di Stefano Re, ADL Cobas Bologna
Una rinnovata attenzione mediatica si è riversata nella settimana passata intorno alle vicende del settore della consegna del cibo a domicilio tramite applicazioni digitali.
La sentenza di rigetto del Tribunale di Torino nel ricorso di sei ex fattorini contro Foodora prima, un primo esperimento di Carta dei diritti del lavoro digitale a Bologna e l’assemblea nazionale dei/delle rider sempre nel capoluogo emiliano poi, hanno riacceso i riflettori su questo mondo, tra i più attivi – sia da un punto di vista di mercato, sia da quello delle mobilitazioni – nell’arcipelago della cosiddetta gig economy, “economia dei lavoretti”.
A dispetto del termine inglese che induce a pensare ad attività marginali, svolte quasi per diletto e nei ritagli di tempi, il settore del food delivery digitale è l’esempio migliore di quanto sia fuorviante questa definizione. A livello mondiale infatti rappresenta un settore economico in rapida espansione con dei volumi tutt’altro che marginali e continui investimenti da parte di venture capital.
Solo in Italia le previsioni davano un giro d’affari in impennata passando tra 400 milioni di euro del 2016 fino 90 miliardi di euro. In termini occupazionali si stima che sono ormai tra le 3000 e le 5000 le persone impiegate in questa attività, una buona parte delle quali ne trae la primaria fonte di reddito.
Alla questione di un riconoscimento “culturale” del rider come vero e proprio lavoratore o lavoratrice, se ne affianca una ben più seria in merito alle condizioni contrattuali, salariali e di diritti secondo le quali materialmente questo lavoro si svolge.
D’altra parte, pure nella specificità, ciò che attualmente rende possibile “squalificare” il lavoro dei rider alla stregua di un passatempo “addirittura retribuito” per giovani studenti è lo stesso processo d’incessante frammentazione dei cicli produttivi, che crea segmenti lavorativi sempre più atomizzati. E dove, nel caso particolare, l’automazione del comando sulla produzione attraverso l’utilizzo delle tecnologie algoritmiche s’innesta perfettamente creando un rinnovato taylorismo digitale.
Al centro di questo meccanismo, al netto degli anglicismi e della scomparsa apparente del lavoro, vi è però incontrovertibilmente la forza lavoro dei e delle ciclofattorini/e, che vanno interpretati come uno dei soggetti che subiscono la generale trasformazione del lavoro in direzione dell’attuale e profonda precarizzazione lavorativa e di vita.
Nel concreto, i rider svolgono un’attività di logistica metropolitana collegata al settore dei servizi (principalmente di ristorazione, ma ci sono ormai molti esempi non dissimili che fanno riferimento per esempio alla G.D.O.), trasportando dagli esercizi commerciali “ordini” che il consumatore richiede tramite l’applicazione della piattaforma. Se da una parte l’app mette in collegamento domanda ed offerta, d’altra la piattaforma organizza, coordina e dirige tramite i dispositivi di comunicazione mobile l’attività materiale svolta dai fattorini indicando luoghi, orari e tipologia di attività. Anche gli stessi turni assegnati ai ciclofattorini sono decisi dall’azienda.
Eppure, grazie anche alle possibilità per le piattaforme di muoversi incontrastati su uno spazio nuovo e quindi privo di regolazioni chiare e sedimentate, e di un clima culturale teso all’auto-imprenditorialità (vera o soprattutto presunta), sono ridotti al minimo gli oneri economici e i “rischi d’impresa” finora assunti da questi soggetti: gli stessi mezzi necessari (bici o scooter, smartphone e utenza telefonica) per svolgere le consegne sono di proprietà dei fattorini stessi, mentre vengono fornite loro solo le uniformi e i “cubi” per trasportare il cibo con i colori e il logo dell’azienda, così producendo, pressoché gratuitamente, un costante e “involontario” lavoro pubblicitario.
Complementariamente si registra un’assoluta arbitrarietà dal punto del rapporto contrattuale: per la maggior parte regolato come mera prestazione autonoma occasionale (anche se questa si protrae ripetitivamente e continuativamente per settimane, mesi o anni), nei casi più rari come una co.co.co.. In entrambi i casi comunque questi rapporti sono svuotati di tutto: la retribuzione è sganciata da qualsiasi riferimento minimo ed elargita principalmente sulla base di un “cottimo” invece che sul tempo di lavoro messo a disposizione e va da € 4 a 7 lordi/ora e da € 1 a 2,6 / “pezzo”, nessun monte ore è garantito, alcuna attrezzatura adeguata è fornita a tutela di salute e sicurezza, mentre una copertura assicurativa antinfortunistica di natura privata minima e comunque insufficiente è stata strappata solo recentemente dopo pressioni e clamore mediatico.
