È impossibile affermare che questa Europa ci piace: sarebbe come dire che è piacevole essere costretti dentro una camicia di forza. Neppure ci pare il caso di ricordare le potenti interferenze degli organismi internazionali collegati alla UE, in sintonia con il FMI, BM, WTO, nelle scelte di politica economica dei singoli paesi aderenti, basti pensare alla Grecia di Tsipras, all’Italia di Berlusconi-Monti. Il comando capitalistico è internazionalizzato da illo tempore, e la finanza ne è l’arma contemporanea più tempestiva ed efficace. Dentro questa abbozzata cornice si sta consumando, accanto a focolai di guerra guerreggiata, alimentati direttamente o per interposta potenza locale, una nuova guerra fredda, agita con tutti i mezzi dello spionaggio moderno, da wikileaks alle pornostar, dalle fakenews al polonio, dove i dazi doganali americani vengono usati come linea Maginot contro la blitzkrieg imprenditoriale cinese, per il mantenimento della posizione dominante.
Un’Europa, questa UE, che se è a briglie sciolte o disobbediente, in questa fase, diviene un ostacolo, addirittura un nemico, per il progetto egemonico di Trump. Per questo, per posizionarci in campo avverso agli USA, dovremmo, forse, essere paneuropeisti: no, non è questa l’Europa delle comunità territoriali, dei municipi, dell’inclusione, partecipazione, condivisione, cooperazione che vorremmo e per cui siamo disposti a lottare. Un’altra Europa è, e comunque rimane a questo punto del processo capitalistico, l’orizzonte minimo che riusciamo ad immaginare a meno che non si voglia pensare di rispondere alla globalizzazione capitalistica rinverdendo la proposta di socialismo in un solo paese, dove l’Italia sarebbe l’anello debole del comando imperialista.
Questa è la loro Europa, frutto, per altro bacato, di uno sviluppo capitalistico, che dal secolo scorso ne ha posto le basi passando dalla Comunità Carbone ed Acciaio al Mercato Comune Europeo, dal Sistema Monetario Europeo alla Unione Europea di Maastricht. Dove, pur senza essere degli strutturalisti fuori tempo massimo, è scandito, con evidenza storica, il ruolo fondante del capitale, del mercato nell’evoluzione politica dell’Unione, quando ancora vi erano il Sistema Sovietico e la Cina maoista, quando ancora la globalizzazione dei mercati non aveva spezzato i confini e spazzato i sistemi pseudo socialisti.
Dopo la più lunga crisi economico finanziaria transnazionale, di cui da poco si è esorcizzato il decennale, dopo l’applicazione diffusa della shock economy, ovvero l’uso capitalistico della ricostruzione post catastrofica, sia essa bellica o disastro naturale, ecologico, è servita a piegare, ad asservire, a cannibalizzare il centro e il sud del pianeta. Quando anche la più piccola impresa manifatturiera del nord est ha filiere produttive delocalizzate e internazionalizzate o in breve cessa di essere competitiva. Quando la vita stessa è sussunta quale ingranaggio della macchina produttiva; ora, può trovare spazio politico qualcuno che vagheggia la possibilità di dare vita ad esperienze socialiste [o altro!] in un solo paese? Oppure pensa, da grande stratega, di usare tatticamente la rivendicazione di sovranità per rompere le catene dell’imperialismo, cominciando dalle palesi conflittualità tra ceti politici dirigenti in Europa?!
No, non ci è mai piaciuto il tanto peggio, tanto meglio. E neppure ci piace il neo bonapartismo che sentiamo aleggiare troppo spesso, anche in aree non sospette, che usano termini quali imperialismo ed internazionalismo ad ogni piè sospinto. Diffidiamo, diffidate.
Quando ancora esistevano le officine Putilov, l’immaginario politico e la conseguente pratica sindacale ed organizzativa, anche in condizioni sociali estreme, era orientata all’affossamento e superamento dello stato nazione. Ora, nell’epoca di Amazon, di Alibaba, delle Big Data, dell’intera società messa al lavoro [spesso non retribuito], c’è chi si propone di recuperare concetti come sovranità, popolo, patria da usare come grimaldello rivoluzionario per una nuova società. Ma l’orizzonte qual è? La Corea di Kim, il Venezuela di Maduro, la vecchia Albania di Enver Hoxa, o che?!
Col portato di tale sovranismo si stilano programmi, si chiama a manifestare rispolverando piattaforme in cui rispunta l’obiettivo de ‘la nazionalizzazione’ per i servizi e le imprese devastate dal capitalismo predatorio e criminale … ma come si può pensare di produrre cambiamento nazionalizzando la gestione di un’impresa o di un servizio rimanendo dentro gli attuali parametri del mercato neoliberista … ci sembra veramente fuorviante e bassa demagogia. Tutt’altra cosa rispetto al concetto, alla costruzione e alla costituzione materiale di bene comune che abbiamo cercato, in molti, di sperimentare e praticare –ad esempio – per l’acqua.
Questa rincorsa a rivitalizzare concetti novecenteschi ci sembra una deriva triste, vecchia, quasi un riflesso pavloviano al recupero, per sé, di una narrazione prodotta dalle forze politiche dell’attuale governo, scordando, ancora una volta, che alla brutta copia i cittadini preferiscono l’originale, nel mentre, dal balcone di Palazzo Chigi – altro terribile riflesso – si proclama sconfitta la povertà.