Solo poco settimane fa ha fatto la sua prima irruzione pubblica nel nostro paese il tema dell’uberizzazione dell’economia e del lavoro: grazie all’innovativa protesta dei rider torinesi di Foodora molti organi di stampa, anche mainstream, hanno acceso i riflettori su un fenomeno crescente.
Questo si situa nella più generale trasformazione del modo di produrre, di distribuire, di consumare: la possibilità di soddisfare il “diritto al consumo” in maniera sempre più veloce, a portata di mano e a basso costo ha inciso radicalmente anche nel modo di organizzare la distribuzione e soprattutto nella produzione dei beni e dei servizi, dando luogo alla creazione di nuove frontiere della valorizzazione grazie alla capacità di fornire risposte corrispondenti a bisogni che prima venivano soddisfatti fuori della sfera della produzione.
Una di queste nuove frontiere è rappresentata dall’industria del food delivery ovvero da tutte quelle aziende, spesso start up, che sviluppano servizi urbani di ordinazione, preparazione e consegna di cibo a domicilio, attraverso una rete di fornitori (rider) gestiti da applicazioni e piattaforme digitali. Sebbene con tratti specifici, servizi simili si sono sviluppati anche nella logistica globale (vedi la modalità di gestione di Amazon) oppure in quella metropolitana delle merci, in particolare in quella legata alla Grande Distribuzione Organizzata.
È ciò che hanno incominciato a fare grandi catene di supermercati nelle città italiane: riattualizzando la spesa portata a casa spesso caratteristica delle piccole attività di vicinato, svolta dai “garzoni” come un servizio di favore rispetto ad una clientela familiare e dalla quale era possibile ricavare un piccolo salario accessorio sotto forma di mancia, ora molti catene commerciali sono invece in grado di fornire un servizio strutturato di delivery, appoggiandosi ad aziende esterne specializzate.
Anche in una città medio-grande come Bologna si è ormai sviluppato questo mercato: ormai numerose catene forniscono tali servizi, dagli ingrossi come Metro alle retail chain come Esselunga, Carrefour e Pam.
Proprio queste ultime due, il 21 ottobre scorso, sono state oggetto di una protesta da parte degli operatori di consegna di Bologna e provincia, stanchi delle proprie condizioni lavorative e contrattuali, peggiorate sensibilmente nell’ultimo anno.
A partire dal 2013 infatti, prima in forma sperimentale e via via in forma sempre più allargata, le due catene hanno incominciato ad offrire il servizio di consegna a domicilio della spesa, affidandolo all’azienda milanese For-Services srl.
Il servizio funziona così: il cliente interessato effettua la spesa presso il punto vendita oppure online, mentre For-Services (presente anche a Milano, Roma e Torino) gestisce l’intero servizio con pochi operatori presso un call center sito a Milano. Le ordinazioni sono inserite in un sistema informatico e vengono poi “smistate” in remoto tramite un’app ai driver che, dotati di smartphone e furgoncino forniti dall’azienda esterna, materialmente portano gli acquisti a casa.
I lavoratori però sono di nuovo “esternalizzati” poiché dipendenti da un terzo soggetto, Sistemi Integrati srl, società multiservizi che fornisce esclusivamente la manodopera sul campo.
Se esistono alcune differenze con i lavoratori delle aziende tipiche della gig economy – al contrario dei fattorini di Foodora e Deliveroo o dei driver alla Uber, gli operatori di For Services sono formalmente dipendenti e non mettono a disposizione propri mezzi, mentre l’app non è dispositivo di reclutamento on demand ma “semplice” strumento di assegnazione delle consegne da effettuare – nelle pieghe di questo servizio di delivery metropolitana legata alla G.D.O. è possibile rilevare tutte le problematiche del settore logistico applicato a tali tipologie di servizi metropolitani e le comuni forme di sfruttamento e precarietà.
Grosse irregolarità contrattuali (40 o 50 ore/settimana sei giorni su sette con contratti da 15 o 20 ore); carichi insostenibili e organizzazione del lavoro inaccettabile (solo 4 operatori a coprire i 23 punti vendita medio-grandi due ipermercati per l’intera area urbana di Bologna (160 km2) fino alla cittadine modenesi di Vignola e Spilamberto, un ammontare di circa 50/60 consegne giornaliere complessive e nessun orario preciso o di riferimento); e infine precarietà devastante con lavoratori che da un anno hanno lavorato con contratti prorogati settimanalmente o al massimo di un mese tramite agenzia interinale!
Le conseguenze di tali condizioni di lavoro sono facilmente immaginabili: fatica fisica e mentale costante, rischi e pericoli concreti anche alla guida, impossibilità di organizzare i propri tempi di vita fuori dal lavoro né un prospettiva di stabilità.
È evidente la strategia aziendale: nonostante questi servizi permettono sia alle committenti come Carrefour e Pam di incrementare il fatturato e la clientela dei propri punti vendita sia alle aziende appaltatrici di incamerare lauti guadagni, sui lavoratori delle consegne è necessario scaricare tutto il peso di un’attività in forte crescita nel territorio bolognese, mantenendo condizioni contrattuali instabili e organici risicati per comprimere al massimo il costo del lavoro e allungando a dismisura le giornate lavorative per estrarre più valore possibile.
È contro questa situazione che, nel giorno dello sciopero generale, i driver di Bologna hanno deciso di effettuare davanti al frequentato punto vendita Pam di via Marconi un’assemblea sindacale che è sfociata poi in un presidio informativo e volantinaggio per sensibilizzare la clientela e far capire che la “tua spesa a domicilio…” costa precarietà e sfruttamento per i lavoratori.
Nelle ore e nei giorni successivi le aziende sono state contattate per chiedere l’apertura di un tavolo di confronto sindacale per adeguare e stabilizzare i contratti, ridurre i carichi di lavoro e chiedere il rispetto degli orari d’impiego e di pausa per permettere l’organizzazione di una vita degna al di fuori degli orari di lavoro. È quindi previsto per la prima settimana di novembre un primo incontro, mentre alcune modifiche migliorative sono state già apportate.
Un prima piccola vittoria, segno che l’iniziativa di protesta ed emersione pubblica è uno strumento utile a svelare le condizioni lavorative che si nascondono dietro questi innovativi “servizi al consumatore”.
È allo stesso tempo un primo passo per ricercare tra i tanti soggetti precari quella connessione necessaria a tracciare nuovi percorsi di organizzazione e di rivendicazione per pretendere il rispetto e il riconoscimento dei diritti contro un mondo del lavoro sempre più frammentato, precarizzato e privo di tutele.