Aspettando Godot. Lavoro, reddito, rivendicazioni, elezioni.
In questa continua campagna elettorale che tutti ci avviluppa e che ci vorrebbe ot-tundere, gli attori principali fanno a gara a chi la spara più grossa, stimolando la pancia e il portafoglio dei possibili elettori con proposte e promesse su cui regolarmente si rimbeccano via social come vecchie comari di goldoniana memoria. In rare occasioni si entra nel merito dei problemi reali che ci sono imposti dalla fase politica ed economica che attraversiamo, dalla profonda crisi in cui siamo immersi.
La rivoluzione informatica, la globalizzazione, la capitalizzazione dei dati personali hanno già trasformato radicalmente il modo di produrre e di vivere, lo abbiamo più volte sottolineato, ma ora i robot, i computer, gli strumenti capaci di apprendere in maniera automatica ed auto modificarsi nel loro output, perché dotati di intelligenza artificiale, trasformeranno l’economia e la societa’ cosi’ come hanno fatto in passato l’avvento dell’elettricita’ e la macchina a vapore. A scriverlo sulla rivista Science sono l’economista Erik Brynjolfsson, del famoso MIT, e l’informatico Tom Mitchell, della Carnegie Mellon University, che provano a delineare i compiti in cui questa nuova tecnologia potra’ affiancare oppure sostituire l’uomo, creare o incamerare lavoro:
“Anche se le conseguenze economiche dell’apprendimento automatico sono ancora relativamente limitate e la ‘fine del lavoro’ spesso preannunciata non e’ ancora im-minente, le implicazioni per l’economia e la forza lavoro in futuro saranno profonde”.
Oggi, a molti, può far sorridere parlare di ‘fine del lavoro’, dato che tutti, nei partiti e nei sindacati, sia istituzionali che di base, reclamano lavoro e niente altro che lavoro oppure sono così abbarbicati nella difesa della propria specifica realtà produttiva o sociale da rasentare un miope corporativismo. Sempre abbiamo sostenuto che il problema non è il lavoro ma il reddito e la sua redistribuzione e, continuiamo a farlo, difendendo in tutte le situazioni i diritti e la dignità dei lavoratori, conquistando, ad esempio nel settore della logistica, reali e concrete riduzioni di lavoro erogato e so-stanziali riconoscimenti economici. Certo è che la trasformazione del modo di pro-durre è evidente, tanto da indurre la Commissione Lavoro del Senato e della Camera a svolgere un’indagine, di cui è stata resa nota la relazione, sull’impatto nel mercato del lavoro della quarta rivoluzione industriale, da cui emerge a chiare lettere lo sconquasso prodotto nel mondo del lavoro e della produzione dal salto tra tecnolo-gia e lavoro realizzato dalla informatizzazione della società tutta.
“…La nuova Rivoluzione industriale appare caratterizzata da tecnologie sempre più disponibili a basso costo per le imprese e le persone, destinate ad evolvere con ritmi e contenuti imprevedibili. Le conseguenze possono riguardare sia i modelli di business che i processi produttivi che, soprattutto, una nuova modalità di relazione con i consumatori e con i mercati, attraverso percorsi di coordinamento più efficienti, per-sonalizzati ed immediati resi possibili dalla tecnologia. La sua caratteristica è l’inte-grazione tra i processi fisici e le tecnologie digitali secondo un rinnovamento dei modelli organizzativi. O meglio il divenire intelligente della produzione sta seguendo una molteplicità di strade, in linea di discontinuità o continuità con il passato. Le grandi fabbriche affrontano il superamento delle linee e la loro sostituzione con “isole” autonome dove convivono uomini e macchine, team di lavoratori e robot. Le piccole imprese accentuano invece una caratteristica tutta italiana della divisione del lavoro, sono concentrate nei distretti, specializzate in produzioni di nicchia e si ado-perano per far convivere abilità artigianali classiche con quelle digitali. Anche il nuovo rapporto con i consumatori sconvolge la organizzazione del lavoro, tanto che alcuni studiosi affermano che la fabbrica intelligente sta alla personalizzazione di massa, come la fabbrica taylorista stava alla produzione di massa. Il pensiero mana-geriale non può avere oggi lo sguardo rivolto al passato, ma deve produrre lo svi-luppo di soluzioni innovative e sperimentali per favorire l’emergere di principi organizzativi rivoluzionari in grado di rendere fluido, competitivo e “umano” l’ambiente produttivo…l’Industria 4.0, a differenza della precedente rivoluzione industriale nel-la quale la tecnologia si affiancava all’uomo per migliorare e rendere più produttive le attività umane, si propone come paradigma che, sebbene parzialmente, non si limi-ta ad affiancarsi ma per talune attività si sostituisce all’uomo.”