Per non parlare della completa libertà della piattaforme sull’utilizzo dei dati personali e di quelli prodotti con il lavoro e raccolti tramite app e geolocalizzazione; dell’utilizzo del rating basato su produttività, docilità e “reputazione” usato per “concedere” o meno la possibilità di lavorare; dall’assoluto misconoscimento di una dimensione collettiva dei e delle rider e quindi della loro titolarità a diritti di natura sindacale quali il potersi riunire ed organizzare per far valere collettivamente i propri diritti e persino di poter confrontarsi se non individualmente con responsabili e dirigenti della piattaforma.
Al di là degli specifici contesti normativi nazionali, che vi siano ricorrenti caratteristiche deteriori in questo “nuovo lavoro” tipoco dell’economia di piattaforma lo segnalano, oltre ormai ad analisti e ricercatori, le tante mobilitazioni che a partire dal 2016 a livello europeo hanno animato in maniera intermittente ma crescente i principali centri urbani e metropolitani del continente. In una crescente ondata di conflitto, da Londra, passando per Parigi e Bruxelles, Barcellona e Berlino, fino a Torino, Milano e Bologna, e tante altre città sono ormai decine gli scioperi, le mobilitazioni, le iniziative pubbliche e di protesta che nell’ultimo biennio hanno attirato l’attenzione pubblica e soprattutto posto all’attualità dell’agenda politica e sociale le condizioni di lavoro e di vita di migliaia di questi lavoratori e lavoratrici europei (e non solo dato che recentemente anche ad Hong Kong e in Australia).
Ciò che ci sembra necessario sottolineare è che tutte le istanze di lotta e di “emersione” da una paradossale condizione di invisibilità siano nate da percorsi di auto-organizzazione promossi direttamente dai/delle rider. Una nuova forma di aggregazione sindacale e mutualistica che ha trovato le principali caratteristiche nel protagonismo diretto della forza lavoro, nella naturale apertura verso altri soggetti sociali (singoli, collettivi o già organizzati) e un rapporto con le strutture sindacali di tipo strumentale a salvaguardia della propria autonomia.
Non un rifiuto o un’incapacità quindi dell’agire sindacale ma una sua risignificazione e riappropriazione, nell’ottica di ricostruire un corpo collettivo, rompere l’isolamento individuale e condividere comuni condizioni e aspirazioni, individuare e creare strumenti di mutuo aiuto e mettere in campo pratiche di lotta efficaci.
L’esperienza bolognese di Riders Union, che ieri ha ospitato nello spazio sociale Làbas la prima assemblea nazionale dei e delle Rider, si è sviluppata proprio su questi assi.
Nata a seguito del meeting europeo in concomitanza con il G7 di Torino, l’assemblea dei riders bolognesi si è mossa da subito verso due direzioni: individuare poche e semplici istanze comuni a tutte le piattaforme presenti in città e costruire spazi e strumenti di mutualismo e socialità.
In primo luogo rivendicare, al di là delle specifiche condizioni contrattuali e retributive, sicurezza e salute, paga dignitosa, rifiuto del cottimo, garanzia di occupazione ha permesso di formare un ambito organizzativo e di confronto trasversale ai fattorini di Deliveroo, JustEat, Sgnam e poi Glovo e Foodora, e di porre non solo alle singole piattaforme ma alla città intera la questione delle condizioni del o della rider, ormai circa 300.
Parallelamente, il coinvolgimento di attivisti, anch’essi riders o semplicemente “solidali”, e realtà organizzate non è stato escluso, ma invece valorizzato nel rispetto del principio di autonomia del nuovo soggetto e di protagonismo decisionale dei riders stessi: la messa in rete di spazi solidali e la creazione di punti di ristoro, ciclofficine e dopolavoro sociali ha facilitato ad esempio l’aggregazione e il confronto tra decine di fattorini che prima neanche si percepivano come “colleghi” né si conoscevano.
Così come realtà sociali hanno messo a disposizione i propri spazi, anche come ADL Cobas abbiamo partecipato sin dall’inizio a questo percorso, mettendo a servizio le nostre competenze e gli strumenti sindacali di cui siamo a disposizione per supportare al meglio questa lotta.
D’altra parte, la nostra visione sindacale fonda sulla ferma condizione che l’auto-organizzazione sociale e quindi anche sindacale sia elemento imprescindibile per rovesciare i rapporti di forza e condurre battaglie vittoriose. La necessità di creare organizzazione rimane ma crediamo che la forma che debba assumere deve misurarsi sulle necessità e le caratteristiche che esprime la soggettività e il contesto nel quale questa si viene a trovare. È in questo senso che a Bologna la forma di coalizione tra riders auto-organizzati, attivisti e spazi sociali, realtà del sindacalismo conflittuale non rappresenta una contraddizione ma invece una nuova e finora positiva sperimentazione di quello che potremmo chiamare sindacalismo sociale.
