Scenari demografici del continente europeo e l’invasione che non c’è.
L’immigrazione è il tema drammaticamente all’ordine del giorno nel nostro Paese come nel resto dell’Europa: “siamo di fronte a un’invasione e sono a rischio i valori cristiani delle nazioni europee” gridano i tanti, sempre più forti e aggressivi sovranisti al governo e non in molti Stati dell’UE. Lo fanno pur sapendo che i dati sui flussi migratori dall’Africa e dall’Asia dimostrino l’inesistenza di questa invasione e tanto meno di un congegnato disegno volto a sgretolare i cosiddetti valori della civiltà europea (dal 1990 al 2017 in Europa sono arrivati 25,2 milioni di stranieri di cui solo 8,8 provenienti da Africa, Asia e America Latina, pari a una media in 27 anni di 327.000 arrivi all’anno). I benefici in termini di consenso di questa narrazione li invoglia a spingere la propaganda su questo terreno con sempre maggiore ferocia. Le cause delle diseguaglianze di reddito, l’aumento della disoccupazione, l’impoverimento di intere aree del continente sembrano determinate in buona parte dall’arrivo degli stranieri. I Trump, gli Orban e i Salvini e le soluzioni di uscita dalla crisi che questi propongono giocano sostanzialmente su questi due piani, la guerra xenofoba e razzista contro gli “altri” e l’introduzione di misure protezionistiche in economia spacciate per nuove politiche sociali rivolte a difendere “la propria gente” dalle storture della globalizzazione capitalistica. Una risposta populista che non intende affatto intaccare nella sostanza l’impianto neoliberista dominante.
Di fronte a questo quadro proviamo a vedere cosa sta veramente avvenendo da anni nel continente europeo dal punto di vista demografico – natalità, mortalità, migrazioni interne. Un primo sguardo ci dice che siamo da tempo in presenza sia di tassi negativi di natalità che di mortalità, fattori entrambi preoccupanti per la tenuta sociale e economica del continente europeo e, dall’altro, di movimenti migratori interni agli stati dell’Unione Europea che rappresentano sia una risposta all’invecchiamento della popolazione produttivamente attiva negli stati economicamente più forti, sia la concentrazione di una forza lavoro mobile con poche capacità di forza contrattuale che ben risponde alle esigenze attuali del mercato del lavoro europeo.
Demograficamente l’Europa in meno di 20 anni ha visto decrescere paurosamente la propria popolazione: se nel 1990 un terrestre su quattro viveva in questo continente, oggi, nonostante la popolazione sia cresciuta dal 1950 al 2000 di 180 milioni di unità, essa rappresenta solo un decimo della popolazione mondiale. In pratica in tutti i paesi europei – ma lo stesso fenomeno si regista nella Russia post sovietica – la crescita demografica ha segnato e segna il passo; anzi nella maggioranza delle regioni europee siamo in presenza di una preoccupante decrescita con squilibri fortissimi tra ovest e est, accentuatisi dopo la caduta del muro di Berlino dovuti anche agli effetti delle politiche neoliberiste.
Disuguaglianze, povertà e maggiore mortalità quali effetti dell’estensione del modello capitalistico nella versione neoliberista hanno portato sul terreno economico a una forte dipendenza degli stati dell’est Europa verso quelli occidentali: in questi stati gli effetti demografici più evidenti sono stati l’instaurarsi di una forte denatalità e fenomeni di esodo significativo della popolazione giovane verso le zone europee più ricche e produttive economicamente. Un dato riassume queste modificazioni: dal 1989 la popolazione totale dei paesi dell’est, esclusa la Russia, è diminuita di 25 milioni di abitanti; contemporaneamente è aumentata la forbice negativa di aspettativa di vita per i nati in questi paesi rispetto a quelli nati nei paesi europei occidentali e mediterranei (un bambino ucraino ha una speranza di vita 13 volte minore di un bambino svizzero o svedese). Ma anche tra un francese ricco e uno a reddito medio-basso l’aspettativa di vita del primo è 13 volte maggiori di quella del secondo a dimostrazione che le ricette neoliberiste imperanti ormai dagli anni 80-90 in tutta Europa hanno provocato un riduzione drastica della qualità della vita per molta parte della popolazione.
