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ADL Cobas > Blog > Approfondimenti > Venerdì nero, salari in rosso
Approfondimenti

Venerdì nero, salari in rosso

adlcobas
di adlcobas Pubblicato 24 Novembre 2018 1.3k Visualizzazioni 20 minuti di lettura
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20 minuti di lettura
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Ecco il Black Friday. Intanto, Amazon aumenta il salario dei propri dipendenti negli Stati uniti e in Uk. Negli Usa è la risposta alla pressione del movimento Fight for 15 e di Sanders. Ma rientrano in una strategia di sviluppo monopolistico
Oggi è il Black Friday: è la data che negli Stati uniti segue il “giorno del ringraziamento”. Cominciano gli acquisti natalizi, si offrono sostanziosi sconti, si prospettano indicatori sull’andamento del commercio. Da qualche anno, grazie al commercio online, il venerdì che segue il terzo giovedì del mese di novembre è diventato cruciale anche per i consumatori italiani. E il colosso che ha reso la data globale è senza dubbio amazon.com. Il gigante di Jeff Bezos proprio il mese scorso è tornato a far parlare di sé e proprio per un’innovazione scattata in questi giorni. Stavolta non si tratta di una nuova acquisizione miliardaria o del brevetto di un nuovo robot. Per la prima volta l’azienda fondata a Seattle nel 1994, annuncia di voler aumentare il salario minimo orario dei propri dipendenti (a tempo pieno, parziale e in somministrazione) negli Stati uniti, da 11 a 15 dollari, e in Gran Bretagna, da 7 a 11 sterline.

Amazon ha annunciato gli aumenti martedì 2 ottobre sorprendendo il pubblico. Pare una notizia apprezzabile, ma per comprendere appieno questa storia bisogna sapere che ha diversi antefatti, ciascuno in grado di gettare luce sugli aspetti molteplici di questa scelta. Essi riguardano sia la vita interna della multinazionale americana che il contesto economico e politico degli Stati uniti.

Capitale e lavoro dopo la crisi
Negli Stati uniti la Grande recessione è terminata ufficialmente nel giugno 2009. Dopo aver attraversato otto anni di leggera ma costante espansione, alla fine del 2017 l’economia si è completamente ripresa dal tracollo. Soltanto che questa ripresa non ha avuto un effetto positivo sui salari. Così, se i salari medi nominali sono aumentati costantemente (oggi siamo a 24 dollari orari), i salari reali sono al palo dalla fine degli anni Settanta, e della poca crescita che c’è stata hanno beneficiato soprattutto quelli che già guadagnavano molto. Inoltre il tasso di sindacalizzazione ha continuato a calare, nonostante il processo di rivitalizzazione sindacale che hanno caratterizzato i primi due decenni degli anni 2000. Nel frattempo, la disoccupazione è tornata ai minimi degli ultimi trent’anni, con un tasso inferiore al 4% il mercato del lavoro si fa sempre più “teso” (“tight”): i datori di lavoro aumentano la loro attività e la forza-lavoro comincia a scarseggiare. Soprattutto in alcuni settori come quello dello logistica, che ha conosciuto una forte espansione, la ricerca di manodopera si è intensificata.

Ecco una prima spiegazione degli aumenti di Amazon: bisogna attirare forza lavoro, soprattutto quella meno qualificata, da impiegare nei suoi grandi centri di distribuzione (dove vengono stoccate le merci vendute sul sito). L’aumento riguarda i minimi salariali, o “salario di entrata”, quello base che viene percepito dai dipendenti appena assunti, siano essi full-time, part-time o somministrati da un’agenzia di lavoro temporaneo. La figura che beneficerà dei nuovi minimi assume i contorni del working poor, il lavoratore povero, precario, che alterna periodi di disoccupazione ad altri in cui si accumulano più lavori part-time. A questa forza lavoro Amazon offre un salario d’ingresso relativamente alto e un posto di lavoro con prospettive realistiche di stabilizzazione. Un’offerta allettante con cui Amazon spera non solo di poter alimentare il proprio fabbisogno in vista del picco invernale di attività, che comincia proprio con il Black friday, ma anche di lasciare sguarniti i ranghi della concorrenza, altri giganti del commercio come Walmart, Target, Kroger , e della logistica come Fedex, Ups e l’US Postal Service.

-ISEE-
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Jeff Bezos feels the Bern
La seconda spiegazione ha che fare con il fattore-Sanders e la pressione politica e mediatica che negli ultimi anni si è andata intensificando su Amazon.

