Forse potrebbe essere utile per questo convegno fare un piccolo, conciso, bilancio
dell’evoluzione della logistica dagli anni 70 ad oggi. Quest’anno ricorre il quarantesimo
anniversario della fondazione dell’Associazione Tedesca di Logistica
(Bundesvereinigung Logistik) di cui sono socio onorario. Come leader mondiali, i
materiali che mettono a disposizione per l’aggiornamento professionale dei soci e le
occasioni che procurano per ottenere informazioni sulle ultime novità nei sistemi
organizzativi e nella tecnica (sulla digitalizzazione per esempio) sono ricchissimi.
Quindi ho pensato di riprendere in sintesi la loro visione della storia della logistica. Gli
anni ’70 sono quelli che loro definiscono come “logistica classica” di rifornimento delle
linee di produzione (il vecchio materials handling). La logistica in questo periodo è
semplicemente ottimizzazione di funzioni elementari. Negli anni ’80 assume sempre
più importanza il servizio al cliente – una strategia pull dove il mercato e la domanda
trainano l’organizzazione logistica. Quindi la logistica diventa una funzione trasversale
alle varie funzioni dell’azienda e ottimizza processi multifunzione. In particolare in
questo periodo si lavora molto sulla gestione e l’evasione degli ordini perché è il
cliente – in un certo senso – la figura centrale. Gli anni ’90 sono la parte più
interessante di questa storia; sono gli anni dell’integrazione funzionale, la logistica
integra le diverse funzioni aziendali, ordinandole in una sequenza di processi,
l’integrazione riesce a diventare creazione di valore, non solo risparmio di costi. Tutto
il ragionamento viene fatto sempre dal punto di vista dell’azienda manifatturiera. E’ la
caratteristica della logistica in Germania, che la distingue nettamente da quella
italiana ancora oggi. Malgrado l’enorme sviluppo che ha avuto l’e-commerce in epoca
recente, il fulcro dei ragionamenti dello sviluppo dell’innovazione logistica in un
sistema complesso come quello tedesco è rappresentato ancora oggi dall’azienda
manifatturiera. La fase che si apre con gli anni 2000 è quella del salto verso le reti
globali. Quindi la logistica integra le catene del valore in reti globali e qui diventa elemento di novità nei suoi criteri di scelta la presa in considerazione di fattori socio-
economici – culturali, ambientali e così via.
Dobbiamo però ricordare altre cose in questo arco di tempo. La logistica nasce negli
anni ’70, sono anni di forte inflazione e quindi nasce essenzialmente per affrontare il
problema delle scorte: le aziende con grossi volumi di scorte perdevano molti soldi e
quindi la logistica diventa la tecnica di riduzione delle scorte – la famosa teoria dello
stock zero da cui si comincia poi ad elaborare quel famoso just-in-time che in realtà
poi riguarda una parte minore delle operazioni.
Gli anni ’90 sono decisivi per due ragioni: Internet – la logistica viene chiamata the
physical Internet – e compaiono sul mercato o assumono una forte importanza i
servizi espresso fatti dalle grandi compagnie americane, australiane (TNT, Fedex,
UPS, DHL). Questo fatto viene spesso dimenticato però è importante ricordarlo perché
quando oggi parliamo di e-commerce e di Amazon non dimentichiamoci che questi
sono i loro diretti predecessori. Qual è la rivoluzione che hanno portato queste
società? Hanno cambiato i parametri di formazione del prezzo, fino a quel momento la
tariffa del trasporto merci era calcolata su due parametri: peso e distanza, tonnellate
e chilometri. Loro rovesciano completamente questa impostazione e formano la tariffa
sui tempi di consegna (12/24/48 ore). La merce/servizio che queste aziende
forniscono è il tempo e qui trovano la loro radice i fenomeni dell’e-commerce di oggi.
Queste sono aziende solide, hanno dei sistemi informatici estremamente potenti,
introducono rapidamente l’automazione, sono aziende affidabili con una potenza
finanziaria importante e quindi i grandi gruppi manifatturieri possono incominciare a
pensare di affidare a loro, di esternalizzare, alcuni segmenti della logistica che prima
non esternalizzavano semplicemente perché non trovavano dei partner adatti. Gli anni
’90, con l’ingresso di questi operatori sul mercato e la trasformazione dei grandi
forwarder (Kühne&Nagel, Panalpina, DSV) in operatori logistici conto terzi, segnano
veramente l’inizio dell’era moderna: da qui deriva l’e-commerce e la spinta verso
l’outsourcing. Gli stati europei, in particolare la Germania e l’Olanda, fanno, con
un’indubbia visione strategica, delle importanti operazioni di acquisizione in questo
settore: le poste olandesi acquistano TNT e Deutsche Post acquista DHL. Va detto che la grande differenza fra questi servizi espresso e i vecchi spedizionieri è che questi ultimi nascevano in prevalenza dal trasporto su strada mentre i primi erano
specializzati nel trasporto aereo.