Vediamo alcuni dati relativi all’Italia: 5 milioni di poveri censiti di cui la maggioranza sotto i 35 anni mentre aumenta il numero di over 65 anni ma in una situazione di precarietà tale che attualmente sono economicamente in condizione migliore i pensionati oltre i 67 anni che i giovani. Scrive a questo proposito la sociologa Chiara Saraceno:
“I minorenni e i giovani fino ai 34 anni costituiscono quasi la metà – 2.300.000 – di tutti coloro che si trovano in povertà assoluta in Italia. E’ un dato ormai strutturale. L’aumento della povertà assoluta avvenuto dal 2005, e in particolare dalla crisi del 2008, è fortemente concentrato tra i più giovani. In un Paese in cui ci si lamenta che non nascono abbastanza bambini, una percentuale altissima delle giovani generazioni non ha abbastanza da vivere.”
Gli effetti delle politiche neoliberiste, quindi, uniformano in negativo tutti gli stati europei di fronte a questi fenomeni, sia quelli orientali e dell’est che quelli occidentali e mediterranei.
Nel continente dalla caduta del muro di Berlino è andata accentuandosi l’emigrazione interna, in particolare dagli stati ex sovietici e balcanici verso alcuni stati occidentali economicamente più solidi. La Germania è stata la maggiore beneficiaria di questi spostamenti migratori favorendoli e governandoli in base alle sue particolari esigenze produttive interne; le migrazioni intraeuropee hanno avuto come destinazione anche paesi mediterranei come l’Italia e la Spagna e, in misura minore, Stati occidentali come il Regno Unito e la Svezia. Una parte dell’emigrazione dall’est Europa ha interessato, infine, anche la Russia, proveniente in specie dall’Ucraina e dalla Moldavia.
La disgregazione del blocco dei paesi del “socialismo reale” e gli effetti negativi determinati dal loro passaggio brutale all’economica di mercato hanno giocato un ruolo importante nel creare le condizioni per larghe migrazioni di popolazione, per lo più giovane, verso i paesi dell’allora Comunità Europea. Migrazioni che non si sono interrotte una volta che lo spazio comunitario europeo si è allargato anche a questi stati ma ha assunto una caratteristica fisiologica legata alla debolezza e sudditanza economica di molti di questi paesi nei confronti delle economie forti dell’UE.
La fotografia demografica nel 1989, alla vigilia della disgregazione dell’URSS e del sistema sovietico, evidenziava una crescita della natalità negli stati dell’est Europa che aveva sensibilmente ridotto il divario esistente dal dopoguerra con quelli dell’ovest. Con la caduta del Muro e con la transizione economica e sociale delle regioni dell’est verso il modello occidentale egemonizzato dalle teorie neoliberiste questo trend positivo si è bruscamente interrotto assumendo via via cifre demografiche nettamente negative. Effetto immediato è stato il travaso di 9 milioni di persone dall’est all’ovest che, per un breve periodo, ha contribuito a mascherare l’instaurarsi di una stagnazione e successiva decrescita demografica in tutto il continente.
