Quello di Soumaila Sacko, il migrante maliano 29enne e attivista di USB colpito alla testa da una fucilata sparata da decine di metri, è un omicidio dal mandante politico.
Il “tiro al nero” (che ha portato anche al ferimento di un altro ragazzo africano) avvenuto nel tardo pomeriggio di sabato 2 giugno nei pressi di una fabbrica abbandonata in contrada Calimera di San Calogero, vicino Rosarno, si staglia come un riflesso pavloviano della prima uscita pubblica da Ministro dell’Interno di Matteo Salvini, che solo qualche ora prima aveva subito ripreso a soffiare sul fuoco dell’intolleranza razziale parlando di respingimenti e di “fine della pacchia per i clandestini”.
Un crimine efferato e tremendo che esemplifica in maniera drammaticamente concreta il salto di qualità che incarna il nuovo governo giallo-nero, in un contesto politico e sociale già palesemente polarizzato sul tema migrazioni. . Da parte del potere è allora necessario legittimare (anche nella forma dell’assenza di condanna: qualcuno ha per caso sentito qualche esponente del governo proferire parola sull’omicidio di Rosarno, fino ad oggi?) il susseguirsi di questi comportamenti, dando l’impressione che siano alla fin fine tollerabili magari frutto dell’esasperazione sociale(?) e alimentando un diffuso senso d’impunità nei confronti di atti discriminatori e persino degli atti terroristici a matrice razziale. La violenza che ha ucciso Soumaila Sacko è in perfetta continuità con quella espressa negli attacchi ai centri d’accoglienza, nel crumiraggio squadrista ai cancelli dei magazzini e nel radicato sistema di caporalato nei campi e negli appalti. Una violenza che si scaglia, è necessario sottolinearlo, principalmente contro chi si organizza ed è protagonista delle lotte operaie per rivendicare diritti e dignità, oppure contro chi pratica la libertà di movimento e l’aspirazione ad una vita migliore. Per questo l’omicidio di Rosarno è esemplare. Come ADL Cobas ci stringiamo profondamente intorno alla sua famiglia e ai suoi compagni/e, non solo perché sentiamo sulla nostra pelle il dolore di questa insensata perdita, ma soprattutto perché crediamo che il modo più corretto per onorare Soumaila sia quello di continuare la battaglia che quotidianamente uomini e donne come lui portano avanti per un futuro migliore, per tutti e tutte noi. Risponderemo dunque al razzismo e a questi atti terroristici continuando insieme a tanti/e altri/e ad organizzarci e mobilitarci nei luoghi di lavoro e nei territori, contro le diseguaglianze e la criminalizzazione dei migranti, per un permesso di soggiorno e diritti per tutti sganciato dal ricatto del contratto di lavoro, contro lo sfruttamento e la precarietà, contro il nuovo governo reazionario a guida Salvini – Di Maio.
L’impressione è che al pensiero razzista ormai entrato nel senso comune e nella retorica politica non solo leghista, non seguiranno solo le politiche di restrizione dell’accoglienza e dell’inclusione sociale, la normalizzazione del lavoro coatto gratuito e l’ulteriore compressione dei diritti e delle libertà dei e delle migranti, come prospettato dal programma politico del “contratto di governo”.
Piuttosto, sembra di essere entrati in pieno in un clima alla Mississippi burning, dove l’odio verso il migrante (e il) povero, già alimentato dalle politiche targate Minniti, è ormai divenuto elemento costitutivo di una certa idea di società e, in un certo senso, può esserne considerato fattore sistemico
Infatti, per la piena affermazione dei dispositivi di profonda gerarchizzazione del lavoro vivo sulla linea del colore diviene necessario non solo mantenere e se possibile irrigidire i meccanismi normativi d’accesso differenziale alla cittadinanza, ma persino legittimare su tutti i livelli ed in ogni senso la discriminazione e l’inferiorizzazione del migrante, per consolidare apertamente forme segregazioniste e neo-schiavili.
Lo vediamo nei campi del sud (e non solo) Italia, ma anche negli stabilimenti industriali del nuovo triangolo industriale a nord-est così come lungo le filiere della logistica e della grande distribuzione organizzata, dove il lavoro gratuito o sottopagato, il grave sfruttamento lavorativo e il caporalato sono imperniati nei settori più rilevanti del capitalismo nostrano e spesso subiti da manodopera migrante.
Non si tratta di una “semplice” operazione di creazione e mantenimento del consenso politico-elettorale, ma, in qualche maniera, rappresenta anche una terribile forma di disciplinamento, un monito, criminale quanto profondamente politico, nei confronti di soggetti sociali che, al contrario, in questi anni hanno dimostrato di saper mettere in campo movimenti di lotta e rovesciamento della propria condizione di subalternità che hanno sfidato la governance del capitalismo neoliberista in Italia e in Europa.
Soumaila viveva nel ghetto di San Ferdinando, dove sono costretti ad ammassarsi i braccianti stranieri della Piana di Gioia Tauro. Là svolgeva una dura attività sindacale, in prima linea contro lo sfruttamento dei caporali e per i diritti dei braccianti.
Nel silenzio assordante del Paese e soprattutto della politica, la reazione degna all’omicidio arriva proprio da loro, dai suoi compagni di lotta e di vita che nella giornata di ieri, 4 giugno, hanno proclamato una sciopero generale nelle campagne e squarciato il velo che vorrebbe questi soggetti invisibili e passivi. Perché, se così non è, nel momento in cui ambiscono a rovesciare la propria condizione di sfruttamento e subalternità, è la loro stessa presenza a divenire intollerabile e l’esistenza ad essere messa in dubbio.