Uno dei più importanti manager di grandi imprese di logistica in Italia usava dire che
in Italia la logistica è “usa e getta”. Lo si capisce bene perché: c’è una ridotta
presenza di grandi imprese, le piccole e medie imprese vendono franco-fabbrica ed è
comprensibile che continuino a farlo. Oggi come oggi, se facessimo un’analisi di quello che è rimasto del sistema manifatturiero italiano dopo la crisi del 2008 anche i più
ottimisti osservatori ammetterebbero che solo un 30% del nostro apparato
manifatturiero è riuscito ad inserirsi nelle reti globali, il resto non si sa ancora quanto
potrà resistere. La caratteristica della logistica italiana è che è una logistica di
distribuzione, una cosa completamente diversa dalla logistica tedesca. Negli anni 90
arrivano in Italia tutti i grandi retailer e questo mette in moto un mercato
dell’immobiliare logistico che oggi ha raggiunto delle dimensioni abbastanza
impensabili anni fa. L’anno scorso il fondo sovrano cinese (China Investments
Corporation) ha comprato in un colpo solo per 12.2 miliardi di euro tutti i magazzini di
Blackstone esistenti in Europa. In Italia il magazzino multi-cliente o di un solo marchio
diventa il fulcro della logistica – cosa che non avviene in Germania dove il fulcro della
logistica resta sempre l’azienda manifatturiera. Dati sulla logistica italiana sono
pochissimi. Su questo sta lavorando l’Osservatorio del Politecnico di Milano,
incominciando con l’accertamento del numero delle imprese operanti; hanno dovuto
fare un faticosissimo lavoro di pulizia negli elenchi delle Camere di Commercio e la
situazione più o meno è questa qua:
Autotrasportatori, società di capitali 13.519
Autotrasportatori, società non di capitali 73.017
Spedizionieri 2.372
Operatori Logistici 1.058
Gestori di magazzino 4.426
Corrieri/corrieri espresso 631
Gestori di Interporti/terminal intermodali 84
Operatori del trasporto ferroviario e combinato 38
(Fonte: Osservatorio sulla contract logistics “Gino Marchet” del Politecnico di Milano)
Incredibile frammentazione di autotrasportatori e spedizionieri, quindi debolezza. I corrieri sono il gruppo più forte perché, pur essendo in numero limitato, come volume
di fatturato superano tutti gli altri. Questo conferma una volta in più quello che dicevo
prima ovvero che la logistica in Italia è una logistica di distribuzione.
È abbastanza interessante osservare la struttura d’impresa di queste aziende di
logistica. Mi è sembrato utile riportare questa sentenza dell’Autorità per le telecomunicazioni che, avendo sanzionato GLS Italy – è una controllata di Royal Mail – ne ha prima analizzato la struttura d’impresa. Queste non possono essere definite
imprese ma galassie di imprese, i cui rapporti reciproci sono molto difficili da
ricostruire in un sistema organico.
“Pur essendo soggetti giuridicamente distinti, sul piano operativo non c’è autonomia
dei singoli affiliati nell’erogazione dei servizi. Infatti, per come è strutturato il
funzionamento del network, le singole spedizioni non sono gestite da un unico
operatore autonomamente, ma da una pluralità di operatori appartenenti al Gruppo,
ciascuno dei quali concorre all’erogazione del servizio attraverso lo svolgimento di una
delle distinte fasi in cui si articola il processo produttivo (raccolta, smistamento,
trasporto e consegna degli invii). Ciascun affiliato è tenuto a svolgere la propria
attività in una zona circoscritta del territorio nazionale, con l’obbligo di: affidare le
spedizioni destinate alle località esterne ad essa agli altri affiliati competenti
territorialmente; servirsi a tal fine dell’attività di smistamento e di collegamento tra le
varie sedi svolte da GESC; distribuire all’interno della propria zona le spedizioni che
provengono dalle aree di competenza di altri affiliati.” (Delibera n. 246/17 CONS)
Il gruppo sostanzialmente delega alle società satellite singoli segmenti del ciclo con
una differenziazione territoriale fortissima per cui riuscire a capire com’è fatta questa
azienda è un problema, che si riflette negativamente soprattutto nelle relazioni
sindacali. Sarebbe importante avviare una conricerca sui cicli operativi di queste
società, come negli Anni 60 sono stati ricostruiti dalla militanza operaista i cicli
produttivi e le postazioni lavorative d’importanti aziende. La grande differenza
consiste nel fatto però che il ciclo operativo di un operatore logistico o di un grande
corriere non è la parte più preziosa della sua struttura. E’ il sistema informatico che gli
consente di essere competitivo e che lo differenzia dai suoi concorrenti. Avere
informazioni su quello è pressoché impossibile.