Secondo le stime pubblicate dal dossier “Cambiamenti demografici in Europa” pubblicato dal Le Monde diplomatique del giugno 2018 , gli ultimi 30 anni hanno prodotto in sintesi questa situazione:
- a) gli stati del nord-ovest europeo – Paesi nordici, Isole britanniche, Belgio, Olanda, Svizzera e Francia – hanno mantenuto un indice di nascite più numeroso di quello relativo alla mortalità. I demografi individuano nel saldo migratorio positivo in entrata (quindi comprensivo anche delle migrazioni da paesi extraeuropei) il mantenimento di questo saldo naturale che ha consentito a questa parte dell’Europa un aumento del 10% della popolazione dal 1989 ad oggi. Sempre secondo i demografi il saldo migratorio positivo in entrata non preserverà, però, questa parte dell’Europa dall’invecchiamento della popolazione comune alle altre parti del continente, vista la longevità delle classi d’età degli anni 1945-1965 e l’aumento della speranza di vita;
- b) gli stati germanici e del sud dell’Europa hanno registrato un saldo naturale nullo o negativo, compensato sinora solo da un saldo migratorio positivo interno ed esterno al continente. L’indice di fecondità è crollato in Germania a partire dalla fine degli anni 60 mentre in Italia e Austria ciò è avvenuto a partire dagli inizi degli anni 70 fissandosi stabilmente al livello di 1,4 e 1,5 figli per ogni donna, ben al di sotto della soglia di rinnovamento delle generazioni che è del 2,1.
- La Germania in questo trentennio ha evitato lo spopolamento di alcuni suoi Lander attirando in massa lavoratori stranieri, molti di questi dai paesi vicini (l’eccedenza del saldo migratorio verso la Germania è stato dal 1987 ad oggi di 10 milioni di persone). Anche Spagna, Portogallo e Grecia hanno compensato, come l’Italia, la caduta di fecondità a partire dagli anni 80 con una forte immigrazione di stranieri negli anni 90: la Spagna ne ha attirati 6 milioni in più di quanti ne ha perso, provenienti per lo più dal Marocco, dall’America Latina e dall’Europa centrale. Negli anni 80 in Spagna, Portogallo e Grecia con la caduta dei regimi totalitari si era avuta una inversione nei flussi emigratori a favore di ritorni in patria ma con la crisi del 2008 le emigrazioni sono riprese riguardando soprattutto i giovani in cerca di lavoro. A fronte di un flusso migratorio in entrata, dopo la crisi del 2008, negli stati mediterranei l’emigrazione, per lo più giovane, verso altri stati europei ha assunto caratteristiche stabili che si aggiunge al processo di invecchiamento della popolazione come fattori negativi dal punto di vista demografico;
- c) gli stati dell’Europa centrale presentano sia un saldo naturale negativo che un saldo migratorio negativo. In 30 anni la Romania ha perso 3,2 milioni di abitanti, pari al 14% della popolazione che vi risiedeva nel 1987 ma peggio è avvenuto in Moldavia (16,9% di emigranti), in Ucraina (18%), Bosnia (19,9%), Bulgaria e Lituania (20,8%) e in Lettonia (25,3%). In pratica è come se uno stato come la Francia avesse perso un quarto della sua popolazione dal 1987 ad oggi passando dagli attuali 67 milioni di abitanti a 41 milioni. In questa parte dell’Europa con la caduta del muro di Berlino e l’arrivo di forme di capitalismo selvaggio è significativamente aumenta la mortalità, soprattutto maschile e determinato un crollo della fertilità, sino a quel momento mediamente più prolifica di quella dell’Europa occidentale. Ad accentuare la mortalità ha certamente influito il brusco peggioramento delle condizioni economiche e sociali di vita così come a determinare una risposta diffusa a questa situazione attraverso l’esodo, specie dei giovani, delle persone più istruiti o professionalmente più qualificate, verso le aree geografiche più forti economicamente dell’UE.
L’esodo nell’Europa centrale e orientale è, infatti, una delle risposte visibile a un contesto lavorativo basato su bassissimi salari e dure condizioni di lavoro privo di tutele. Si tratta di una emigrazione superiore a quella proveniente dall’Africa con un saldo migratorio cumulativo che supera il 10% della popolazione presente in questi stati nel 1987. Solo alcuni di essi hanno in qualche misura arginato tale processo: la Slovenia che si avvicina demograficamente più al gruppo b) appena descritto, lo ha fatto grazie un approccio sinora più gradualistico all’economia di mercato (l’arrivo al governo di formazioni neoliberiste sta modificando radicalmente questa impostazione) e la Repubblica Ceca che ha rotto nei primi anni 90 con le restrizioni salariali dettate dagli organismi politico-economici internazionali sviluppando una rete di piccole e medie.
