di sviluppo,capace di incidere positivamente su un sistema economico produttivo che deve essere in grado di vincere le sfide poste dai mercati sempre più globalizzati,dalla tecnologia e dai conseguenti cambiamenti del lavoro”. Il documento va quindi a definire le linee guida che andranno a tracciare le modalità delle relazioni industriali.
Nella illustrazione del contesto in cui si colloca l’accordo si parla di “implementazione degli investimenti, di innovazione, sostegno alla domanda, potenziamento delle infrastrutture, ruolo della scuola, riduzione dei differenziali retributivi di genere, di contrasto al lavoro irregolare, di formazione continua, di investimenti in ricerca e sviluppo, forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa, di rilancio della domanda interna.” Insomma, la solita melassa che viene scritta in tutti i documenti programmatici che non significano assolutamente nulla.
Nel contesto indicato sono tre invece gli obiettivi che Confindustria, Cgil, Cisl e Uil individuano, ma che rientrano sempre nella stessa fumosa paccottiglia delle buone intenzioni: una strategia comune di sviluppo basata su ricerca e innovazione con investimenti soprattutto nel mezzogiorno, valorizzando la contrattazione di secondo livello. Favorire l’inserimento dei giovani e delle donne e rafforzamento del modello di relazioni sindacali innovativo e partecipativo per sostenere la competitività.
Ma veniamo alla parte relativa a “Democrazia e misura della rappresentanza”.
Si riconferma in pieno la validità e l’importanza del famigerato Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio del 2014 e questo nuovo documento cerca di impedire che si possa scalfire il monopolio della contrattazione nazionale in mano a CGIL CISl e UIL e a Confindustria. Inoltre si invita il parlamento a recepire le intese in materia di rappresentanza in modo tale che quanto definito dagli accordi diventi legge. Vi è piena condivisione tra i firmatari di questo accordo circa il fatto che debba essere data piena attuazione all’intero Testo Unico sulla Rappresentanza orientato alla prevenzione dei conflitti. In questi passaggi risulta evidente ancora di più la visione neocorporativa del rapporto tra capitale e lavoro , che diventa oggi ancora più grave, visti gli enormi processi di riorganizzazione capitalistica volti a rendere sempre più precario e sottopagato il lavoro e ad aumentare l’oggettiva contrapposizione di interessi.
Vengono coniati anche nuovi neologismi che, formulati in lingua ibrida, inglese e italiano, hanno anche un effetto enfatico maggiore. Si parla nel capitolo dedicato alla “regolazione degli assetti e dei contenuti della contrattazione collettiva” di “governance adattabile”, che tradotto significa che bisognerà adattare la contrattazione nazionale e aziendale alle mille variabili che si potranno determinare a seguito dei processi di ristrutturazione capitalistica, andando a definire il TEC (trattamento economico complessivo) e il TEM (trattamento economico minimo). Il TEC comprenderà il TEM e tutte le variabili comprese anche le eventuali forme di Welfare aziendale. In questo processo si accenna anche alla possibilità di coinvolgimento dei lavoratori stessi nella definizione degli obiettivi aziendali. Della serie siamo tutti nella stessa barca e interesse del capitale ed interesse del lavoratore combaciano perfettamente. E qui una piccola annotazione che riguarda l’attuale distribuzione della ricchezza. Come mai ogni due giorni appare un nuovo miliardario e l’1% della popolazione più ricca si è intascato l’82% della ricchezza prodotta in un anno. Mentre 789 milioni di persone sono in “povertà estrema”. Il rapporto “Ricompensare il lavoro, non la ricchezza” denuncia la disuguaglianza nel mondo. Italia compresa.. Dove l’1% più ricco della popolazione si è accaparrato in un anno l’82% dell’incremento della ricchezza netta, contro i 3,7 miliardi di persone più povere, a cui non è arrivato neppure un centesimo (dati marzo 2016-marzo 2017). Una fotografia sulla disuguaglianza che sottolinea come la ricchezza dei miliardari – legata molto più a posizioni di rendita che alla fatica del proprio lavoro – sia aumentata del 13% l’anno tra il 2006 e il 2015. Sei volte più in fretta di quanto siano cresciuti i salari dei lavoratori.
Ma se è così, come si può pensare di far coincidere gli interessi del padrone con quello dell’operaio? Si tratta di un contraddizione in termini, che oggi risulta ancora più evidente alla luce dei dati materiali di ciò che produce il lavoro.
Vi è poi tutta una parte dedicata alle relazioni industriali che riguardano Welfare, Formazione e competenza, Sicurezza sul lavoro, Mercato del lavoro e Partecipazione. Per quanto riguarda il Welfare è evidente che, al di là sempre delle buone intenzioni, che portano a dire alla triplice che il welfare pubblico deve rimanere il pilastro, poi, di fatto, attraverso la bilateralità si va ad incrementare in modo sempre più massiccio la previdenza integrativa e l’assistenza sanitaria integrativa, andando ad ingrossare quegli enti bilaterali che garantiscono nuove opportunità economiche ai funzionari dei sindacati confederali.
Sulla problematica della formazione balza agli occhi immediatamente la centralità dei percorsi di alternanza scuola-lavoro e di apprendistato, che, come è noto sono quelle forme che vengono usate per garantire all’azienda forza lavoro gratuita o falsamente inserita come apprendistato, ma utilizzata come operai a tutti gli effetti. La cosiddetta “impresa 4.0” avrà sempre di più l’opportunità di attingere dagli istituti tecnici superiori per avere manovalanza gratuitamente, mentre il rapporto con l’Università è visto in chiave di uso ai fini delle innovazioni tecnologiche, sempre a costo zero. Vengono previsti “fondi interprofessionali per una formazione permanente – dicono – quale garanzia per l’occupazione stabile. Anche qui, a fronte dei processi inarrestabili di delocalizzazione e di estensione di nuove e infinite forme di contratti precari, questo progetto si rivela quasi ridicolo. In tutto questo un ruolo importante viene affidato a Fondimpresa che dovrebbe essere il punto di riferimento per il business della riqualificazione professionale. Altro carrozzone che raccatta soldi da più parti, anche da fondi pubblici, e non garantisce inserimenti lavorativi alla fine dei corsi di riqualificazione.
Per quanto riguarda poi Sicurezza sul lavoro, Mercato del lavoro e Partecipazione si sprecano tante parole per non dire niente di nuovo rispetto all’esistente. Salvo il condividere la necessità di introdurre un Assegno di Ricollocazione (ADR) su base volontaria in caso di crisi aziendali. La realtà è che la sicurezza nei posti di lavoro, in relazione alla continua precarizzazione introdotta anche con il Jobs Act, aumenta inevitabilmente il livello di ricattabilità e quindi abbassa i livelli di sicurezza sul lavoro.
Il capitolo finale sulla partecipazione delinea un quadro idilliaco delle future relazioni industriali che dovranno essere improntate sempre di più alla partecipazione organizzativa dei lavoratori ai processi produttivi.
Potrà funzionare questo modello di relazioni industriali sempre più orientato verso un modello neocorporativo? E’ chiaro che si tratta di un progetto politico ambizioso, ma che fa i conti oggi con processi di ristrutturazione del mercato del lavoro che mettono in discussione tutti i giorni l’impianto di questi accordi. Sta comunque alla soggettività operaia il compito di combatterlo e di imporre con il conflitto migliori condizioni lavorative e garanzie di reddito anche in caso di crisi aziendali.