La discussione ha riguardato in particolare il dibattito che sta nascendo, in Italia e altrove, sul concetto di green new deal.
Partiamo dall’Italia, e in particolare dall’ultima crisi politica e dalla formazione del nuovo governo. Tra i ventisei punti di accordo di programma del nuovo governo PD-M5S, si parla per la prima volta di green new deal, un concetto che in Italia non era mai stato utilizzato.
Questo potrebbe essere interpretato come una prima piccola vittoria, anche se molto relativa – del movimento per la giustizia climatica italiana. Movimento in cui convergono anime diverse che vanno dai vari comitati locali di “Friday for future” ai più strutturati movimenti contro le grandi opere. Senza le mobilitazioni portate avanti in questo anno probabilmente non sarebbe iniziato neanche un ragionamento del genere all’interno della negoziazione per la formazione del nuovo governo.
Il vero problema è che di reale, all’interno di questo ragionamento portato avanti dalle due forze di governo, non c’è probabilmente nulla. C’è una differenza enorme tra la proposta italiana e quella fatta originariamente dalla parlamentare democratica Alexandria Ocasio-Cortez. È stato un tentativo di agganciarsi a una tematica e a una serie di lotte che in questo momento in Italia e nel mondo stanno aggregando molto, soprattutto a livello giovanile.
Le politiche e i provvedimenti portati avanti sia dal M5S che dal PD, seppure in due governi diversi, come lo Sblocca Italia e lo Sblocca Cantieri, sono ben lontani dalla logica del green new deal. Quest’ultimo è il nome di un problema, ossia il rapporto tra lotta alle diseguaglianze e la preservazione ambientale.
Il problema si pone dentro la crisi di un tentativo, della green economy o green capitalism, da parte di una certa élite di risolvere la crisi climatica e ambientale attraverso dei meccanismi di mercato. Utilizzare la logica del profitto, che si nutre delle diseguaglianze, può secondo questa teoria risolvere la crisi climatica. In sintesi il problema della crisi climatica non è la povertà, ma i poveri.
Questo meccanismo, dopo la Cop 24, è andato in crisi; quindi ancora oggi si pone il problema tra diseguaglianza e preservazione ambientale.
Questo problema si pone perché il new deal originale, ossia quello di Roosvelt, aveva in effetti una finalità nel ridurre le diseguaglianze. All’epoca infatti, la scelta è stata quella di includere all’interno del sistema capitalistico le classi lavoratrici. Le lotte per il welfare, grande conquista delle lotte operaie, hanno introdotto una riduzione del divario economico all’interno del sistema capitalistico con il risultato di un’inclusione delle classi lavoratrici all’interno del grande sistema.
Questo meccanismo, nel corso degli anni, si è cibato del “paradigma della crescita”, ossia un modo per differire la lotta di distribuzione primaria del reddito. L’idea era di includere le classi lavoratrici mantenendo stabili i rapporti tra salari e profitti. Se però, come avvenuto, salgono solo i profitti e non i salari, il blackout è dietro l’angolo. I perdenti di questo modello welfarista sono stati i soggetti della riproduzione sociale: il lavoro domestico, identificato con le donne; il lavoro servile, quindi legato alle colonie; l’ambiente. I soggetti della riproduzione sociale, in questo modello, sono stati sempre identificati come infinti e gratuiti.
Con la crisi ecologica degli anni Sessanta e Settanta quel modello si interrompe. Oggi si riprende il ragionamento di quel modello, sapendo che i soggetti della riproduzione sociale non sono né infinti né gratuiti. Come si riduce la diseguaglianza attraverso la protezione dell’ambiente e non attraverso quel sistema di impatto ambientale legato al modello delle opere pubbliche, che incensava ogni nuova struttura perché sintomo di crescita economica e di benessere?.
Questo è un problema molto rilevante e di non facile soluzione. Una prima risposta è arrivata dai gilet gialli i quali hanno mostrato che se si deve parlare di transizione ecologica è bene mettere in evidenza chi deve pagarla. Devono pagarla la classi che hanno beneficiato di questi anni di neoliberalismo e non certo chi da sempre si è trovato a dover pagare le conseguenze delle diseguaglianze. È quindi necessario che la transizione ecologica la debba pagare chi sta producendo il cambiamento climatico.