Nei Balcani, in Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Kosovo la natalità è rimasta positiva per un tempo maggiore di quanto avvenuto negli stati ex socialisti del blocco sovietico ma molto forte è stato, invece, il saldo migratorio negativo (solo in Albania è stato del 37,6%); oggi anch’essi registrano una evoluzione negativa della fecondità, scesa sotto la media europea a fronte del permanere di una emigrazione significativa di popolazione giovane.
L’Europa si trova, perciò, di fronte ad un fenomeno di invecchiamento della popolazione con tutte le problematiche che questo comporta – salute, pensionamenti, non autosufficienze – e con un problema di penuria di manodopera attiva a cui vengono date risposte diverse a seconda della forza economica dei singoli stati.
Per quanto riguarda i tassi di natalità le ricerche demografiche dimostrano che dove le donne si trovano in condizioni lavorative più attive, dove i servizi dedicati alla natalità funzionano e vigono politiche di sostegno e dove, infine, vengono sostenute anche le nascite fuori dal matrimonio tradizionale si registrano più natalità. Scrive a questo proposito il demografo Alain Monnier:
“[in Scandinavia] un insieme di servizi permette un’attività lavorativa alle donne che hanno figli, con un’estesa protezione sociale che consente di immaginare il futuro familiare con serenità e una concezione più egualitaria dei rapporti fra uomini e donne”
Viceversa là dove la condizione lavorativa delle donne è inferiore a quella degli uomini, mancano politiche di sostegno e servizi dedicati alla maternità o sono insufficienti, dove vigono politiche restrittive verso stili familiari aperti e non sono consentite o concepite norme che consentano agli uomini di “fare la loro parte” nella sfera privata (cure, congedi parentali, compiti quotidiani) la fertilità tende a scendere significativamente. E’ il caso, in particolare, degli stati del sud e dell’est Europa. Ma è altrettanto evidente che non bastano solo avere politiche sociali a sostegno della famiglia, come quelle in vigore in Francia, Germania o Svezia, per registrare tassi positivi di natalità perchè se queste non sono protratte con coerenza nel tempo non danno risultati duraturi, tanto più se, come sta avvenendo anche in questi paesi, non vengono accompagnate da un redistribuzione della ricchezza e del reddito che portino a condizioni migliori di vita e ad aspettative future più positive e certe. La forte differenziazione economica e sociale presente anche in questi stati gioca un ruolo decisivo in tal senso.
Secondo grafici demografici prodotti dal World Population Prospect 2017 riferiti ad alcuni stati europei si può osservare questa situazione:
- 1. In Francia si registrano più nascite che decessi – saldo naturale positivo – e più individui accolti di quanti lo stato ne perda – saldo migratorio positivo. Ciò determina una piramide delle età simile a una torre con generazioni parimenti consistenti fino ai 70 anni e l’arrivo all’età della pensione della generazione baby-boom.
- 2. In Germania la piramide delle età presenta una base che si restringe sensibilmente perchè gli individui sotto i 10 anni sono due volte meno numerosi dei quinquagenari. Il deficit di nascite si è aggravato nel corso degli anni 2000, compensato solo da una forte immigrazione (in particolare intraeuropea) che ha avuto il suo culmine nel 2005.
- 3. Nei Balcani la Bulgaria registra un forte deficit di nascite aggravatosi a partire dal 1990 con, in aggiunta, una forte emigrazione verso altri stati europei.
- 4. Sempre nei Balcani la Croazia registra un saldo migratorio in uscita costante, negli anni 90 dovuto agli effetti della guerra ma con l’ingresso nell’UE nel 2013 determinato dall’impoverimento economico del paese a cui si è affiancato un deficit delle nascite.