I recenti dati ISTAT ci raccontano di 23 milioni di lavoratori occupati, di questi circa il 20% hanno un contratto a tempo determinato, a cui vanno aggregati circa 3.600 mi-la lavoratori in nero, che fanno, sommati, lievitare il lavoro precario a oltre i 7 milio-ni di persone, raggiungendo così circa la terza parte di tutta la forza lavoro occupata. Questa è, in estrema sintesi, la fotografia dell’Italia al lavoro, per nulla dissimile al mercato del lavoro europeo, se non per, e non è poca cosa, salari, stipendi e reddito di sostegno per gli inoccupati temporanei o di lungo periodo.
I dati mostrano come nel corso degli ultimi anni l’occupazione sia cresciuta in Italia in particolar modo nelle attività caratterizzate da bassi livelli di competenze e di spe-cializzazione e in quelle che, al contrario, richiedono elevata professionalità. Nello stesso arco di tempo il numero di occupati nella fascia intermedia è diminuito di cir-ca il 10 per cento in ragione della ampia dimensione di produzioni manifatturiere e, in esse, di lavori ripetitivi.
Inoltre i dati del Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (CE-DEFOP) mostrano come in Italia la percentuale di lavori caratterizzati da mansioni di tipo routinario e intermedio sia superiore alla media europea con il conseguente ri-schio di una riduzione, a causa dell’automazione, di un’ampia fetta di lavoratori facilmente sostituibili. Una polarizzazione nel mercato del lavoro italiano che lo rende maggiormente esposto alla sua trasformazione in lavoro morto, ovvero incorporato nelle macchine. Infatti le stime OCSE prevedono per l’Italia un 10 per cento di soggetti ad alto rischio di automatizzazione e un 44 per cento di occupati le cui mansio-ni cambieranno radicalmente.
Questo panorama dovrebbe indurre tutte le forze sociali a pensare in grande, oltre il proprio giardino, oltre la politica rivendicativa spicciola o settoriale, per elaborare una piattaforma di lotta con dei riferimenti comuni e unitari, dove emerga con chia-rezza che in Italia si lavora 1740 ore all’anno mentre la media europea è di 1540, in Grecia si lavora quasi 1800 e in Germania 1460, le differenze sono rispettivamente di oltre 1 mese lavorativo per l’Italia, oltre 2 nel rapporto Grecia – Germania. Dove emerga l’idea forza di una riduzione generalizzata del tempo di lavoro contrattualizzato [in se è l’intero tempo di vita che è posto al lavoro], dove si pongano obiettivi quali una dignitosa paga oraria minima [in Germania ora è per tutti di 8,50€], il diritto al riconoscimento economico della malattia per tutti, quali il reddito minimo garantito, il diritto alla formazione permanente … [altro che alternanza scuola lavoro e lavoro gratuito!!]. Una piattaforma convergente e comune sulla quale obbligare a misurarsi i partiti e le coalizioni che si candidano a governare o a fare opposizione nel paese, stanandoli dai futili giochini retorici o funambolici, senza scordarci della realtà materiale e istituzionale di cui siamo parte anche se ci vogliamo chiamare fuori.
Una realtà politico-istituzionale, dove la dialettica tra le parti sociali è messa a dura prova, spessissimo è negata, dove le Istituzioni non governano ma comandano. Senza scomodare importanti, per noi, filosofi, nella XVII Legislatura che si è appena chiusa, i suoi 3 governi hanno omogeneamente comandato, passandosi il testimone come in una staffetta coi precedenti governi Monti e Berlusconi, a forza di decreti legge, decreti delegati, e fiducie a ripetizione, svuotando il Parlamento delle sue prerogative costituzionali. In quella che è definita la costituzione materiale, cioè reale e fattiva, il principio della tripartizione e dell’autonomia dei poteri, fondamento della Costituzione formale, è completamente saltato, per fare posto ad un assetto istituzionale nel quale il Parlamento è quasi completamente esautorato, in favore di un potenziamento abnorme delle competenze del governo centrale. Il tutto, senza neppure l’ombra di riforme che modifichino alla luce del sole, con procedure traspa-renti, il ruolo e le funzioni dei principali attori istituzionali. D’altro canto i partiti, le loro rappresentanze parlamentari si sono trasformati da lunga pezza – qualcuno si ricorda di Craxi?! – in lobby di potere e, quando mai le lobby hanno agito in termini pubblici e democratici?!