Cosa dire e scrivere sulla manovra economica predisposta dal Governo Meloni per il 2023 se non che prosegue il solco segnato dal Governo Draghi, che ha usato tutte le risorse disponibili, nel nome del dio PIL per sostenere le attività economiche e produttive, grandi e piccole. Ha congelato, ridotto e dirottato quelle che, in piccolissima parte, il Governo Conte 2 aveva dedicato al sostegno delle fasce meno abbienti. L’impianto economico e sociale è segnatamente neo liberista, nella variante italiana che prevede la compressione massima del costo del lavoro (salari/stipendi) in tutte le sue varianti e, in aggiunta, sposa in toto le richieste tracciate dalla Confindustria di Bonomi. La reintroduzione dei voucher per il lavoro povero e a chiamata, così come il prosciugamento del reddito di cittadinanza grondano odio sociale.
É il PIL, Bellezza!! Maledetti parametri europei per il PNRR!! Si grida, sconsolatamente.
Ora lo dicono tutte le forze sociali e politiche, anche quelle conniventi coi precedenti governi: dai sindacati confederali a quelli di base, dalla Caritas a Legambiente, dal PD a Potere al Popolo.
Ci sembra importante sottolineare che il Governo Meloni riesce a valorizzare l’imprinting subculturale e sociale neo fascista ‘dio, patria e famiglia’ che trovano uno spazio economico, tra la pioggia di interventi distribuiti ai vari segmenti o gruppi di pressione.
Infatti ci ha messo (famiglia) 1 mese in più di congedo pagato al 100% per maternità e il sostegno economico e sociale in base al numero di figli; ha stanziato (dio) un bel gruzzolo per le scuole private e confessionali; ha frenato (patria) sui dispositivi relativi all’autonomia regionale differenziata. L’odio politico, verso i diversi per ceto, comportamenti ed orientamenti, incompatibili col regime, è rinverdito con il linciaggio sociale verso “i parassiti e fancazzisti che godono dei privilegi del reddito di cittadinanza e sottraggono risorse ai cittadini laboriosi”. Da qui discendono i tagli, i limiti e le barriere che porteranno l’esaurimento in breve del RdC.
Il DNA della politica economica e sociale del fascismo è riconoscibilissimo nella manovra finanziaria, ancorché rivendicato implicitamente (pericoloso e preoccupante) dalla Meloni che definisce la sua “una manovra prettamente politica”. Neo liberismo e cultura antropologica para fascista costituiscono una miscela politica ed economica micidiale.
Una manovra politica, una legge finanziaria con cui dovremo scontrarci, dovremo battagliare producendo lotte e conflitto sociale ovunque siamo in grado di intercettare ed indirizzare il malessere, le difficoltà, le aspettative che percepiamo nelle realtà lavorative, sociali e territoriali. Solo il conflitto e le lotte diffuse nel loro divenire possono strappare e scardinare i margini dentro cui vogliono imbrigliare il desiderio di cambiamento che vive latente nella società; non riusciamo a pensare che manifestazioni nazionali identitarie o presuntuosi scioperi generali riescano a modificare alcunché della manovra in essere.
Ma non di solo PIL vive la società: questo costrutto politico culturale lo dobbiamo eradicare. La pretesa neutralità degli indicatori economici sono la dittatura sistemica che condiziona, anche nel profondo del pensare collettivo, la nostra vita sociale. Il PIL è stato sussunto socialmente – purtroppo – come unico e universale criterio di misurazione del benessere economico e del benestare: questo legittima ogni decisione presa in suo nome dalla ‘governance istituzionale’ al potere in questa o quella fase.