Possiamo affermare che lo spopolamento di parti dell’Europa e l’invecchiamento generalizzato della popolazione non sufficientemente compensati da saldi positivi migratori extraeuropei, rappresentano dal punto di vista demografico, nonostante la gran cassa propagandistica xenofoba, razzista e sovranista sull’invasione degli stranieri, due grandi problematiche negative di questo continente. Socialmente ed economicamente tutto ciò ha delle conseguenze che in parte spiegano le risposte populiste, sovraniste e nazionaliste imperanti.
Mentre gli effetti di queste modifiche demografiche combinate con le differenziazioni socioeconomiche determinate dalle politiche neoliberiste e acutizzate dagli effetti del protrarsi della crisi iniziata nel 2008 nell’intero sistema capitalistico mondiale producono guasti profondi nei sistemi politici e sociali in tutti gli stati dell’UE, paesi economicamente più forti come la Germania sfruttano la propria forza attrattiva per attirare forza lavoro in settori ad alta intensità lavorativa, a bassi livelli di innovazione tecnologica e di produttività, giocando sulla precarietà, disponibilità e la debolezza contrattuale dei migranti intraeuropei. Ciò sta determinando veri e propri processi di spopolamento in alcune parti del continente, in particolare nei Balcani, fra gli stati europei più deboli economicamente. In Serbia come in Croazia, in Kosovo come in Montenegro, nella Repubblica Srpska come in Bosnia giovani laureati o con specifiche qualifiche tecniche emigrano verso la Germania o in altri Stati analogamente forti economicamente aspirando a salari tre o quattro volte superiori a quelli in vigore nei loro paesi. Questo fenomeno emigratorio non risulta bloccarsi nemmeno dove la presenza di bassi salari, regimi fiscali favorevoli ad investimenti produttivi stranieri e una deregolamentazione normativa in materia di lavoro, favoriscono la nascita in loco di insediamenti produttivi stranieri. La disponibilità di lavoratori in questi nuovi insediamenti risulta precaria e soggetta forte mobilità e ricambio, proprio a causa delle svantaggiose condizioni retributive e di lavoro. A sottrarsi a questa condizione sono soprattutto i giovani che lo fanno spesso attraverso canali creati appositamente dagli imprenditori del Paese di immigrazione in accordo con i governi locali. Un caso emblematico di questa modalità di creazione di canali emigratori di forza lavoro giovane verso gli stati europei più forti economicamente è quello del distretto di Tuzla in Bosnia e Erzegovina, terza città per importanza di questo stato. Negli ultimi anni in questo distretto sono sorte molte scuole di lingue come, ad esempio, la Deutsch als Fremdsprache che accoglie gruppi di studenti selezionati grazie ad accordi tra l’Agenzia di cooperazione internazionale tedesca GIZ e il governo della Federazione di Bosnia e Erzegovina. Questo tipo di scuole sono finanziate dagli imprenditori dei Paesi di immigrazione; esse offrono corsi di pochi mesi per futuri dipendenti. In questo modo gli imprenditori, spesso tedeschi, spendono meno in formazione professionale di quanto spenderebbero nei loro paesi e hanno a disposizione manodopera specializzata a basso costo e disponibile a qualsiasi lavoro. Infatti chi partecipa a questi corsi non deve avere pretese o ambizioni ma accettare qualsiasi lavoro gli si prospetti secondo le esigenze del mercato del lavoro dove si trasferiranno.
A fianco di emigrazioni concordate e preparate professionalmente con progetti come questi vi è anche un’emigrazione non censita di giovani in cerca di lavoro fuori dal paese – diplomati e non – come conferma Admir Hrustanovic, direttore dell’ufficio di collocamento del cantone di Tuzla:
“Il nostro ufficio offre impieghi in Austria e in Slovenia, perchè abbiamo degli accordi con questi paesi. Ma l’anno scorso solo 1.500 persone sono state assunte con la mediazione dei nostri servizi. Le altre sono scomparse dalle statistiche, il che significa che sono andate all’estero senza segnalarcelo.”
