Nella giornata di ieri, i carabinieri di Padova hanno eseguito 11 arresti, di cui 9 nei confronti di pakistani e altri due a carico di italiani, nell’ambito di un’inchiesta su un’organizzazione che sfruttava lavoratori stranieri. Gli indagati sono accusati anche di rapina, estorsione e sequestro di persone.
L’indagine era iniziata nel 2020 quando, lungo la SS 16, nel comune di Piove di Sacco, era stato trovato un pakistano lasciato a margine della carreggiata con le mani legate dietro la schiena. L’uomo era stato vittima di un violento pestaggio e di rapina. Altri pakistani, poco dopo, erano stati trovati abbandonati per strada dopo essere stati malmenati e derubati dei loro averi, mentre 5 connazionali si erano presentati al pronto soccorso di Padova per avere subito un analogo trattamento. I carabinieri hanno scoperto che le aggressioni erano legate ad un unico evento, lo sfruttamento di lavoratori, tutti pakistani, da parte di un’organizzazione composta da connazionali, che si avvaleva della facciata di una società, con sede in Trentino, che forniva operai ad alcune aziende del nord.
Dalle indagini è emerso che i componenti dell’organizzazione usavano metodi violenti per soggiogare e intimidire i lavoratori, tutti alloggiati in abitazioni nel Padovano e impiegati all’interno della Grafica Veneta, azienda leader nel settore della stampa e pubblicazioni libri.
Oltre agli “aguzzini”, ci sono l’amministratore delegato e il direttore dell’area tecnica di Grafica Veneta Spa, tra gli 11 arrestati. I due dirigenti, secondo la Procura di Padova, erano a conoscenza della situazione di illegalità e dei metodi violenti usati dall’organizzazione per soggiogare e intimidire i lavoratori.
“Non eravamo a conoscenza di questa situazione” (sic!) hanno prontamente dichiarato gli amministratori di Grafica Veneta: ma è proprio così? Noi naturalmente crediamo di no, e con queste riflessioni (frutto anche di esperienze passate) proviamo a spiegare il perché.
L’articolo apparso sul giornale descrive purtroppo l’ambiente e le condizioni di lavoro all’interno di alcune aziende presenti nel nostro territorio. La prima riflessione che viene in mente è che, al di la del tanto decantato mitico nordest e la retorica legata al sud italia, anche qui si trovano spesso condizioni di grande sfruttamento, ai limiti della schiavitù. Una vicenda veramente grave, non solo per le condizioni di impiego ,ma perché si tratta di una grande azienda che tra i suoi clienti vanta molti big ed e’ nota per avere fatto bella mostra delle mascherine donate (facevano letteralmente schifo) con la sponsorizzazione di Zaia. Quanto scoperto, gli arresti e le conseguenze che questo fenomeno ha, li conosciamo molto bene.
Come ADL COBAS il caporalato lo incontriamo, lo denunciamo e lo combattiamo da sempre. Tuttavia, è una cosa ben risaputa che nel segmento della movimentazione della merce, come in agricoltura e in altri settori non solo a basso valore aggiunto, la richiesta di lavori sporchi, pesanti e pericolosi generi le premesse perchè si diano forme di intermediazione illecita della forza lavoro, di grave sfruttamento e violenza. Da questo punto di vista una legge contro il caporalato è stata anche introdotta ed è pure piuttosto dura negli aspetti repressivi. Ciononostante, ed è qui il primo spunto di riflessione che vogliamo evidenziare, il fenomeno persiste, anche con manifestazioni sfacciatamente palesi, a dimostrazione del fatto che le sanzioni previste non fanno sicuramente paura. Ci riferiamo a questa nuova inchiesta che riguarda una azienda leader nel mondo della stampa a livello mondiale e al fatto che non riguarda piu’ solo le tante realtà che anche a nord-est continuano tranquillamente a sfruttare i lavoratori per rifornire le catene della GDO. In questi ultimi anni abbiamo denunciato molte aziende che hanno utilizzato forme varie di caporalato e tra queste ricordiamo l’azienda agricola Tresoldi di Albignasego – fornitrice di ALI, ASPIAG-DESPAR, FAMILA, PRIX, IPERLANDO solo per fare alcuni nomi – che nonostante abbia subito a dei maxi blitz di tutti gli