Stiamo attraversando un periodo molto difficile e complicato a livello globale: cupi scenari appaiono sia sul quadrante mediorientale sia su quello europeo, mentre grandi turbolenze si riproducono senza soluzione di continuità nel mondo dell’economia e della finanza, facendo emergere la fragilità di un modello di sviluppo sempre meno sostenibile. La crisi sta diventando la forma contemporanea stabile di gestione del dominio sulla vita delle persone.
Contestualmente all’aumento dell’instabilità dei mercati, delle crisi in atto e degli scenari di guerra ispirati da contrapposti impianti ideologici – vedi guerre tra lo Stato Islamico e/o Al Kaeda da una parte e occidente dall’altra – siamo in presenza di nuovi esodi biblici destinati a continuare nel tempo. E a tutto ciò si va a sommare l’inesorabile processo di peggioramento delle condizioni di vita dovuto all’inquinamento del pianeta e dal conseguente surriscaldamento dello stesso, che a sua volta provoca altri esodi di portata enorme. Non c’è nessuna differenza tra chi scappa dalle guerre e chi scappa dal proprio paese a seguito dei mutamenti climatici.
A tutto questo, oggi, l’Europa risponde con nuove barriere. Barriere che attraversano lo spazio europeo, rinchiudendo i diritti di tutti e tutte in spazi sempre più angusti. L’Europa, mai come ora, sta facendo vedere qual è il suo vero volto: se da un lato i dispositivi attuati per risolvere la crisi dei migranti sono legati esclusivamente al minare le basi del diritto d’asilo e all’escludere fisicamente dai confini nazionali i milioni di migranti che stanno guardando al Vecchio Continente come luogo di salvezza e di vita attiva, dall’altro il mantra neoliberista e le politiche d’austerità coincidono con lo smantellamento del diritto del lavoro e la dismissione di welfare.
Dalla Commissione Europea agli assessorati cittadini, tutti i livelli istituzionali stanno lavorando a ritmo serrato producendo dispositivi fisici e giuridici atti a diminuire ogni tutela esistente e ridurre complessivamente il numero di coloro che ne possono fruire. Così come il filo spinato che sigilla i confini non fa che aumentare il numero di chi preme alle porte della Fortezza Europa, allo stesso modo le riforme al diritto del lavoro non fanno che aumentare il numero degli esclusi e non tutelati, generando sfruttamento e nuova povertà. La misura in cui tutte e tutti siamo spogliati del diritto di cittadinanza non è data dalla posizione formale, dall’avere o meno un contratto di lavoro o un documento che permette di restare dentro il perimetro dell’Unione Europea.
Ciò che conta sono le condizioni materiali: le tutele crescenti introdotte con il Jobs Act dicono chiaramente che si inizia un lavoro senza tutela alcuna, la flessibilità del mercato del lavoro dice chiaramente che si può essere espulsi da un’impresa per il capriccio di un amministratore delegato, esattamente come è pura discrezionalità di un funzionario rigettare una domanda di asilo politico o di soggiorno umanitario.
Sempre meno persone possono dire di essere cittadini a pieno titolo. Il termine stesso “cittadinanza” è sempre più svuotato di ogni significato concreto, di ogni attinenza materiale; essere o meno cittadino sta diventando una mera questione burocratica.
Ebbene, dentro questa trasformazione si stanno imponendo percorsi di lotta e solidarietà che vanno sostenuti e aiutati a crescere.
I conflitti sul lavoro giungono in questi giorni alle fasi più dure in particolare nel settore della logistica e, dove la determinazione di centinaia di lavoratori non si arrende alle trattative-truffa, viene fatta intervenire la polizia, spostando l’asse della vertenza su un lato strettamente repressivo.
La giornata del 5 febbraio al deposito Prix di Grisignano parla di questo, di come la lotta per i propri diritti sia ritenuta semplicemente come un impedimento al profitto, e – di conseguenza – un problema da rimuovere con ogni mezzo. Ma quella giornata è stata piena della rabbia di decine e decine di donne e uomini che si battono ogni giorno per vedere rispettata la propria dignità, quella stessa dignità umana che vediamo negata in chi rimane impigliato nel filo spinato mentre sfugge dalla guerra, in tutti coloro che non hanno una casa, in coloro ai quali viene rifiutato l’asilo politico.
Per questi non resta che l’espulsione, o la permanenza in clandestinità: condannati senza appello ad essere poveri ed invisibili, criminalizzati per il solo fatto di esistere.
Le politiche migratorie volte alla chiusura dei confini sviluppate in tutti gli Stati e discusse a livello continentale alimentano e si nutrono di paure e di xenofobia: ma se le istituzioni oppongono un netto rifiuto all’apertura di un canale umanitario, le forze vive della società hanno espresso nell’ultimo anno una quantità di iniziative forse inedita. Attraverso i Balcani così come nelle nostre città una fitta rete di sostegno attivo sta affiancando le centinaia di migliaia di nuovi poveri che già abitano da tempo nei territori o che sino in marcia verso il Nord Europa. Nelle nostre città in particolare migliaia di persone hanno donato indumenti, messo a disposizione tempo e saperi per accogliere ed includere nel nostro tessuto sociale chi non conosce la nostra lingua, non ha casa, non sa come affrontare i piccoli e grandi problemi quotidiani. È giusto che tutte e tutti coloro che contribuiscono nel silenzio possano riprendere voce e visibilità: se nei nostri territori un dispositivo umanitario esiste è solo grazie al loro sforzo.
Crediamo che sia tempo di riprendere voce, visibilità ed organizzarci per riconquistare materialmente gli elementi che costituiscono i diritti di cittadinanza: dalla casa alla difesa della dignità e del salario sul lavoro, per un welfare universale e per chiedere ancora con forza l’apertura di un canale umanitario, perché nessuno sia clandestino.
Il 1° marzo è da anni il giorno dedicato ai migranti che debbono divenire i nuovi cittadini, non i nuovi poveri. In tutti i territori e nelle città sarà importante scendere in piazza reclamando la pienezza del diritto di cittadinanza, e contestando i meccanismi di esclusione ed espulsione, come le commissioni territoriali di valutazione delle richieste di asilo politico.
Ma crediamo che si imponga la necessità di compiere un passo in più. L’apertura di un canale umanitario è impossibile se i confini tra Stati sono sigillati dalle reti, e le iniziative attorno a questi confini si stanno moltiplicando. Crediamo inoltre che, oltre a coordinare le iniziative nelle singole città per il 1° marzo, si possa immaginare un momento regionale in cui tessere un ragionamento complessivo e rilanciare iniziative di lotta e solidarietà.
Per aprire una discussione comune e costruire insieme una settimana di iniziative vi proponiamo di incontrarci a Padova, al CSO Pedro in via Ticino 5, LUNEDI’ 22 febbraio alle ore 21.
Per i diritti di cittadinanza
Centri Sociali del Nord-Est
ADL COBAS
BiosLab
Comitato lasciateci respirare – Monselice
Bassa Padovana Accoglie
Opzione Zero
Associazione Razzismo Stop
Scuola di italiano Libera la parola
Cobas Scuola