Non è un caso allora che le sigle del sindacalismo confederale e burocratico non siano in grado di intercettare le istanze che sorgono dalle trasformazioni contemporanee del lavoro (e solo recentemente si stiano sperticando per riconquistare il terreno perduto e mai battuto): anche tacendo delle indubbie responsabilità sulla distruzione delle tutele e dei diritti conquistati nei decenni scorsi, è l’atteggiamento paternalistico e interessato che mira a ricondurre questi percorsi nell’alveo concertativo “della parti sociali” che soggettività come i rider e i precari rifiutano!
E d’altra parte, non basta certo inserire qualche parolina magica – come recentemente fatto proprio con il termine rider nel rinnovo bidone del CCNL Logistica siglato dai CGIL,CISL e UIL – per ottenere diritti.
Crediamo invece sia necessario sostenere e ricercare sempre percorsi di conflittualità e allargare le contraddizioni che si intravedono, partendo dalla materialità delle lotte.
È questo che rintracciamo nel tentativo di sperimentare una nuova forma di contrattazione metropolitana nel settore del food delivery che sta prendendo forma proprio a Bologna, con l’ipotesi di sottoscrivere da parte dell’Amministrazione comunale, Riders Union e le piattaforme che (e se…) ci staranno una Carta dei diritti del lavoro digitale a riconoscimento di diritti e tutele essenziali e ineludibili.
Un’iniziativa, è bene ricordarlo, che non parte per iniziativa delle Istituzione, che pure nel caso si sono finora dimostrate quanto meno ricettive, ma dalla capacità mobilitativa prima e di elaborazione poi dei riders organizzati, che hanno sottoposto per prima alle istituzioni e alle aziende una Piattaforma rivendicativa.
Perché partire da una contrattazione metropolitana, allora? Per una serie di motivi, crediamo.
Primo, perché la città è luogo stesso della produzione della ricchezza incamerata dalle piattaforme, potremmo dire è la “piattaforma materiale” sulla quale i rider vengono fatti correre giorno e notte e quindi l’istituzione locale non può girarsi dell’altra parte.
Ed anche per questo che stiamo spingendo affinché, nelle specifiche competenze istituzionali, vengano messi a punto e utilizzati anche strumenti amministrati sanzionatori.
Secondo perché si vuole superare una contraddizione che ci sembra chiara: da un lato, allo stato attuale, il Diritto del Lavoro risulta assolutamente arretrato e inadeguato a riconoscere e quindi tutelare queste nuove figure del lavoro. Dall’altro, anche solo ad un livello “minimo”, nei seppur erosi riferimenti normativi, sembrerebbe inevitabile (perlomeno) il riconoscimento della non-autonomia dei rider dalle piattaforme, così come è vero che esistono già tutti i possibili contesti contrattuali collettivi (non solo il CCNL Logistica, ma diversi altri tra cui il Servizi Recapito) per un inquadramento dei rider.
Eppure la contraddizione sta proprio qui: le devastanti “riforme” in senso neoliberista operate nell’ultimo ventennio ed i particolare negli ultimi anni non solo hanno sfigurato irrimediabilmente un sistema di diritti precedentemente consolidato, ma soprattutto hanno favorito un rapporto di forza, materiale e culturale, nella società e nel mondo del lavoro, drammaticamente a favore del capitale, che nel caso dei “nuovi” settori come quello del food delivery si manifesta in maniera plastica.
È evidente quindi che per conquistare l ‘“ovvio” nonché legittimo riconoscimento formale, con il corollario di diritti e tutele, è necessario ricostruire rapporti di forza laddove è possibile ricostruire lotta e organizzazione. Ciò non significa che non va fatto ogni tentativo e utilizzato ogni strumento, ma la realtà attuale ci dice che senza questi elementi difficilmente, da sole, dichiarazioni di principi o cause giudiziarie potranno darci ciò che è dovuto.
In conclusione, due riflessioni per provare ad avere un pensiero lungo e uno sguardo ampio. .
In primis, partire dalle città non significa rinchiudersi nel localismo, al contrario. Ripartire dalle città e dai territori a nostro avviso significa immediatamente pensare una spazialità politica europea, anche nell’agire sindacale. A riprova, l’Assemblea nazionale di Bologna tenutasi ieri e alla quale abbiamo partecipato anche da Padova è stata introdotta dalle esperienze di Bruxelles e Parigi, e si è conclusa con la proposta di una mobilitazione coordinata e diffusa dei rider per il 1° maggio in tante città italiane ed europee
In secondo luogo, aprire faticosamente delle strade per il riconoscimento concreto di diritti, tutele, giusto salario per i rider, attraverso i più svariati strumenti, non solo significa partire dalla materialità piuttosto che dalle formalità del riconoscimento stesso, ma ci obbliga anche a rivendicare e lottare per un orizzonte di nuovo welfare universalistico, adeguato ai tempi presenti, dentro e contro le trasformazioni del lavoro e della vita imposte dal sistema capitalistico globale.
È anche così che la lotta dei rider potrà essere una piccola ma importante parte di un movimento di trasformazione più grande.