organi ispettivi e delle forze dell’ordine che hanno riscontrato il gravissimo sfruttamento denunciato dai lavoratori per lo più in nero, ha continuato a produrre alle stesse condizioni per molto tempo ancora. Per affrontare il caporalato è fondamentale un sistema di controlli capillare ed efficiente. Peccato che ciò non si dia: e non solo perché gli organi ispettivi sono drammaticamente sottodimensionati rispetto al numero di aziende e delle stime del fenomeno, ma secondo noi anche perchè non sembra esserci la volontà reale di affrontare gli elementi strutturali e gli interessi economici che creano le premesse, se non la legittimazione, dell’intermediazione illecita. Pensiamo solo al ruolo della grande distribuzione e dell’industria agroalimentare nell’imposizione dei prezzi sul campo o alle lunghe catene di appalti e subappalti nei magazzini della logistica, come nel comparto del tessile – abbigliamento, che con le loro strategie aziendali rendono praticamente impossibile il riconoscimento dei diritti e delle retribuzioni previste dal contratto. Uno stato di cose oramai ben noto a tutti, ma sul quale si continua a sorvolare concentrandosi unicamente sugli ultimi anelli della catena dello sfruttamento. Che vanno colpiti, su questo vogliamo essere chiari, ma non si può più far finta che sia solo la questione di alcune mele marce. Il punto è che a livello politico generale non si vuole mettere in discussione la struttura di alcune catene del valore o l’inclusione subalterna di alcuni lavoratori, ci riferiamo principalmente ai migranti, per i quali si possono tollerare condizioni di impiego substandard. La competizione globale passa anche attraverso questo assetto produttivo e sociale, è chiaro.
Ricordiamo anche la vicenda dell’arresto dei tre responsabili della fornitura e gestione della forza lavoro all’interno del magazzino Acqua & Sapone di Padova, che ci obbliga però a porre sotto i riflettori un ulteriore fenomeno, questa volta legale e ben più esteso del caporalato di cui è però talvolta la cornice e parte integrante del repertorio di strategie di competizione basate sulla riduzione del costo del lavoro. In riferimento a questo caso specifico ciò che emerge dalle prime indiscrezione che sono uscite dai giornali è che all’interno di Gottardo Spa si sperimentava un complesso sistema di organizzazione del lavoro e di sfruttamento che vedeva un intreccio indissolubile tra il reperimento di forza lavoro straniera tramite il caporalato, una capacità di sfruttare tecnicamente tutte le possibilità lecite e illecite di riduzione del costo del lavoro, ed una fondamentale accondiscendenza del sindacato. Incredibile in questo senso il contenuto delle intercettazioni telefoniche, da cui emerge il tentativo concorde del caporale e dell’azienda di utilizzare la CGIL per arginare la crescita di ADL. Deve essere chiaro, all’interno di Acqua & Sapone questo fenomeno si era di molto ridimensionato con la crescita della presenza di Adl Cobas che ha portato le aziende appaltatrici a sottoscrivere accordi che si muovono nella direzione di rimuovere ogni aspetto di illegalità all’interno del magazzino. E’ importante ribadire questo concetto, in quanto se non si stabilizzano i processi di autorganizzazione, le inchieste della magistratura o le ispezioni degli organi di controllo, superata la fase delle sanzioni passano e rimane sempre il rischio di un ripristino della situazione di illegalità.
Poi ricordiamo anche la storia del caporalato “indiano” che abbiamo scoperchiato nei magazzini dell’AGROALIMENTARE: Unicomm, MaxiD, Aspiag, per citarne alcuni. Il meccanismo è abbastanza semplice: se sei di nazionalità indiana e hai bisogno di un lavoro, paghi 5.000 euro per avere un contratto ad un “famoso” caporale, che ti mette a disposizione un posto letto a 330 euro al mese in un appartamento assieme ad altre 10 o 20 persone ed inizi a lavorare con un contratto a tempo determinato di tre mesi come facchino per 11 o 12 ore al giorno. Poi iniziano i rinnovi ogni 6 mesi con la speranza di ottenere alla fine il passaggio a tempo indeterminato.
