Un commento a margine del saggio a cura di Sandro Chignola e Devi Sacchetto, “Le reti del valore. Migrazioni, produzioni e governo della crisi”. Il volume è l’esito del convegno padovano su «Globalizzazione e crisi»
Estensioni transnazionali e predatorie della logistica
di Girolamo De Michele
tratto da Il Manifesto
La figura del «lavoratore migrante» costituisce un nodo problematico per chi, al di là delle sintesi statistiche quantitative, dei grafici sempre cartesiani e dei flussi che trasformano le soggettività in processi omogenei da governare, indaga la composizione di classe delle soggettività al lavoro.
ED È INDUBBIO che le segmentazione e differenziazione che attraversano e il lavoro nel terzo millennio sono caratterizzate da un nuovo soggetto migrante, non riconducibile al lavoratore salariato novecentesco.
Le reti del valore. Migrazioni, produzioni e governo della crisi raccoglie gli atti dell’importante convegno su «Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore» (tenutosi a Padova un anno fa, il 4 e 5 febbraio), coordinato dagli stessi curatori del volume Sandro Chignola e Devi Sacchetto, e cerca di comprendere il modo in cui le reti produttive transnazionali attraversano e riconfigurano i confini nazionali e mettono in discussione lo stesso spazio politico europeo, ma anche le pratiche politiche di queste nuove soggettività: con buona pace di chi sostiene che al giorno d’oggi non si fa più inchiesta, o di chi l’odierna classe al lavoro la legge solo nei (supposti, e spesso fantasmatici) flussi elettorali britannici e statunitensi.
Dagli interventi e dalle immersioni dirette nel lavoro vivo e nelle lotte in questo volume appare evidente come le coppie Nord/Sud, Europa/Mediterraneo, logistica/produzione, i concetti di lavoro autonomo e/o precario, capitalismo finanziario e/o predatorio vadano rimessi a fuoco.
RIDEFINIRE IL PRISMA interpretativo significa però rideterminare l’oggetto su cui fare scienza, ovvero il soggetto dell’inchiesta: la forza-lavoro intra-europea, il lavoratore multinazionale. Assumendo un approccio transnazionale alle modalità e categorie dello Stato neoliberale, e quindi centrando l’analisi sul passaggio dalla working class agli hired labours, diventa fondamentale la comprensione delle dinamiche distributive/produttive della logistica, nel cui campo si è operata una vera e propria rivoluzione: la formazione di uno spazio politico-economico poroso, proteso verso la dimensione globale, in transizione anche geografica (vedi lo spostamento ad est dell’asse della logistica, con Foxconn nella Repubblica Ceca o Amazon in Polonia).
Lo spazio europeo viene così ridefinito non dai confini nazionali (la cui perduta centralità nessun sovranismo di ritorno potrà ripristinare), ma come una formazione politica inedita, espressione delle interconnettività produttive all’interno di relazioni mobili e flessibili con il territorio, i confini, le appartenenze e i diritti.
L’ESTENSIONE transnazionale della logistica è sia condizione della produzione che produzione essa stessa: il sistema nervoso della riarticolazione dei flussi produttivi che ridefiniscono i processi di gerarchizzazione, razzializzazione e mobilità. Ma è anche esempio dell’estensione del sistema produttivo in catene globali, con molteplici conseguenze. La prima è la destrutturazione delle cornici istituzionali all’interno delle quali si era costituita la mediazione con la forza lavoro; un crepuscolo della cittadinanza in cui lo Stato rinuncia a rappresentare l’universale.
La seconda ricaduta è la modifica della composizione di classe e dei rapporti di lavoro: valorizzazione del brand e invisibilità del lavoro vivo migrante si congiungono in un perverso legame. Ulteriore implicazione concerne i nuovi processi di soggettivazione e di ricontrattazione delle identità; il lavoratore migrante multinazionale è preso in un continuo gioco dell’elastico fra processi di soggettivazione e assoggettamento, in un intreccio fra precarizzazione salariale crescente e crescente vulnerabilità politica, entro cui si giocano le segmentazioni di genere, classe, età, lingua e cultura. Infine, i processi di valorizzazione attraverso la determinazione finanziaria della produzione, e la messa a valore dell’immaterialità.
EMERGE QUI come la presupposizione che il potere sia dappertutto – che le funzioni di comando siano distribuite analiticamente attraverso il processo di distribuzione irrelato con quello produttivo – non implica una concessione a teorie «deboli» che vorrebbero l’evaporazione del comando, ma una più acuta comprensione analitica delle sue funzioni. Fra esse, quella governance attraverso i numeri che pre-struttura il territorio sul quale si andrà ad esercitare la decisione politica. Riducendo il lavoro a calcolo dell’occupazione – e i lavoratori stessi a «forze di lavoro» – si eclissano la qualità del lavoro e il suo (ipotetico) contributo all’effettivo esercizio della cittadinanza, mentre le forme quantitative della governance assumono l’aura di una procedura tecnica dall’indiscussa autorità. La crisi è così governata sul piano giuridico e istituzionale, e la recessione diviene elemento centrale nella gestione globale dei processi produttivi.
INDAGARE IN MODO non neutro la composizione del lavoro vivo contemporaneo significa allora qualificarla nelle differenze che la percorrono, scrivono Chignola e Sacchetto nell’introduzione, «affinché queste differenze possano essere tradotte in una composizione politica soggettiva all’altezza del capitalismo contemporaneo»: dar voce ai processi di soggettivazione che rompono con le loro lotte la riduzione del lavoro vivo a mero capitale variabile, far parlare questa differenza nel loro rivendicare il diritto alla capacità di aspirare, alla ricerca, al futuro.