Lo sviluppo impetuoso che l’azienda di Bezos ha conosciuto nell’ultimo decennio in America è percepito da molti come una minaccia. Questo perché ha aperto sempre nuovi fronti di espansione. Si è trattato di una scommessa che non tutti avrebbero avuto il coraggio di fare, ma che al momento sta premiando Amazon. Come giustamente ha notato Lina Khan, Amazon riesce a far leva sulla posizione dominante in un settore per espugnarne uno limitrofo, imponendo il conflitto d’interesse come regola. Naturalmente ciò suscita delle reazioni. Da un lato i piccoli negozi, ma anche le catene di taglia medio-grande, minacciati dall’espansione del commercio on line, in cui Amazon è il dominatore indiscusso (si stima che quasi la metà di ogni dollaro speso on line, passi dalle casse di Amazon). Dall’altro le finanze pubbliche, poiché Amazon riesce a eludere i prelievi fiscali su suoi introiti portando i soldi in paradisi fiscali. Ci sono poi le comunità locali in cui Amazon insedia centri direzionali e stabilisce poli logistici, i quali sono costretti a scambiare incentivi economici in cambio della creazione di posti di lavoro. Solo che questi posti di lavoro, attaccano i critici, comunque non bastano a compensare quelli distrutti dal commercio on line e dalla robotizzazione portata avanti da Amazon, in realtà con una certa moderazione, in vari centri di distribuzione. Infine, un altro punto sensibile sono le condizioni di lavoro dei dipendenti di Amazon. Negli ultimi anni varie inchieste giornalistiche hanno messo allo scoperto le difficoltà che affrontano ogni giorni i dipendenti di Amazon, sia nei Fc (Fulfillment centers, nel gergo amazoniano) che nel quartiere generale di Seattle.

Sanders si è appoggiato al clamore suscitato proprio da queste inchieste per attaccare frontalmente Amazon. Ha diffuso dai suoi profili social testimonianze di lavoratori e chiamato in causa lo stesso Jeff Bezos, accusando la sua impresa di degradare le condizioni di lavoro nelle zone in cui vengono aperti i centri di distribuzione, di ricattare le amministrazioni locali per ricevere vantaggi fiscali in cambio della costruzione di impianti e quindi di flussi di merci e posti di lavoro, di imporre ritmi di lavoro scandalosamente intensi, di pagare talmente poco i propri dipendenti, che questi spesso non possono permettersi un alloggio e riescono a nutrire sé stessi e le proprie famiglie solo grazie al supporto dei sussidi del governo federale (i famigerati food stamps).

Amazon ha cercato di rispondere alle accuse, rivendicando gli investimenti e i posti di lavoro creati. Ciò, invece di allentare la pressione, ha accentuato l’attenzione dell’opinione pubblica. Le ombre sull’impresa si addensano e la sua reputazione viene offuscata dalla pressione mediatica e politica.

In settembre Bernie deposita un disegno di legge. Vi si propone di penalizzare i datori di lavoro i cui dipendenti sono costretti a sopravvivere con i sussidi del governo (medicare, food stamps, sussidi per la casa) perché pagati troppo poco. Una volta entrato in vigore il testo obbligherebbe le imprese a contribuire al finanziamento dei sussidi di cui i propri dipendenti sono obbligati a beneficiare: un dollaro di tasse per ogni dollaro di sussidi sborsato dal governo. Il testo è registrato al Senato con un nome che nasconde un acronimo: “Stop Bad Employers Zeroing Out Subsidies Act”. È lo Stop BEZOS Act.

La risposta di Amazon non si fa attendere. Un mese dopo l’annuncio di Sanders, Amazon dichiara l’aumento del salario minimo a 15 dollari per i suoi 250 mila dipendenti fissi e i circa 50 mila temporanei. Inoltre esprime l’intenzione di fare lobbying presso il governo federale affinché lo stesso salario minimo federale, quello fissato per legge dal governo per tutti i dipendenti in tutti gli stati, venga portato a 15 dollari.

