Tra realtà e rappresentazione di un pregiudizio.
Questo non è uno sgombero
Dopo più di tre anni, il 23 Marzo, si è conclusa l’esperienza di Casa dei Diritti don Gallo. La palazzina al numero 90 di via Tommaseo, uno spazio troppo vivo e colorato rispetto alla sua posizione, tra la fiera, vetrina di una condizione umana moderna dettata dalle logiche economiche, e i palazzoni universitari, che regolano l’ossigeno somministrato a studentesse/i cacciatrici/ori di crediti, ora ha un altro aspetto con le inferiate alle porte, i cancelli incatenati e nessuno ad animare più il suo giardino.
Casa don Gallo, un luogo troppo complesso da concepire e anche solo da immaginare per tutti coloro che hanno bisogno di etichette, di solide realtà e di certezze a cui aggrapparsi per poter narrare, relazionarsi e cercare di controllare il mondo che gli sta intorno, quando invece la contingenza attuale e degli ultimi anni ci porta sempre più a capire quanto la realtà sia ben più articolata di quanto appaia e che quindi sia importante metterla quotidianamente in discussione.
Casa don Gallo che con la sua sola esistenza ha innalzato la critica ad un sistema ben più complicato del rapporto migrazioni-pratiche di “Accoglienza”-società civile. Una posizione quella della don Gallo che ribaltava discorsi e retoriche di pensiero dominanti, riportando la questione ad un nucleo centrale, l’essere umano, in tutte le sue svariate sfaccettatture, con tutti i suoi innumerevoli bisogni e necessità. La palazzina, sfitta ormai da anni, è stata infatti occupata per necessità, per il bisogno di esseri umani abbandonati da un sistema politico e da istituzioni non all’altezza di prendersi in carico queste persone. Un sistema incapace di gestire una situazione che di emergenziale ha solo le modalità con la quale viene gestita. Una occupazione, quella del 18 Dicembre 2013, che in sè è quindi domanda e risposta.
E se le risposte offerte da Casa don Gallo sono state svariate, le domande poste sono tuttora in attesa di una risposta. Domande che pongono una riflessione che spazia sui più svariati temi: il diritto all’abitare, al vivere insieme inteso come proficua ricerca e condivisione dell’alterità che è dentro ognuno, al lavorare, ad una salute degna, al sentirsi a casa nel luogo in cui si vive, ad una scelta individuale, ad un rispetto per una condizione umana che è tale al di là di qualche documento o pezzo di carta che regolarizza l’ingresso, il soggiorno e l’accesso ai servizi, e tante altre questioni ancora.
Perciò, sia chiaro fin da subito, il parlare di diritti e di condizioni di vita dignitose per le/i migrant*, per le/gli stranier*, è uno strumento per misurare il livello di welfare e di politiche pubbliche in uno stato che si autoproclama civile e moderno. Quindi, a ben dire, la lotta delle/dei migrant* per una condizione migliore in tutta Europa è, e deve essere, una lotta da combattere insieme, per i diritti di tutt*.
La lotta degli abitanti di Casa don Gallo, in questi anni non si è mai fermata, nonostante i numerosi ostacoli e il disinteresse per la condizione della struttura e degli ospiti da parte di innumerevoli attori istituzionali. Chi per la casa è arrivato, transitato o ha soggiornato, ha condiviso e arricchito l’esperienza di vita, di lotta e di rivendicazioni sostenute dagli abitanti e dagli attivisti. Istanze ad ampio raggio e che si sono concretizzate in innumerevoli partecipazioni e atti di solidarietà nei confronti di diverse vertenze e mobilitazioni per svariate questioni che in questi tre anni hanno permesso a diverse realtà cittadine di intrecciare il proprio percorso con quello di Casa don Gallo, a testimonianza che, nonostante tutte le difficoltà incontrate, ci fosse un costante fermento di riflessioni su ciò che in questo paese non funziona e che coinvolge tutt*. A conferma che ci fosse una soggettività, una agency, attiva e mai sopita in questi soggetti che urlavano al mondo di smetterla di considerarli come semplici rifugiati, come richiedenti asilo, come “poverini”, senza concretezza e in balia degli eventi intorno a loro. Piuttosto se una tale descrizione gli è stata affibiata, lo si deve alle istanze e alle modalità di un sistema di accoglienza precario e insoddisfacente, che invece di creare percorsi di crescita, libertà e di empowerment volti all’inserimento, indipendente e autonomo, in una società diversa da quella di provenienza, per molti versi produce episodi di mala gestione e assenza di progettualità con e per le persone che ne sono all’interno, che in ultima analisi più che vivere attivamente queste pratiche le subiscono. In questo scenario, l’operato di cooperative dalla facciata filantropica e di operatori umanamente mediocri e impreparati, se non è legittimato, è di fatto ignorato da quelle istituzioni e da quel mondo politico che sta assumendo sempre più, ora e negli ultimi anni, una posizione di profonda avversione, rigetto e repulsione verso questo ambito, osteggiando con un comportamento per niente velato, bensì sbandierato a gran voce, qualsiasi soluzione e esperienza positiva con politiche discriminatorie e razziste, interpretazioni discrezionali delle norme e fomentando, attraverso la collusione dei mezzi di informazione, un clima di terrore e paura generalizzato.