Ad andarsene sono sia disoccupati che occupati che lamentano salari bassissimi e mancanza di tutele ma anche quanti hanno un buon lavoro ma temono che l’instabilità politica nel proprio paese possa determinare un peggioramento della loro condizione. Molti di questi soggetti hanno dato vita nel 2017 a una serie di dimostrazioni in Serbia come in Macedonia e Kosovo contro gli effetti delle politiche neoliberiste senza tangibili successi. Nonostante la Serbia presenti in questi anni un sensibile miglioramento (una crescita del PIL stimata nel 2018 dalla Banca Mondiale del 3% con proiezioni del 3,9% nel 2019 e del 4% nel 2020; una riduzione sensibile del debito pubblico in rapporto al PIL sceso dal 74,7% del 2015 al 62,6% nel 2017) l’adozione di politiche neoliberiste ha mantenuto una disoccupazione al 14% e un inasprimento delle condizioni di lavoro sia nel settore privato che in quello pubblico (una media di 41 ore lavorative settimanali nel settore privato e l’introduzione del lavoro straordinario nella pubblica amministrazione) l’esodo verso paesi economicamente più forti è rimasta una risposta consistente di quanti hanno visto frustrate le richieste di cambiamento politico, sociale e economico auspicate dalle dimostrazioni del 2017 e, più in generale, di chi ricerca condizioni di vita e lavoro migliori.
La precarietà economica determina emigrazioni anche in stati entrati da poco nell’UE come la Croazia che registra fenomeni di vero e proprio spopolamento nelle parti centrali e orientali del paese. La pressione della Germania per attirare manodopera è costante e accattivante grazie alla garanzia di salari molto più ricchi di quelli medi di tutta la regione balcanica. Imprese private, Lander e singolo comuni tedeschi organizzano campagne di assunzioni nei Balcani, soprattutto in Bosnia-Erzegovina, Croazia e Serbia. Ad esempio il gruppo Sozialwerk Heuser di Bad Aibling in Baviera che gestisce case di riposo ha sviluppato recentemente una campagna di assunzione di infermieri e tecnici serbi, garantendo salari di 1.900 e 2.500 euro mensili mentre la Kuchen Aktuell, azienda presente in tutta la Germania, ha dichiarato di aver assunto solo a Tuzla 30 installatori di cucine. Ci sono inoltre agenzie croate come la RIAdria Work con sede a Fiume in Croazia che svolgono attività di mediazione per l’assunzione di muratori in Danimarca oppure altre come la Rijecki Usluzni Servis che assume in Serbia addette alle pulizie per gli alberghi della costa dalmata. I lavoratori qualificati nei settori alberghiero, medico, dei servizi sono, infatti, i più ricercati dalle agenzie tedesche e dell’europa occidentale ma anche dalle zone economicamente più ricche dei nuovi stati balcani entrati nell’UE. Dal nord del Montenegro nella primavera del 2015 si è verificato un vero e proprio esodo verso La Bassa Sassonia, area della Germania nord-occidentale colpita da un forte calo demografico, nella primavera del 2017 ha favorito con questi metodi un vero e proprio esodo di forza lavoro dal nord del Montenegro. In questo Lander la situazione demografica è talmente preoccupante che alcuni suoi consiglieri federali hanno persino chiesto alle autorità federali di inviare richiedenti asilo più possibile per fronteggiare il fenomeno. Abbiamo bisogno di nuovi arrivi ha dichiarato il sindaco di Gosper, uno dei paesi del Lander. Non è per caso, quindi, che propri in questi giorni molti Lander si sono dichiarati disponibili ad accogliere quote di immigrati extraeuropei in opposizione alle chiusure delle frontiere proposte dalla CSU bavarese. Tutti i Balcani soffrono di un tasso di natalità molto basso, di una mortalità maggiore dovuta al peggioramento delle condizioni di vita che si accompagnano ai processi di emigrazione e di spopolamento di intere regioni come avviene in quelle occidentali della Bulgaria e sud-orientali della Serbia (in Serbia secondo l’Istituto nazionale di statistica tra il 2002 e il 2011 ben 160.000 persone sono emigrate al punto che essa rischia nel 2040 di trovarsi con meno di 6 milioni di abitanti contro i 7,7 attuali mentre l’età media è già passata dai 38,8 del 1995 ai 42,7 del 2015).
