La lotta, una delle tante nel corso degli ultimi tre anni, dei facchini al magazzino Kamila ci insegna ancora una volta che la dignità di chi alza la testa dopo aver subito per anni sfruttamento e caporalato industriale è sempre più forte dell’infernale meccanismo degli appalti e dei subappalti che coinvolge la filiera dei magazzini che riforniscono Coop alleanza 3.0, la più grande cooperativa di soci consumatori in Italia, la quale fattura qualcosa come 5 miliardi di euro all’anno.
Ed è più forte anche di chi ha provato a sgomberare con la forza il presidio che si era instaurato la scorsa settimana, già dalle prime ore del giorno, davanti ai cancelli del magazzino dello sfruttamento e della precarietà.
Il magazzino dello sfruttamento sì. Perché lo chiamiamo così? Dovremmo forse chiederlo alle centinaia di persone, TUTTE (è un caso?) di origine straniera che sono transitate, chi per due mesi, chi per otto, chi per dodici, all’interno delle mura di via dell’Industria. Chiedetelo a chi per mesi, se non per anni, si è sentito dire dai responsabili “corri, vai, più colli o non ti rinnovo il contratto! non fai straordinario? allora domani stai a casa”. Il tutto in un posto dimenticato dalla città, senza una mensa degna di questo nome, completamente al di fuori del piano del trasporto pubblico locale. Lo sfruttamento che ha vissuto sulla propria pelle anche Khan Hasan, un ragazzo di 22 anni, originario del Bangladesh come decine di altri suoi colleghi o fratelli che, il 18 novembre scorso, dopo un turno di quasi dieci ore iniziato alle 4,30 del mattino, è stato investito da un treno che passava a poche decine di metri dall’entrata del magazzino.
Eh sì, perché i facchini, la maggior parte a bordo di monopattini o biciclette, piuttosto di percorrere strade buie e poco illuminate alle 4/5 del mattino, con camion e mezzi pesanti che sfrecciano a tutta velocità, si prendono il rischio di percorrere un via “alternativa”, meno trafficata ma che prevede il passaggio attraverso i binari del treno, senza che ci sia un adeguato passaggio a livello. Da anni sollecitiamo alle istituzioni del territorio, in primis alla giunta del Comune di Parma, interventi strutturali, ma, come spesso accade in Italia, si è arrivati alla tragedia senza AVER MOSSO un dito in tal senso: piste ciclabili degne di questo nome, illuminazione, maggiori mezzi pubblici (abbiamo provato a partire dal centro città: un ora e venti minuti, dovendo comunque fare l’ultimo tratto, buio e senza marciapiede, a piedi).
Sfruttamento è anche sinonimo di sotto inquadramento: i facchini, oltre a dover sopportare turni faticosi, ad orari improbabili, con straordinari che diventano spesso obbligatori se si vuole vedere rinnovato il proprio contratto, non sono inquadrati al corretto livello, che significa che percepiscono una minore retribuzione rispetto a quella che dovrebbero ricevere secondo le normative contrattuali.
Il magazzino della precarietà. La cooperativa che gestisce la manodopera presente nel magazzino, MD SERVICE, rivendica un sistema in cui almeno 40/50 facchini su 130, almeno secondo i dati di cui siamo a conoscenza, hanno un contratto precario, cioè a tempo determinato, e quindi più ricattabile, sfruttabile, ricambiabile, per ovvi motivi. Personale che movimenta anche (tot…) colli l’ora, e quindi ampiamente produttivo e a pieno servizio, per utilizzare le squallide categorie aziendaliste, altro che cooperative… Personale che viene continuamente rinnovato per, mediamente, tre/quattro volte “senza causale”, grazie al famigerato JOBS ACT, fino ad arrivare spesso a 11/12 mesi di servizio per poi dargli il benservito con un SMS il giorno stesso della scadenza del contratto.
Proprio per respingere l’ennesimo tentativo di derubricare a un numero le vite e la dignità di decine di persone, tra il 24 e il 25 febbraio scorso decine di facchini consapevoli, arrabbiati, sindacalizzati, hanno deciso di uscire da questo inferno che qualcuno ha ridefinito “caporalato industriale”, scioperando per uscire dall’invisibilità a cui questo sistema li vuole condannati, chiedendo reddito, diritti contrattuali, indennità integrative.
E dignità.
Perché essere un numero da utilizzare e poi scartare, come già successo a decine di loro fratelli, non era più accettabile. Non era accettabile non fare ferie, avere centinaia di ore non retribuite, pagare per il rinnovo del proprio contratto, questo gridava il primo gruppo che ha avuto coraggio di alzare la testa tre anni fa. Non è accettabile ora vedere che sì, alcune cose sono cambiate, ma (finte) cooperative continuano a lucrare indiscriminatamente sulla pelle di queste persone.
Non è servito a nulla la minaccia da parte del funzionario di polizia la mattina del secondo giorno di sciopero, che riferendosi al noto DDL Sicurezza diceva a queste persone “basta, da adesso non potrete più lottare in questo modo, le direttive sono chiare!”
Bene, se le aziende e le forze del male che accorrono in loro aiuto pensano che basti questo a far capitolare la voglia di diritti e di libertà di queste persone ha fatto male i conti. La sicurezza di un lavoro giusto e con tutti i diritti (ferie e malattie retribuite, per fare un esempio) è arrivata in questo magazzino, come in tanti altri, solo grazie a lotte che hanno interrotto il flusso di merci e di denaro : senza queste persone l’intero sistema della logistica non esiste! E allora che i legislatori pensino un po’ di più a come spezzare questo meccanismo infernale fatto di appalti, e subappalti che ogni anno produce, oltre che sfruttamento, sperpero di soldi pubblici in inchieste, processi, sequestri (gli ultimi in ordine di tempi DHL E BRT) e non a criminalizzare chi invece chiede semplicemente il pieno ripristino della legalità giusta (lo mettiamo?)e della trasparenza all’interno di questi luoghi dove, senza una presenza sindacale forte ed organizzata, continueranno a regnare opacità, caporalato industriale e schiavismo.
BASTA DISEGNI DI LEGGE SECURITARI ED INUTILI, la vera sicurezza è dare reddito, dignità, percorsi davvero sicuri per raggiungere il posto di lavoro come al magazzino Kamila.
Fino a che non verranno discusse in maniera seria queste tematiche, le persone continueranno a interporsi negli ingranaggi del profitto, l’unico modo per tornare ad essere visibili e pienamente esseri umani.