Da parte sua l’amministrazione Trump saluta la notizia con soddisfazione. Larry Kudlow, analista finanziario ed ex star dei talk show oggi tra i principali consiglieri di Trump al National Economic Council, ha accolto con favore la decisione di Bezos, escludendo che gli aumenti possano far crescere l’inflazione. Kudlow ha precisato che «si tratta di una decisione puramente economica» e che «se Amazon aumenta i salari non è assolutamente un problema». Nei giorni successivi, tuttavia, Kudlow si affretta a sottolineare la sua contrarietà ad ogni aumento del salario minimo federale. Ciò a suo parere metterebbe in difficoltà l’economia di molti stati che non potrebbero reggere un aumento del salario minimo.

Fight For 15!, il convitato di pietra
La scelta di Bezos viene accolta con favore da tutti. Segno che negli Stati uniti il problema della stagnazione salariale è urgente. Questa urgenza sarebbe rimasta ai margini del dibattito pubblico senza le mobilitazioni dei sindacati statunitensi, che hanno dato vita a uno di più importanti movimenti sociali della storia del paese recente, il Fight for 15. Si tratta di una campagna nata nel 2012 dall’alleanza fra organizzazioni politiche afro-americane, chiese, associazioni e sindacati come il Seiu (Service Employees International Union), un grande sindacato transnazionale nordamericano attivo principalmente nella ristorazione rapida, nella sanità, nelle pulizie e nella funzione. La mobilitazione, concretizzatasi in una serie di scioperi e manifestazioni a sala locale nazionale e transnazionale, non ha soltanto permesso a 22 milioni di lavoratori di ottenere aumenti salariali in città come Seattle, San Francisco e Los Angeles. Questa lotta ha anche cambiato l’agenda politica del paese. La maggior parte degli elettori statunitensi, sostengono i sondaggi, è favorevole a un aumento dei salari, dato che viene confermato anche dagli ultimi referendum statali, anche in stati tradizionalmente conservatori.

I 15 dollari sono diventati in breve una linea di frontiera nella politica statunitense. Ciò è stato particolarmente evidente nel 2015-2016, durante le primarie democratiche. Sanders si era schierato apertamente per un aumento generalizzato a 15 dollari. Clinton era costretta sulla difensiva: inizialmente contraria, poi aveva aperto al ribasso a una soglia di 12 dollari. Sanders come su altre questioni, riesce così a imporre la propria agenda e mobilitare l’elettorato democratico popolare. È in risonanza con queste mobilitazioni che Sanders decide di attaccare Amazon.

La mossa del cavallo di Amazon
Jeff Bezos da parte sua riconosce di non poter resistere su questo fronte e si adegua. Anzi, decide di approfittare dell’occasione: portando il salario minimo a 15 dollari, il padrone di Amazon si libera dalla pressione mediatica e politica, si pone all’avanguardia rispetto all’agenda politica ed economica e infine mette in difficoltà i concorrenti, alimentando lo sviluppo monopolistico del suo colosso: «Abbiamo dato ascolto ai nostri critici, pensato bene a ciò che volevamo fare e deciso che vogliamo indicare la strada. Siamo entusiasti di questo cambiamento e incoraggiamo i nostri concorrenti e altri grandi datori di lavoro a seguirci», ha detto.

Alcuni commentatori, hanno sottolineato come l’aumento dei minimi salariali, cioè il salario di ingresso, proprio in concomitanza con il Black friday e il picco di vendite natalizio, serva a rastrellare nuova manodopera sul mercato del lavoro e, contemporaneamente di sottrarla a concorrenti del commercio e della logistica, come Target, Kroger, Walmart, Fedex, ma anche imprese più piccole e meno conosciute. Per i concorrenti l’aut aut è chiaro: o aumentare i salari e, nel caso delle piccole aziende dissanguarsi lentamente, o soccombere. L’impresa di Bezos non esita a rompere gli equilibri interni al capitalismo americano. Il costo degli aumenti salariali sembra relativamente contenuto e ampiamente sostenibile per le casse della società: secondo quanto riportato su Bloomberg, il costo degli aumenti si aggirerebbe intorno a uno o due miliardi di dollari, a fronte di un ammontare totale dei costi operazionali di circa 60 miliardi.

Inoltre, a partire dal 1 novembre scorso Amazon ha annunciato l’abolizione dei bonus mensili ai dipendenti (sia contanti che azioni) sia negli Stati uniti che in Gran Bretagna. Questi bonus potevano incidere sul reddito mensile di un dipendente anche per centinaia di dollari. Molti lavoratori e sindacalisti si sono lamentati del fatto che questa scelta penalizzi i dipendenti con più anzianità. Inoltre l’aumento a 15 dollari riguarda, appunto i minimi. Il salario medio in Amazon è di 28 dollari (un cinquantanovesimo del compenso base percepito da Bezos). Buona parte dei dipendenti non è quindi coinvolta direttamente dall’aumento e ha quindi reagito freddamente: per consolarli, l’impresa ha deciso che aumenterà di un dollaro i salari che prima dell’aumento erano già uguali o superiori ai 15 dollari.