In Croazia, secondo le stime del demografo Stjepan Sterc, nel 2017 i decessi sono stati 18.000 in più rispetto alle nascite e il tasso di fertilità risulta da tempo bloccato a 1,4 di figli per donna. Dalla sua indipendenza nel 1997 la Croazia ha perso 627.000 abitanti su una popolazione di 4,1 milioni, pari al 13% della popolazione di quel periodo.
Questa fotografia demografica fornisce alcuni spunti di riflessione.
La riduzione della natalità, l’aumento dei tassi di mortalità, l’invecchiamento della popolazione, la riduzione demografica della popolazione attiva, lo squilibrio delle aspettative di vita tra stati e negli stessi stati tra ceti medio-alti e medio-bassi e poveri hanno favorito l’emergere di risposte nazionaliste sovraniste e xenofobe delle nuove destre al potere in molti stati dell’UE che hanno saputo coagulare l’ostilità diffusa verso gli effetti di impoverimento e precarizzazione determinati dalla globalizzazione neoliberista. La questione immigrazioni extraeuropee che tanta fortuna ha portato a queste forze politiche andate al potere in Italia come in Austria, in Ungheria come in Polonia e in Slovenia e rinforzato significativamente altre ancora all’opposizione in Francia, in Germania e nel Regno Unito, funziona da catalizzatore del rancore profondo che attraversa i ceti subalterni colpiti duramente in questi ultimi decenni dagli effetti economici e sociali della crisi provocata dalla politiche neoliberiste. Ma con gli effetti demografici sopradescritti si dovrà, prima o poi, fare i conti e non potranno essere i dazi protezionistici e il ritorno a politiche economiche e finanziarie nazionali a risolvere il problema, magari stoppando in futuro anche le migrazioni intraeuropee.
Termino con un accenno all’Italia che ci rimanda ai dati demografici sopra detti.
La Banca Centrale Europea ha recentemente scritto nel suo bollettino economico riferendosi ai “diversi paesi con livelli già elevati di debito pubblico” (quindi anche e soprattutto l’Italia) che “sono necessari ulteriori sforzi di riforma volti a ridurre il previsto aumento della spesa connessa all’invecchiamento demografico. […] In tale contesto sarà importante che i paesi intraprendano azioni politiche risolute e incrementino gli sforzi di riforma strutturali in ambiti quali pensioni, sanità e assistenza di lungo periodo”. Insomma la ricetta “lacrime e sangue” imposta da qualche anno alla Grecia che non trova certo un’opposizione di principio nè nella Lega, nè nel M5s.
ll bollettino prosegue poi dicendo che per i “paesi con alti livelli di debito sono indispensabili ulteriori sforzi di consolidamento per condurre stabilmente il rapporto fra debito pubblico e Pil su un percorso discendente […]” e, ancora più esplicito, scrive l’Ufficio Parlamentare di bilancio che in Italia il problema più grosso è il sistema pensionistico che rischia nel prossimo futuro livelli elevati di incidenza della spesa sul Pil in base ad “una maggiore persistenza degli effetti della crisi macroeconomica”, in termini di bassa produttività, minore occupazione e “un peggioramento del quadro demografico riconducibile ai minori flussi migratori netti”. Brutalmente: meno migranti corrisponde a minori contributi netti al sistema previdenziale.
