Il 25 novembre, quest’anno curiosamente è fondamentale giornata mondiale di lotta contro tutte le forme di violenza sulle donne che celebrazione laica del modello di sfruttamento capitalistico globale incarnata nel black friday, ci mobiliteremo in una situazione salariale e lavorativa ancor più aggravata dalla crisi pandemica. Nell’ultimo trentennio in Italia le buste paga – ci dice l’INAPP – sono scese del 2,9%, unico paese dell’area OCSE a segnare un saldo negativo. Peccato che nello stesso periodo la produttività sia aumentata del 21,9%, finendo evidentemente nelle tasche padronali per intero.
Nello stesso periodo abbiamo visto proliferare la giungla della precarietà, a tal punto che oggi su dieci nuovi contratti firmati, otto sono “atipici”. O almeno definiti come tali, nonostante siano la regola e non l’eccezione. La progressiva deregolamentazione del lavoro, la diffusione dei cosiddetti “contratti pirata”, gli scarsissimi risultati a livello di contrattazione nazionale e infine la crisi generata dalla pandemia e poi dalla crisi energetica, hanno portato ad una situazione in cui la dimensione del working poor è oltre cinque volte la media europea e l’8,7% dei salari non arriva a toccare i 10 mila euro l’anno. Lavori precari, intermittenti, che garantiscono un reddito non continuativo e incapace di garantire uno standard di vita adeguato. Condizioni che non colpiscono tutte allo stesso modo, e che si sono fatte sentire in particolare per le donne, le giovani, le migranti.
Come se non bastasse, la combinazione tra inflazione e crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina peggiorano un panorama che di per sé è già estremamente grave. Nonostante questo, è quotidiano l’attacco che le forze di governo portano al Reddito di cittadinanza – unica misura che in questo ultimo periodo è riuscita ad evitare che milioni di persone sprofondassero nella povertà assoluta e ad incrinare il ricatto occupazionale in alcuni settori ad alta intensità di sfruttamento – mentre la proposta di un salario minimo legale è stata derubricata a favore di disposizioni liberticide, come quella recente “sui rave”, e di misure economiche a favore delle grandi ricchezze, come la flat tax.
Il lavoro povero, descritto come fase di passaggio verso forme di lavoro stabili e garantite, è in realtà oggi una realtà esistenziale e strutturale, da cui una fetta significativa di lavoratrici e lavoratori non riesce ad uscire e che finisce così per condizionare l’intera vita.
Spesso il lavoro povero è lavoro femminile: in Europa il divario salariale donna – uomo è del 16%, i salari diminuiscono per le madri nei 24 mesi successivi alla nascita dei figli e vi sono per le donne meno prospettive di carriera e miglioramento della propria condizione economica, come è un fatto l’altissimo ricorso al part-time (spesso imposto e non volontario) e il fenomeno della perdita del lavoro da parte delle donne che ha raggiunto durante e dopo la pandemia percentuali altissime.
In Italia solo il 49,5% delle donne ha un posto di lavoro, di cui solo il 31% a tempo pieno.
Inoltre, molti settori di lavoro povero sono quelli in cui sono impiegate prevalentemente lavoratrici (turismo, educazione, lavoro sociale, lavoro domestico, sanità). E infatti le differenze di genere sui salari, nonché le differenti condizioni lavorative delle donne hanno ripercussioni a lungo termine sia in termini reddituali che di accesso alla previdenza pubblica: le donne italiane over 65 hanno un reddito annuo del 11% inferiore a quello degli uomini della stessa età.
Anche i dati relativi all’Indice sull’uguaglianza di genere (Gender equality index) recentemente pubblicati mostrano che in Italia il raggiungimento della parità di genere sembra un obiettivo ancora lontano.
In una situazione come quella descritta, la frammentazione sociale, riflesso di quella contrattuale, diviene la principale zavorra per tutti i lavoratori e lavoratrici e il migliore alleato di quella piccolissima fetta di popolazione che intasca la ricchezza prodotta. Anche noi, come a più riprese affermato dal collettivo di fabbrica GKN, pensiamo che solo attraverso forme di convergenza tra le lotte si possa contrattaccare adeguatamente per tentare di riconquistare terreno e affermare nuovi diritti, in primis a livello di reddito universale e salario minimo legale, misura quanto mai urgente in Italia.
Per questo, proponiamo di caratterizzare il 25 novembre, che oltre ad essere il black friday è la data di mobilitazione mondiale contro tutte le forme di violenza sulle donne, come giornata di lotta contro il lavoro povero, per il reddito universale e il salario minimo legale.
Invitiamo a mobilitarsi a partire dalle quelle situazioni emblematiche sui luoghi di lavoro e nei territori che uniscano chi, in settori diversi, con contratti diversi, vive una stessa condizione che può essere rovesciata solo attraverso una risposta comune.
VENERDI 25 NOVEMBRE
GIORNATA DI MOBILITAZIONE NAZIONALE CONTRO IL LAVORO POVERO
PER L’INNALZAMENTO DEI SALARIO E IL SALARIO MINIMO DI ALMENO 10 € ALL’ORA
PER LA DIFESA E L’ESTENZIONE UNIVERSALISTICA DEL REDDITO DI CITTADINANZA