La scelta non cancella l’impressione di una mossa dettata da due priorità: uscire dal vortice di critiche e inchieste (che prima o poi avrebbe creato anche un’opposizione interna) e attirare nuova forza lavoro per alimentare la sua complessa macchina logistica. Il turnover negli hub di Amazon è molto alto. La pressione del management e al ripetitività delle mansioni rendono il lavoro non solo monotono e stressante, ma anche logorante. È interesse di Amazon espellere sistematicamente forza lavoro dopo qualche tempo, al fine di non dover sostenere i costi di infortuni e malattie professionali. Inoltre il malcontento dei dipendenti tende ad aumentare col tempo di permanenza, anche perché le opportunità di carriera interna sono esigue. L’impresa vuole canalizzare queste tensioni verso l’esterno, offrendo incentivi all’uscita sia diretti, come il programma “The Offer” (una buonuscita speciale per chi ha un certo numero di picchi di attività), sia indiretti, attraverso maltrattamento che spingono i lavoratori a partire dopo qualche anno. Per utilizzare la triade exit, voice e loyalty di Albert Hirschman, Amazon incoraggia l’exit per evitare di avere a che fare con la voice.

L’utopia di Jeff e come smontarla
Bezos ha immaginato Amazon come una piattaforma. Un principio che vale per chi acquista ma anche per chi lavora. Il fatto che abbia scelto un toponimo forse non è casuale: Amazon è un luogo in cui domanda e offerta, di merci come di lavoro, si incontrano, governate dal capitale attraverso un algoritmo. Per gestire i propri magazzini immagina un modello estremamente flessibile in cui forza lavoro in entrata sostituisca regolarmente e a intervalli ridotti la forza lavoro in uscita, in funzione dei ritmi della produzione e del logoramento della forza lavoro. Circolazione del fattore lavoro fluida quanto quella delle merci in transito.

Questa circolazione permette al management di avere un controllo strettissimo dell’organizzazione del lavoro. Problemi e disagi vengono in genere sopportati dai dipendenti che coltivano la prospettiva di una partenza imminente, anche quando questa prospettiva si rivela illusoria. Ma questa illusione e il forte ricambio indeboliscono i collettivi di colleghi che cercano di migliorare insieme la propria condizione. La voice resta ancora lontana o comunque molto effimera. Per evitare questa eventualità Amazon è anche pronta a fare concessioni improvvise e inaspettate, come accaduto questa volta. Ma sempre in maniera unilaterale, mai negoziata con i dipendenti o i loro rappresentanti.

Gli aumenti salariali in Amazon non sono quindi il semplice risultato delle mobilitazioni degli anni passati. Il movimento Fight for 15 ha migliorato le condizioni di vita e di lavoro nell’industria dei servizi. Dal punto di vista simbolico ha anche imposto i 15 dollari come simbolo di una riscossa del lavoro negli Stati uniti. Come conferma Luis Guida, sindacalista newyorkese del Rwdsu (Retail, Wholesail and Department Store Union) «l’obiettivo principale era quello di creare un clima politico favorevole alla classe lavoratrice, facendo dei 15 dollari un simbolo». Allo stesso tempo Amazon è stata molto abile nell’appropriarsi di questo simbolo per migliorare la propria immagine e accelerare la sua espansione. Gli aumenti salariali sono il risultato di una scelta deliberata di Amazon, presa in un contesto di difficoltà politica e di immagine. Ma il loro impatto sarà limitato e per di più funzionale alla ristrutturazione permanente di questa impresa. Inoltre una lotta che si occupa solo del salario rischia di oscurare il problema della salute e della democrazia nei luoghi di lavoro. «In fin dei conti – ammette Luis Guida – il vincitore di questa battaglia resta Jeff Bezos». La svolta nei rapporti di forza dipende dalla capacità di organizzare le resistenze dentro e fuori Amazon e dalla volontà di tornare a discutere di controllo operaio e democratico sull’organizzazione del lavoro e sul modello di sviluppo che Amazon sottintende e riproduce.

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