La strada raccomandata dalla BCE ovviamente si richiama alle ricette neoliberiste della riduzione della spesa pubblica, della privatizzazione e della fine anche di quel poco e indefinito welfare conquistato dalle lotte sociali nei decenni passati. Ma la risposta protezionistica, sovranista-nazionalistica non intende certo rispondere con migliori pensioni, più servizi pubblici e maggiori diritti bensì pensa di giocare sulle paure diffuse, sul rancore sociale maturato nella società per governare la contingenza attuale in attesa di nuove prospettive. Per l’interesse dei ceti e dei blocchi sociali che concretamente rappresentano al di là delle retoriche populiste sui paladini del popolo contro indefinite élites. Spetta a noi trovare soluzioni diverse da questa deriva populista!
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- Le cifre riferite dall’ISTAT sull’immigrazione in Italia dicono che negli ultimi 10 anni le immigrazioni si sono ridotte del 43% passando da 527.000 del 2007 a 301.00 del 2016. In compenso sono aumentate le emigrazioni, praticamente triplicate, passando da 51.000 a 157.000. Nel 2016 il saldo migratorio netto con l’estero è salito a + 8%. La dinamica migratoria positiva limita il calo demografico dovuto al saldo naturale negativo (- 142.000). La popolazione italiana nel 2016 è calata di 76.000 unità riguardando solo cittadini italiani, compensata dall’aumento di 21.000 unità di stranieri residenti
- Chiara Saraceno “Sono i giovani a pagare il conto”, da La Repubblica del 27 giugno 2018
- “Cambiamenti demografici in Europa” dossier interno al Le Monde Diplomatique, supplemento a Il Manifesto, giugno 2018
- I dati ISTAT per l’Italia fissano al 1 gennaio 2017 la popolazione residente a 60 milioni 579 mila con una diminuzione di 86 mila unità rispetto all’anno precedente (- 1,4 per mille). Il livello minimo di nascite registrato nel 2015 – 486 mila – è stato superato da quello del 2016 – 474 mila – mentre i decessi dopo il picco del 2015 con 648 mila casi, sono stati nel 2016 “solo” 608. L’invecchiamento della popolazione è in aumento con 13,5 milioni di persone che hanno 65 anni (22,3% della popolazione) , 4,1 milioni di ottantenni (6,8%) e 727 mila novantenni (1,2%). Gli ultracentenari, infine, sono 17 mila. Di contro la fecondità scende a 1,34 figli per donna (in calo costante anno per anno) dovuto secondo l’Istituto di ricerca non tanto a una riduzione della propensione alla fecondità ma al calo del numero di donne in età feconda per quanto riguarda le italiane e per un processo di invecchiamento delle donne straniere presenti in Italia (1,95 figli per donna nel 2016 in calo rispetto al 2015)
- Si veda per la situazione economica della Serbia Andrea Tarquini “Serbia, conti e Pil in ordine per l’Europa. La produttività sale anche nello Stato” in Affari&Finanza, supplemento a La Repubblica del 26 giugno 2018
- Si veda a questo proposito Sebastiano Canetta “Berlino, trema il governo ma città e land sono per l’accoglienza” da Il Manifesto del 28 giugno 2018
- Se Trump, nell’imporre i dazi all’Europa, ha alle spalle la forza economica, politica e militare degli Stati Uniti che gli consente, ad esempio, di imporre dazi all’importazione di autovetture dall’Europa, spingendo le case automobilistiche europee (come stanno già da tempo facendo) a produrre per il mercato statunitense auto in stabilimenti aperti negli USA che garantiscono occupazione nazionale, ciò non può avvenire per l’Italia, sbilanciata enormemente nell’export di prodotti che non può certo pensare di andare a produrre nei mercati di esportazione, tanto più se venisse meno lo spazio economico europeo.
- Antonio Sciotto “La Bce avverte l’Italia:” in Il Manifesto del 29 giugno 2018