Questa cosa non avviene però con un nostro iscritto: una sera, il caporale si presenta a casa sua per fargli firmare la delega in bianco per l’assemblea dei soci della cooperativa per cui lavora. Prima di firmare, il lavoratore chiede di sapere cosa c’è scritto nel foglio, il caporale gli intima di firmare e il lavoratore si rifiuta. Una settimana dopo il suo contratto non viene più rinnovato. A distanza di qualche mese, un nostro RSA molto attivo nel magazzino nel denunciare questi fenomeni, viene picchiato selvaggiamente, sotto casa, rischiando la morte, da 3 persone incappucciate.
Parlando più in generale, crediamo che debbano essere puntati i riflettori sul sistema delle esternalizzazioni – di reparti, di fasi della produzione o della circolazione delle merci – a società per lo più cooperative. Una sorta di caporalato legalizzato che attraverso lo schermo dell’appalto e, nel caso, del fine mutualistico dell’impresa appaltatrice, permette alle imprese committenti di scaricare costi e responsabilità imprenditoriali su gruppi importanti di lavoratori. Questi lavoratori hanno legalmente condizioni di impiego inferiori rispetto ai lavoratori direttamente assunti dal committente, se soci di cooperativa possono essere rimossi anche senza rispettare le procedure per il licenziamento e comunque sono sempre in balia del cambio d’appalto che arriva ciclicamente quando le rivendicazioni di salario e diritti, e quindi il costo del lavoro, superano quanto preventivato dal committente. E’ la regola aurea del cambio d’appalto che regola e scandisce la vita di questi lavoratori e che facilita il sottoinquadramento, la disapplicazione dei contratti collettivi e la diffusione delle buste paga “creative”.
Infine, sentiamo la necessità di condividere un’ulteriore considerazione. Le inchieste sul caporalato, su episodi di grave sfruttamento o sulle varie “cricche della logistica”, quando partono, non nascono nel chiuso di qualche ufficio del tribunale o della questura, hanno sempre alle spalle percorsi di lotta che fanno emergere il marcio e portano i lavoratori ad avere il coraggio di denunciare perché hanno capito che se alzi la testa da solo perdi, ma se lo fai in tanti hai la possibilità di vincere. Appelli e denunce, per lo più rimangono inascoltati, ma possono diventare un elemento dirompente quando sono accompagnati da scioperi e lotte, anche durissime, che i lavoratori stessi pagano in termini di mancato salario, e nel caso dei lavoratori di ADL COBAS anche con aspetti repressivi e criminalizzanti. Le nostre battaglie per il riconoscimento dei minimi diritti contrattuali, un corretto salario, la continuità lavorativa e la dignità non sono mai facili. Nessuno ci regala nulla, anzi, troppo spesso ci dobbiamo confrontare con una “santa alleanza” che qui in Veneto mette d’accordo Regione, aziende committenti, cooperative, sindacati confederali per bloccare chi? Il sistema che oggi è sotto accusa? No, si vogliono colpire quelle forme di autorganizzazione dei lavoratori che cercano di far valere diritti e alzare l’asticella della giustizia sociale e per questo continuano a trovare sempre maggiore seguito nel sistema delle esternalizzazioni e degli appalti. Non si tratta qui solo dei vari tentativi di escludere ADL COBAS da tutti i tavoli sindacali, parliamo anche di dichiarazioni congiunte in cui, come un anno fa in sede regionale, si chiedeva “l’intervento tempestivo delle Prefetture per ripristinare la legalità e l’agibilità dei cantieri di fronte ad agitazioni e scioperi non regolari avvenuti nelle più importanti piattaforme di logistica.”
La vicenda degli arresti per noi è quindi solo la punta di un iceberg che va visto in profondità. Esistono delle catene del valore in cui il contenimento del costo del lavoro e l’interposizione di manodopera sono strutturali e praticati con mezzi illegali e legali. In assenza quindi di una normativa più stringente sulle cooperative e dell’introduzione di tutele di continuità lavorativa realmente esigibili nei cambi d’appalto anche una battaglia serrata contro il caporalato rischia di essere monca. In particolare quando si punta il dito solo, come già detto, sugli ultimi anelli della catena, dimenticandosi che il burattinaio molto spesso è italianissimo e fa parte a pieno titolo di questo sistema.