Radicchio e Catalogna.
Appunti sparsi sulla crisi della forma stato.
il Parlament di Barcellona ha dichiarato l’indipendenza da Madrid e ha dato il via al processo costituente della Repubblica. Nelle stesse ore, il Senato spagnolo ha attivato l’art.155 della Costituzione, che commissaria la regione ribelle. In una dichiarazione istituzionale, il presidente della Catalogna Carles Puigdmeont ha invitato alla “opposizione democratica all’applicazione dell’articolo 155” della Costituzione spagnola che ha definito una “aggressione premeditata alla volontà espressa dai catalani”. Il Governo catalano del presidente Carles Puigdemont non si considera destituito e prevede di riunirsi per preparare le elezioni “costituenti” della nuova ‘Repubblica’ proclamata dal Parlamento. Non credo sia di nessuna utilità andare a piluccare sulle percentuali di voto referendarie o su quelle che hanno portato alla dichiarazione di indipendenza ma senz’altro vale soffermarsi sulla presenza degli oltre 700 sindaci su 950 a supporto di tale decisione: la rappresentanza politica ed istituzionale più ‘vicina’ alla popolazione che vive in Catalogna c’è stata e si espressa chiaramente. Quella che si è manifestata è una forma di autederminazione politica e istituzionale inedita, da capire, da valorizzare, da difendere, ma senza alcuna delle estatiche e retoriche esaltazioni che si leggono o si sentono in giro e vicino a noi. Non siamo nel 1934, nella Repubblica catalana di Lluis Companys, ne alla crisi della Repubblica spagnola del 1936, con Rajoy in marcia al posto del Generalissimo.
Un operaista, vecchio amico, di Barcellona, raggiunto al telefono, tra le molte cose, dice: ”cosa mi cambia se il padrone è dichiaratamente repubblicano e mi comanda in catalano anziché in spagnolo?”. Poche ma sentite parole che disvelano l’enfasi indipendentista e ci richiamano a riflettere sui cambiamenti reali e materiali della nostra società così come su quella catalana, dove sembrano come d’incanto scomparsi i problemi legati al reddito, al lavoro, alla casa, alla salute. O la trasformazione sociale attiene alla materialità del vivere sociale che si rifrange e si riflette sugli assetti istituzionali oppure è utile ed opportuno soppesare attentamente quanto viene determinato nella sfera ‘autonoma’ della politica istituzionale. Le rivoluzioni prodotte dall’alto, troppe volte, hanno prodotto dei gran disastri per l’intera società. Non credo che sia casuale il cauto dosaggio terminologico ed espositivo della sindaca di Barcellona Ada Colau e di tanti altri che ci sono stati compagni di strada per tanto tempo. Quello che è certo, ciò che la Catalogna sottolinea, è la lacerante crisi della ‘forma stato’ – che sia repubblicana, federata, monarchica, socialista, poco importa, lo abbia visto e constatato – che è uscita dalla crisi del 1929, dal ‘new deal’, dall’ultimo conflitto mondiale, dalla crisi del ‘welfare’ di cui ci parlava Claus Offe a metà degli anni settanta del secolo scorso, dalla crisi dell’Europa di cui scrive ancora oggi, dalla crisi economica che subiamo da oltre 10 anni, dalla crisi sociale indotta dalla trasformazione dei processi produttivi e di valorizzazione del capitale, dalla crisi sociale e valoriale mondiale su cui spesso ritorna papa Bergoglio. Una crisi che ha spazzato i paesi socialisti, i Balcani, i regimi islamici, l’Europa, che ha fatto fallire il sogno bolivariano, che ha prodotto Trump: tutti Stati in cui la forma costituzionale e ‘democratica’ si è trasformata in governo lobbistico e dispotico degli interessi di parte capitalistica, dove ogni dialettica tra le parti sociali è svanita nell’imposizione, dove in Cina il partito ‘comunista’ di Xi ha assunto come programmatico l’impegno a moderare [?!] le differenze economiche senza rinunciare al ruolo di guida nello sviluppo capitalistico mondiale.
Una forma della crisi, uno smarrimento, un venir meno del riconoscimento collettivo e della rappresentanza che hanno scatenato i peggiori istinti dell’uomo, che riemergono con forza e violenza quando è indotto a ritenere che sta lottando per la sopravvivenza propria o della sua comunità, che ha rinvigorito il senso di appartenenza e di identità, fondato su ‘pregiudizi’ razziali, economici e sociali. L’esaltazione retorica delle piccole patrie, l’intransigente ordoliberismo pangermanico, la brexit, il dilagare elettorale dei partiti xenofobi, i muri escludenti, il terrorismo islamico sono tutte sfaccettature della medesima crisi, che, naturalmente, assume in ciascun territorio, stato, area geopolitica intensità, pericolosità e connotati diversi.
Qui nel Veneto abbiamo vissuto le diverse stagioni della Lega, dove spesso si sono mescolati la difesa di vantaggi e privilegi de ‘prima i veneti’ e ‘paroni a casa nostra’ con l’indipendentismo e l’autonomia fiscale, senza che dai più ne venisse colta l’intrinseca pericolosità; abbiamo contrastato il più possibile il suo devastante portato sociale e continuiamo a farlo con determinazione. Ma ecco il referendum e la scoperta dell’acqua calda: vuoi pagare meno tasse? vuoi che restino nel tuo territorio? Anche il padre della nazione Mazzini avrebbe detto di si!
Solo il disincanto, la rottura delle forme della rappresentazione politica ha garantito l’astensione del 40% dei votanti nel Veneto e oltre il 60% di quelli in Lombardia, a fronte di una totale mancanza di opposizione politica e sociale verso il referendum. I partiti, tutti, si sono eclissati, pronti a riemergere il giorno dopo per intestarsi uno spicchio di elettorato, quegli stessi partiti che poi, turandoci il naso, occhi e orecchi, ci troviamo a votare come meno peggio. Sicuramente la Lega ha fatto bingo e ha le carte in mano per sedersi al tavolo istituzionale dove la forma stato è stata messa in discussione già con le modificazioni introdotte con i cambiamenti introdotti nel 2001 nel Titolo V della Costituzione, dopo la prima spallata leghista. Ora tutta la vecchia Padania, quella evocata da Bossi, dopo un’istintiva alzata di scudi eversiva di Zaia, accantonata in 24 ore, si muove congiuntamente e ‘democraticamente’ verso una ampia autonomia, tanto che sia governata dalla ‘sinistra’ emiliana che dalla Lega, diventata nazionale, ma che pur sempre rivendica come proprio obiettivo il federalismo regionalista in Italia e in Europa.
No, coi dovuti distinguo, il radicchio non è tanto diverso dalla catalogna, ce lo rammentano anche le papille gustative. Quello che può disorientare è la ricerca di un’alterità societaria, definita in forma stato, a tutti i costi, dove la gioiosa movida catalana è più affascinante della ruvida e sanguinosa esperienza di municipalismo confederato della Rojava o più vicino del romantico ma spartano municipalismo autonomo dei caracol ciapanechi. Dopo il crollo dei paesi del ‘sol dell’avvenir’, consciamente o meno, molti sono spaesati alla ricerca ondivaga di un modello societario che possa rappresentarsi come l’immaginario collettivo per il quale lottare. Forse basterebbe guardarsi attorno, cogliere e valorizzare le forme di solidarietà, di mutualismo, di cooperazione sociale e produttiva, di coabitazione che germinano dentro la società in cui viviamo per scoprire un informale Stato nascente sovversivo.