La disgregazione della giunta di Massimo Bitonci pare aver liberato le energie intellettuali che erano rimaste prudentemente al coperto nel corso degli ultimi due anni e mezzo. Mentre i partiti continuano a brancolare nel buio per trovare un candidato in grado di rimettere la città nel suo piedistallo che merita, le proposte per il rilancio della città cominciano a fioccare. Qui eviteremo accuratamente di farci prendere la mano e indicare una qualche direzione da prendere; metteremo piuttosto in luce come sia cambiata la città in questi ultimi dieci anni dal punto di vista economico e soprattutto lavorativo.
La crisi economica cominciata nel 2008 ha ulteriormente ridotto il settore industriale attraverso sia la chiusura delle aziende sia la diminuzione del numero di dipendenti. La metalmeccanica, uno dei fiori all’occhiello della manifattura patavina, ha subito una riduzione del 20% delle attività nell’arco degli ultimi otto anni e conta ormai solo circa 4300 occupati. La riduzione è andata di pari passo con la miniaturizzazione delle imprese che ha riguardato tutto il settore manifatturiero ormai ridotto a una manciata di imprese con più di 2-300 occupati.
In particolare, nella zona industriale si è progressivamente allargata l’area della logistica e del commercio all’ingrosso e al dettaglio con 1.500 aziende insediate che occupano circa 20.000 addetti.
La dilatazione del terziario avviata negli anni Ottanta si è così approfondita e oggi conta l’80% degli assunti in città.
Tuttavia, neppure in questo comparto, i risultati economici sono stati particolarmente brillanti. Commercio, logistica e servizi alla persona rappresentano i comparti principali per quanto riguarda il settore privato.
A Padova, tuttavia, è il settore pubblico a costituire la spina dorsale delle attività economiche perché non solo fornisce lavoro direttamente a migliaia di persone, ma sviluppa un indotto altrettanto poderoso.
Prendiamo il caso dell’Azienda ospedaliera: circa 4500 dipendenti diretti e diverse migliaia, fino a 10 mila, persone ricoverate che permettono un giro da affari elevatissimo per alberghi, ristoranti, cooperative di pulizia, costruzioni, solo per citarne alcuni. Comprensibile quindi che lo spostamento in un’area periferica dell’ospedale abbia provocato sommovimenti e tensioni tra tutti quelli che eufemisticamente vengono definiti stakeholder. L’articolazione della sanità padovana comprende anche i centri di medicina privati: o meglio privati convenzionati. Quelli che nel nome della sussidiarietà offrono prestazioni sanitarie, incamerando lauti profitti, grazie ai rimborsi garantiti dal denaro pubblico. Una delle tante forme di subappalto in cui sono occupati dai medici agli infermieri, dagli operatori socio sanitari ai centralinisti.
Anche nel caso dell’Università agli oltre 57 mila studenti si affiancano altri 4300 dipendenti (di cui poco meno della metà personale docente), ma anche qualche altro migliaio di precari sia nei ruoli della ricerca sia tra gli amministrativi. E’ evidente il ruolo dell’Università nel sostenere le rendite degli alloggi, ma anche nei servizi a sostegno sia di studenti e dipendenti sia nell’infrastruttura.
Il Comune, non è da meno, con 1800 dipendenti e una capacità di spesa in appalti e servizi piuttosto notevole. Questi tre centri di occupazione e di spesa sono il traino essenziale delle varie attività sia per gli appalti diretti sia per la leva che moltiplica in attività collaterali.
Ma che tipo di condizioni di lavoro e quindi poi di vita si danno in una città medio-piccola la cui entrata nell’epoca della globalizzazione pare averla ridotta al rango di succursale di poteri finanziari che stanno altrove?
Negli ultimi anni tra gli assunti quasi uno su quattro è un o una migrante, e quasi uno su due una donna. Il mercato del lavoro è molto diversificato con una segmentazione sociale e retributiva che si sovrappone, in larga misura, a quella tra italiani e stranieri, sebbene la crisi abbia colpito anche molti autoctoni. Come altrove, le posizioni lavorative nel settore pubblico, e più in generale negli apparati centrali della produzione, sono appannaggio dei cittadini italiani, mentre i migranti devono accontentarsi dei vari rivoli dei subappalti. E’ qui che si ampliata l’area di occupazione a basso salario con ritmi di lavoro nocivi.