Non è qui il luogo per trattare dettagliatamente dell’evoluzione concettuale del Prodotto Interno Lordo (PIL) quale termometro dell’economia di un paese. Basti ricordare che Il PIL non è nato in tempo di pace ma in tempo di guerra, a ridosso del 2°conflitto mondiale, con l’elaborazione teorica dell’economista russo Simon Kuznets, sbarcato negli Stati Uniti poco dopo la rivoluzione bolscevica e il contributo fattivo di Roosevelt che nel 1942 lo chiama a far parte del ‘War Production Board’. E così, nel suo discorso al Congresso americano nel gennaio 1945, il presidente Roosevelt utilizza per la prima volta il concetto di prodotto interno lordo. Un indicatore che diventa poi il riferimento anche per indirizzare l’economia post bellica. E che, nonostante le resistenze e il tentativo di Kuznets di evidenziarne tutti i limiti, finisce con il diventare il parametro, il numero, il sistema attraverso cui misurare, da quel momento in poi, la tenuta delle economie, le prospettive di sviluppo, le scelte politiche.
Nel corso di questi 80 anni trascorsi dalla formulazione teorica del PIL, molti economisti e politici, a tutti i livelli, accademici ed istituzionali, hanno cercato di smantellare la presunta oggettività dei suoi indicatori statistici, senza riuscire a metterlo in discussione realmente, perché sorretto dall’incedere sempre più potente e trionfante del neo liberismo e della globalizzazione. Così le rilevazioni economico sociali sono e rimangono lavori misconosciuti, di nicchia, utili solo per lavori accademici ed esperti di settore. Tali sono rimasti l’Indice di Sviluppo Umano (ISU) basato su tre diverse dimensioni dello sviluppo quali reddito, educazione e salute, promosso dall’ONU nel 1990 o il Better Life Index (BLI), accolto dal OCSE nel 2011, quale misuratore del benessere materiale e della qualità della vita dei cittadini, basato su 11 criteri [(abitazione, reddito, lavoro) + (relazioni sociali, istruzione, ambiente, governance, salute, soddisfazione personale, sicurezza, rapporto tra vita privata e lavoro)]. Come pure l’indice del Benessere Equo e Sostenibile (BES), elaborato da Enrico Giovannini per conto del CNEL/ISTAT nel 2013, anche se viene inserito come pro memoria nella Legge di Bilancio.
Non è, certamente, assumendo un indicatore piuttosto che un altro che si risolvono le problematicità del quotidiano di ciascuno e delle classi subalterne, solo il conflitto sociale è in grado di spostare gli equilibri nella distribuzione della ricchezza socialmente prodotta, ma sarebbe il segnale di una svolta paradigmatica nell’impostazione della politica economica e finanziaria nazionale, comunitaria ed internazionale.
Tutt* riconosciamo il potere del simbolico nelle rivoluzioni sociali.
É urgente lavorare concretamente per trasformare i ‘cambiamenti sociali, economici e relazionali che noi abbiamo prodotto e riprodotto’ – costituiti da una miriade di concrete reti di cooperazione, mutualismo, produzione alimentare e di beni di consumo durevoli, di ecologismo comportamentale, di rispetto reciproco, di accoglienza ed inclusione e di tant’altro – in un simbolico orizzonte collettivo, praticabile e riproducibile.
Una possibile manifesta/azione da realizzare concretamente nella vita collettiva ed individuale i cui lineamenti possono essere rintracciati e rielaborati – non banalizzati – nelle proposte di critica economica ed ecologia sociale di Andrè Gorz, Serge Latouche e molti altri, là dove si afferma: “*Nel contesto capitalistico l’organismo economico, cioè l’organizzazione della sopravvivenza della società, non è più in simbiosi con la natura, ma promuove il suo sfruttamento senza pietà, poiché deve crescere in modo infinito, come deve crescere il suo feticcio, il capitale, trasformando in merce il mondo intero. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo primordiale, se non addirittura l’unico dell’economia e della vita. Non si tratta più di crescere per soddisfare dei bisogni riconosciuti, cosa che sarebbe positiva, ma di crescere per crescere.”
*S. Latouche, 2017, Le risorse non sono infinite.