Questo il contesto dell’esperienza di Casa don Gallo, e se i momenti difficili arrivano nel più svariato dei modi, e ci vuole tenacia e collaborazione per superarli, serve anche averne una chiara lettura per evitare mistificazioni e narrazioni errate o strumenatlizzabili. E’ a questo proposito che riteniamo necessario ribadire quello che ha significato la giornata del 23 Marzo scorso, con uno sguardo più completo che vada al di là della giornata in sè e che invece consideri i mesi precedenti e il percorso che ha portato a tale evento.
Si è tanto scritto, letto e discusso di uno sgombero di Casa don Gallo. La diffusione del nostro comunicato in quella data e le interviste fatte ai militanti andavano chiaramente in una direzione opposta a questa lettura degli eventi, e, a ben dire, di sgombero non si può affatto parlare. I dati oggettivi infatti parlano chiaro. Quasi una trentina di ospiti della casa che sono stati assegnati a cooperative e associazioni per l’avviamento in un progetto di borse lavoro, oltre a chi è riuscito a rientrare nel percorso dell’accoglienza, a testimoniare la lettura distorta cavalcata dall’ex sindaco Bitonci e da tutto uno schieramento politico e poi avvalorato e riproposta dai mezzi d’informazione cittadini, per cui gli abitanti della casa non erano altro che clandestini, finti richiedenti asilo e immigrati stranieri senza il diritto di trovare un posto in queso Paese. All’idea della chiusura invece di opporci abbiamo quindi deciso di rilanciare la necessità di un superamento della casa, che permettesse di individuare un soluzione degna per gli abitanti, continuando a domandare a gran voce una presa in carico da parte delle autorità cittadine della situazione in cui si trovavano questi abitanti della città, osteggiati solo per il colore della pelle nella ricerca di lavoro, di una sistemazione e di proposte adeguate per la prosecuzione di una vita dignitosa. Il percorso non è stato semplice e sono passati mesi prima che si arrivasse alla certezza di valide alternative per la condizione di alcuni ospiti della casa. L’unica certezza invece era l’effettiva e quanto mai imminente chiusura, come se la domanda principale a cui si era risposto con l’occupazione, non fosse stata ancora presa in considerazione.
“Che fine faranno gli altri occupanti della casa?”, “Dove andranno?”. Nessuno sembrava interessato a queste questioni. Tanto meno quelle forze politiche e istituzionali, che urlando al degrado cittadino e soffiando sulle braci della paura e dell’odio razziale, hanno ignorato quanto Casa don Gallo sia stata una indispensabile realtà cittadina nell’ospitare e dare spazio a chi in città nessuno voleva ospitare e che quindi l’unico luogo che avrebbe potuto trovare sarebbe stato quello della strada. Alcuni ora su quella strada sono tornati, dopo esser usciti dalla palazzina quel giovedì mattina, e nei giorni precedenti, in ogni caso prima dell’arrivo degli operai del comune, accompagnati dalle forze dell’ordine, che hanno trovato la casa vuota e che l’unica cosa che hanno sgomberato è stato il giardino, dalle rimesse in legno costruite in questi anni e che ospitavano una serie di attività che hanno permesso alla casa di diventare un luogo di ritrovo anche per chi in realtà alla casa non viveva nemmeno, ma transitava per godere di uno spazio comune libero, in cui chiunque era ben accetto e accolto, con quell’accoglienza e solidarietà africana dalla quale si può solo imparare.
Casa dei Diritti don Gallo è chiusa. Non esiste più. Le domande che aveva posto però restano, questioni irrisolte e ancora ignorate, percorsi umani ancora senza una soluzione. Nuove lotte che non sono altro che la conferma che quella lotta iniziale, che ha portato all’occupazione a fine 2013, non si è ancora arrestata. Una lotta che guarda ben oltre la chiusura della casa, che guarda oltre coloro che ora sono rientrati nelle borse lavoro e che guarda con solidarietà a chi ora è per strada qui a Padova, ma anche altrove. Una lotta che, se da un lato considera l’esperienza di Casa don Gallo, e di tutte le case don Gallo, esistenti e a venire, come una valida realtà e come lo spazio per dare luogo a una progettualità altra e condivisa che parta dal basso e che miri con fermezza a scardinare e a mettere in discussione l’attuale contigenza socio-politica, culturale ed economica, dall’altro lato punta direttamente ad un ribaltamento di questa realtà attraverso una serie di azioni, narrazioni e di consapevolezze che creino delle alternative a questo sistema, che siano differenti non solo nel modo di costruirlo ma anche di immaginarlo e di concepirlo. In ricordo della casa, delle persone che vi hanno vissuto e di quelle pratiche essenziale di dialogo, di interazione e di mediazione tra esperienze e vissuti fra di loro svariati.