Accanto alle cooperative che operano quasi sempre in sub-appalto nella logistica, nella sanità e nel sociale e in cui i livelli salariali medi permangono inferiori a quelli del personale che gestisce tali appalti, un forte sviluppo l’ha avuto anche il sistema dei buoni lavoro, pomposamente chiamati voucher.
Il 2016 si è chiuso con circa 3,5 milioni di voucher venduti nell’intera provincia, quasi 1000 al giorno. Non è ancora dato sapere se effettivamente questi buoni lavoro abbiamo fatto emergere il cosiddetto nero, come era nel proposito normativo, o se abbiano fatto sprofondare il lavoro regolare, sostituendo cioè una prestazione regolata da un contratto con un mero accordo verbale.
Settore commerciale, della ristorazione e del tempo libero (compresa la macchina del divertimento e anche la pubblica amministrazione), così come nel lavoro delle colf, che rimane largamente appannaggio delle migranti, sono i settori prevalenti dove i circa 30-35 mila padovani, giovani e meno giovani, hanno recuperato qualcuno di questi “foglietti” che poi hanno cambiato in euro sonanti.
L’economia urbana basata ormai prevalentemente sui servizi è quindi caratterizzata da una articolazione di imprese, settori e lavoratori che assolvono a una serie variegata di funzioni fondamentali. La logistica, ad esempio, richiede capacità di gestione just-in-time di processi produttivi internazionali nei quali sono occupati sia figure di alto livello sia decine di facchini che lavorano nelle cooperative del sudore attraverso il meccanismo del sub-appalto e che, giustamente, hanno messo in campo tenaci forme di conflittualità per cercare di togliersi dalla poco invidiabile situazione dei sacrificabili. Allo stesso tempo, la produzione scientifica e la didattica di ricercatori e docenti universitari sono sostenuti sia dalle figure amministrative e tecniche sia dal precariato intellettuale sia infine da quanti sono occupati nei servizi diretti e indiretti che garantiscono tali prestazioni.
La gradazione delle varie figure lavorative rimanda a una precisa linea del colore che non impedisce agli autoctoni la discesa tra i bassi salari e le mansioni nocive, ma che rende il privilegio del colore della pelle un elemento essenziale per salire la scala gerarchia (e salariale). Queste diverse figure lavorative abitano gli stessi luoghi che vanno diventando sempre più segmentati e razzializzati.
Non si tratta solo di pratiche discriminatorie, quanto piuttosto l’accettazione di un ordine sociale in cui la differenziazione di destino viene ritenuta come un dato per scontato. Più che una polarizzazione sembra di assistere al diffondersi di molteplici forme di incasellamento dalle quali gli individui faticano a emanciparsi, sebbene nell’ambiente urbano la diversificazione degli spazi permetta di trovare forme di espressione che possono esulare dalla propria appartenenza.
Vero è che i processi economici e lavorativi cittadini solo in minima parte si esauriscono all’interno del reticolo urbano, visibile non solo nello sforamento dei livelli di inquinamento per quasi un terzo dell’anno. La città non è infatti un luogo spaziale delimitato e circoscritto al cui interno tutte le dinamiche prendono forma e si esprimono, quanto un sito strategico in cui molteplici processi economici e lavorativi si materializzano e si intersecano producendo nuove formazioni sociali. Ma le trasformazioni verso l’economia dei servizi acuiscono i fenomeni di marginalità urbana e di povertà dentro la città. Non a caso una gamma sempre più ampia di prodotti e servizi, spesso prodotta da imprese “etniche” viene offerta e orientata al consumo per il crescente numero di lavoratori poveri.
Non si tratta solo di lavoratori manuali o di precari poiché nell’economia dei servizi patavina anche una parte dei lavoratori intellettuali e degli impiegati registra forti difficoltà nell’accedere a prodotti di maggiore qualità e a più alto costo.
Forse la sicurezza urbana passa anche da qui: salari dignitosi e un welfare esteso che incrinino una società che pare essere ritornata a forme di diseguaglianza difficili da scalfire nei passaggi generazionali.
Ma non sarà facile convincere chi, nel chiuso di qualche salotto della città che conta, già definisce le strategie future su come ricostruire la nuova città.