Dopo Natale il “reddito di dignità” è diventato il primo argomento di campagna elettorale. Il gigantesco teatro degli equivoci è iniziato quando Silvio Berlusconi ha rilanciato l’idea. Luigi Di Maio (Movimento Cinque Stelle) ha risposto che Forza Italia ha fotocopiato il suo “reddito di cittadinanza”. Renzi è intervenuto con la consueta sagacia, sparando cifre immaginarie: “Costo totale: 84 miliardi di euro. Come li coprono? Coi soldi del Monopoli?” ha twittato. Il Vicesegretario Pd Maurizio Martina ha sventolato il vessillo sbiadito del “reddito di inclusione” approvato dal governo Gentiloni: un sussidio di ultima istanza per i poverissimi; sotto-finanziato (un paio di miliardi contro i sette necessari all’anno); condizionato all’accettazione di un lavoro coatto (workfare) che imprigionerà 500 mila persone nella trappola della povertà.
Liberi e Uguali ha fatto sentire la classica posizione della sinistra “lavorista” con il presidente della Toscana Enrico Rossi. In nome di un’interpretazione della Costituzione, niente reddito ma lavoro. Per Rossi con il reddito si finisce per “starsene a casa senza fare nulla. Distrugge la dignità delle persone”. Variante apocalittica del classico: “Passano le giornate a mangiare pastasciutta al sole”. Posizioni simili le ha Renzi, secondo il quale “il reddito di cittadinanza è incostituzionale”. Su tutto divisa, la “sinistra” trova unità contro il reddito, un’istanza di giustizia sociale travisata – per gravi equivoci ideologici – per una misura a favore del lazzaronismo oppure per agente infiltrato del capitalismo. Questo è lo spaccato a tre mesi dalle elezioni. E non potrà che peggiorare.
Per mettere ordine in questo caos propagandistico di definizioni, ai danni dei poveri e dei precari, bisogna rifare la storia delle parole e del loro uso strategicamente errato. La definizione di “reddito di dignità” è stata lanciata due anni fa da una campagna di Libera, Basic Income Network-Italia, il Cilap e altre associazioni è già strumentalizzata dal governatore pugliese Michele Emiliano (Pd) che ha varato un sussidio di tutt’altra natura nella sua regione.
Con questa misura di reddito di dignità si intende un “reddito minimo universale” contro la povertà e il precariato, un intervento immediato di natura sia strutturale che redistributiva. Il senso di questa politica lo comprese già nel 1966 l’economista neo-keynesiano James Tobin, premio Nobel nel 1981 e inventore della tassa sui capitali: il reddito serve a «assicurare ad ogni famiglia un tenore di vita dignitoso a prescindere dalla sua capacità di guadagno» e a “costruire la capacità di ognuno di guadagnare un reddito”. Rifiutando il ricatto del lavoro povero, ad esempio. Dunque il “reddito” non esclude il “lavoro” e il “Welfare”. Implica cioè un’altra idea sia di lavoro che di Welfare, entrambe estranee ai “lavorismi” dominanti a “sinistra”.
Di tutt’altra natura è il “reddito di dignità” di cui parla Berlusconi secondo il quale sarebbe analogo all’imposta negativa sul reddito teorizzata dal fondatore del neoliberismo Milton Friedman, un trasferimento pubblico di contrasto alla povertà destinato a coloro che sono sotto il livello povertà assoluta. Alle accuse di Di Maio di avere “copiato”, Berlusconi ha risposto: “Caso mai ho copiato Milton Friedman, il quale sosteneva che una famiglia che guadagnasse bene dovesse dare un contributo allo Stato mentre dovesse essere lo Stato a sostenere la famiglia in difficoltà”.
In questa formulazione il reddito di dignità sarebbe pari a mille euro – come la proposta sulle “pensioni minime” di Forza Italia – ma non si sa ancora se è una misura incondizionata che non richiede al beneficiario di accettare un lavoro qualsiasi, come invece pensava il liberista Friedman. In ogni caso ha un duplice difetto: il povero è considerato un individuo assoluto, separato dalla società; tale imposta contribuisce allo smantellamento del Welfare, quello accelerato dai governi presieduti dall’ex Cavaliere famoso per il taglio alla spesa sociale, alla scuola e all’università. “Sono le politiche economiche e sociali di Berlusconi, e quelle degli altri governi dopo di lui ad aver fatto triplicare i numeri della povertà sino a 5 milioni ed a 18 milioni quelli a rischio esclusione sociale, mentre i miliardari nel paese sono triplicati arrivando ad essere 342” sostiene Giuseppe De Marzo (Rete dei numeri pari, già sostenitrice del “reddito di dignità” due anni fa).
Resta da capire cosa sia il “reddito di cittadinanza” dei Cinque Stelle che tutti attaccano, senza capirne il senso. Alla base, come scriviamo dall’inizio di questa legislatura, c’è una truffa lessicale che, tra l’altro, si è trasformato in un boomerang per questo movimento. Il reddito di cittadinanza va a tutti i residenti con la cittadinanza a vita. In questa forma è applicato solo in Alaska. Quello M5S è invece un reddito minimo condizionato dallo scambio con un lavoro. È lo stesso meccanismo del “reddito di inclusione” approvato dal Pd, ma ben più generoso e rivolto a una platea molto più ampia: 780 euro a individuo contro i 190-massimo 485 euro a famiglia numerosa. La spesa è 17 miliardi all’anno, non 84. Poi scenderebbero a 14 nel secondo anno di applicazione. E via a scendere, man mano che aumenta l’occupazione. Un impianto in realtà discutibile, e una visione del ciclo economico non proprio realistica. Questa misura costa, a dire dei Cinque Stelle, sette miliardi in più rispetto alla spesa per il bonus degli 80 euro ai lavoratori dipendenti che Renzi considera una conquista di civiltà.
*** Per la comprensione del “reddito di base”, l’intervista a Philippe Van Parjis, principale teorico di questa proposta a livello mondiale >>>> Philippe Van Parjis: Il reddito di base non è utopia.
Oppure questa intervista a Stefano Rodotà: Il reddito di cittadinanza è un diritto universale