Due parole sull’e-commerce che oggi sta occupando una larga fetta del mercato. Negli
Stati Uniti si parla già di Apocalypse Retail, si parla di circa 100/200 mila posti di
lavoro che vengono perduti nella grande distribuzione (Walmart e così via) in seguito
all’e-commerce. Potremmo elencare tutta una serie di effetti davvero devastanti che
l’e-commerce ha portato, innanzitutto sul versante della logistica urbana. Abbiamo
lavorato tanti anni per inventarci una city logistics sostenibile, razionalizzando entro
certi limiti il trasporto delle merci in città, l’espansione dell’e-commerce la fa saltare
completamente. L’Interporto di Padova, per esempio, aveva cercato di compattare
l’atomizzazione delle consegne in città, affidandole a un unico operatore autorizzato,
questa cosa qua è saltata completamente perché oggi i veicoli dell’e-commerce stanno
creando una situazione incontrollabile. La deregulation caratteristica del trasporto
internazionale – che ha devastato il trasporto internazionale delle merci su strada da
quando i paesi dell’Est sono entrati nell’Unione Europea (prima i trasportatori polacchi,
rumeni, bulgari hanno massacrato il mercato e poi le aziende di trasporto europee
hanno aperto filiali in questi paesi per poter assumere autisti alle condizioni
contrattuali e normative locali) – si sta interamente trasferendo nel trasporto urbano e
nel trasporto a corto raggio. E questa deregulation produce tutti gli effetti negativi che
si sono avuti e si stanno avendo per il logoramento fisico degli autisti e per lo
sfruttamento che è arrivato a livelli incredibili – non ho mai visto un magistrato
contestare il reato di riduzione in schiavitù, questo è stato fatto nei confronti di
un’azienda di trasporto del lodigiano.
Su Amazon si dovrebbe fare un discorso a parte. Non soltanto per la potenza che è
Amazon ma perché Amazon esplicitamente fa una politica di no union,
dichiaratamente dice di non volere relazioni sindacali, basta vedere quello che succede
in Germania. Amazon è entrata in Germania nel 2013 – credo a maggio – e ad agosto
il “New York Times” pubblicava un articolo in cui diceva che forse gli europei non
avevano capito che Amazon aveva già stroncato tutti i tentativi di sindacalizzazione
all’interno e avrebbe fatto altrettanto in Europa. Cosa che puntualmente ha messo in
atto, lo fa in Germania con il sindacato Ver.di che pure è il più potente sindacato
tedesco; ha continuato a scioperare e bloccare alcuni magazzini nel Black Friday o a
Natale 2017 ma Amazon non ha ceduto. Amazon è una provocazione ai nostri costumi
di relazioni sindacali, la sua nuova strategia crea una soddisfazione di bisogni superflui
– il ragazzotto che vuole a tutti i costi avere il gel per i capelli nel giro di 3⁄4 d’ora
anche se costringe un furgone a portare solo quello.
Da una parte c’è una deregulation selvaggia nel trasporto su strada, dall’altra un
controllo iper-tecnologico sulla forza lavoro. Io porto sempre l’esempio del camion
Mercedes-Benz dotato di 400 sensori, mediante i quali si può tenere sotto
osservazione il funzionamento di ogni piccola apparecchiatura e meccanismo del
camion, intervenire in tempo reale sulle anomalie, programmare meglio la
manutenzione, consumare meno gasolio. Questa cosa viene data in service alle
società che acquistano il camion. In questo modo si riesce a controllare lo stile di
guida dell’autista, esercitando un controllo remoto che in teoria sarebbe vietato dallo
Statuto dei Lavoratori. Se si pensa al controllo esercitato direttamente sulla forza-
lavoro alla catena di montaggio, questo è molto più invasivo. E questa è una fase
dell’Internet of things alla quale seguirà quella più avanzata della cloud connectivity.
Quindi si verifica una polarizzazione estrema tra deregulation – per cui girano dei
camion che non hanno alcun tipo di autorizzazione sui trasporti pericolosi – e controllo
iper-tecnologico.
Sui porti e sullo shipping posso dire qualcosa di più perché da 4/5 anni mi occupo in
particolare di questo settore (si vedano le mie due pubblicazioni Banche e crisi. Dal
petrolio al container e Tempesta perfetta sui mari edite da Derive&Approdi nel 2013 e
2016). Qui il mercato ha raggiungo livelli di perversione sorprendenti e persino
divertenti, se non fosse che le spese le pagano i lavoratori. Com’è noto le grandi
compagnie di navigazione, soprattutto nel container, hanno avuto un periodo molto
difficile ed hanno reagito da un lato con un processo di consolidamento che ha creato
una pericolosa situazione di oligopolio, dall’altro mettendo in servizio delle navi giganti
per esasperare le economie di scala ma che creano non pochi problemi ai porti, alle
infrastrutture in genere e alle città portuali. Dopo un 2016 disastroso che ha visto il
crollo della compagnia coreana Hanjin e un 2017 positivo, secondo lo Shangai
containerized freight index stiamo di nuovo assistendo, nel 2018, a un crollo dei noli
parallelo all’aumento dei prezzi del petrolio. Nello shipping italiano il disastro è
completo, l’80% delle compagnie armatoriali italiane vive appeso alle banche e queste
le tengono in piedi artificialmente, le rappresentanze datoriali si stanno sfaldando: si è
spaccata Confitarma che era praticamente diventata un’associazione al servizio di
Grimaldi e Grimaldi ha costituito una cosa interessante, una specie di partito sotto
forma di associazione, l’Associazione per la logistica sostenibile, Alis. A questa
associazione partecipa quasi tutto l’autotrasporto meridionale, partecipano i porti
siciliani che hanno rotto con Assoporti, spedizionieri, alcuni Interporti, un mondo
variegato di circa 1.300 imprese. Dalla spaccatura di Confitarma è nata Assoarmatori,
è in corso una guerra furibonda tra Grimaldi e Onorato – come si vede dagli annunci a
pagamento che questi pubblica sui quotidiani – che in realtà nasconde un conflitto più
vasto tra Grimaldi e Aponte, patron di MSC. Ambedue le associazioni rivali però sono
d’accordo nel colpire il lavoro portuale sulla tematica dell’autoproduzione.
Per quanto riguarda i porti è presto detto, abbiamo una situazione in cui ormai ci sono
degli operatori che hanno il controllo del 40% del mercato dei terminal ma controllano
il 90% del trasporto ferroviario e riescono a fare il prezzo che vogliono. Abbassando il
pezzo del trasporto su ferro, gli autotrasportatori, già ridotti al lumicino, sono costretti
ad abbassarlo di più mentre debbono far fronte all’aumento del gasolio e dei pedaggi
autostradali. Grandi porti di transhipment come Gioia Tauro sembrano entrati in una
crisi irreversibile, Cagliari sta saltando come porto di transhipment, Taranto è già
saltato; il traffico si concentra nei grandi porti (Genova, La Spezia, Trieste) e la
concentrazione è alimentata dal gigantismo navale. Quindi c’è una polarizzazione per
cui in certi porti la congestione è su livelli critici e in altri porti il traffico si sta
riducendo o è un traffico di seconda battuta. Non so quali saranno le successive fasi di
questa trasformazione, sarà decisiva la politica della Cina che da un lato preme per
abbassare il costo del trasporto, dall’altro finanzia la costruzione d’infrastrutture con le
quali presidia le rotte, in un quadro nel quale i finanziamenti statali alle imprese cinesi
metteranno a dura prova le compagnie europee, come Maersk, MSC, CMA CGM,
Hapag Lloyd. Tutto ciò continua ad avvenire in una situazione di ordini dati ai cantieri
che continuano ad essere molto alti e di navi giovanissime che vengono mandate in
demolizione. Cinesi e arabi hanno sostituito la Germania nel finanziamento dello
shipping e danno dei crediti fino al 100% del valore della nave a patto che la nave
venga costruita nei cantieri di loro gradimento. La concorrenza nella cantieristica tra
Cina, Corea del Sud e Giappone, nella quale cerca d’inserirsi STX-Fincantieri, ha
portato i prezzi del naviglio nuovo a dei livelli così bassi che i proprietari non esitano
ad acquistare anche se sanno che avranno difficoltà a trovare carico sufficiente. Il
problema non è la redditività del trade, è la posizione nel mercato finanziario, quella
per cui più si è indebitati con il sistema bancario meno si è vulnerabili. La logica del
too big to fail.